20.8.16

Che cosa è il haiku (Carla Vasio)

Il famoso haiku della rana, di Basho,
illustrato in una stampa giapponese.
Quella del haiku classico è una struttura ferrea: 17 sillabe suddivise in tre versi di 5-7-5. in questa composizione così rapida vengono riportate immagini di una concretezza materica che evita qualsiasi ambiguità o allusività, qualsiasi alone simbolico, qualsiasi patetismo: nella sua istantaneità il haiku illumina oggetti i una precisione inequivocabile. L’aleatorietà, se così vogliamo dire non sta in una incertezza del tema o in una vaghezza di immagine estompée: sta piuttosto nell’omissione di alcuni nessi che dovrebbero collegare le parti del discorso, ed è in queste omissioni che si realizza l’effetto di choc della composizione.
La fente aperta tra il discorso evidente e il suo significato sotteso (non sottinteso) non viene mai colmata. E non deve essere colmata. La sua funzione è di agire come “buco nero” in cui va ad annullarsi ogni associazione convenzionale, ogni meccanismo logico di apprendimento, spingendo il lettore verso un linguaggio liberato che illumina la distanza del soggetto da qualsiasi identificazione immaginaria o simbolica.
Spesso si è detto che in un certo senso un haiku assomiglia a un koan dello Zen, cioè a una rottura delle sovrastrutture associative note, per toccare il significante primario che l’immagine contiene e che in questo caso non è sostituibile per sostituzione o per contiguità, ma solo per un annullamento della pretesa stessa di sapere.
Vediamo che cosa si può perdere della qualità intrinseca di un haiku in una cattiva traduzione. Prendiamo ad esempio un haiku di Basho pubblicato (pa.g. 50) dall’edizione Longanesi, uno dei più noti in Giappone.
Il testo, nella trascrizione fonetica, dice: “Furu ike ya / kawazu tobikomu /mizu no oto”. La traduzione letterale è: Furu, vecchio; ike, stagno; ya è un segno di accentuazione e di pausa; kavazu, rana; tobikomu (parola composta di tobu, volare e komu, entrare), si tuffa; oto, suono; no, di; mizu, acqua. La traduzione che ci viene data è: “Nello specchio antico / d’acque morte / s’immerge / una rana. / Risveglio d’acqua”. … Quello che si perde (soprattutto) è l’efficacia della parola tobikomu, suono di rottura intorno a cui le altre sillabe si aggregano, che significa “balza, si tuffa” e viene graziosamente tradotto con un “s’immerge” ulteriormente addolcito dall’elisione… quel tobikomu, che è il centro dell’interesse dovendo esprimere un colpo improvviso, una rottura, uno choc auditivo ed emozionale. [...]


“Alfabeta” n.58, marzo 1984

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