Stimolata lucidamente
dalle domande dell'intervistatrice, Simonetta Fiori, l'autobiografia
politico-intellettuale di Asor Rosa (Il grande silenzio. Intervista
sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori, Laterza, pp. 181) si snoda lungo un asse privilegiato, vale a dire la storia
degli intellettuali e dei processi culturali dagli anni Cinquanta
sino all'oggi: sino cioè al «grande silenzio» degli intellettuali,
dovuto alla loro ormai irreversibile estinzione, paragonabile -
osserva con "drammatica" ironia lo studioso - alla
estinzione dei brontosauri. La ricostruzione di questo percorso e del
ruolo in esso giocato dall'autore è complessa e ricca anche di tanti
episodi e momenti particolari, che spesso valgono ad illuminare
efficacemente il quadro d'insieme.
Si possono individuare
alcuni nodi essenziali. Il primo è quello di fondo: il decadimento
dell'intellettuale occidentale, o - come viene detto spesso - del
maître à penser, di una figura contraddistinta dall'intreccio di
tre componenti, «pensiero forte, pensiero critico, valori». Asor
Rosa mostra di non condividere la lettura che Bauman dà di tale
decadimento, visto dallo studioso di origine polacca come il
passaggio dalla figura dell'intellettuale «legislatore» a quella
dell'intellettuale «interprete», dagli anni del secondo dopoguerra
sino agli anni Settanta e alla crisi dello Stato sociale: vale a
dire, come il passaggio da chi, in chiave universalistica, si
riconosceva nella funzione di elaboratore di idee di promozione e di
direzione di un ordine sociale "progressivo", a chi,
abbandonate o dismesse le ambizioni universalistiche, mette le
proprie competenze professionali al servizio della comunicazione tra
soggetti sovrani e plurali, in un mix di specialismo corporativo e di
cultura-spettacolo. Egli preferisce parlare, più propriamente (lungo
un arco di riflessione che va da Max Weber a Bobbio), piuttosto che
di intellettuale legislatore, di un intellettuale specialista, che
«traduce le proprie competenze in un discorso di carattere generale,
e usa queste ultime come strumento per cambiare le istituzioni, la
politica, la società, talvolta l'antropologia circostante».
In ogni caso, va detto
che questo decadimento chiama in causa anche processi di
riclassificazione dei saperi negli ambiti interagenti della tecnica e
del mercato, di loro incorporazione nella macchina, entro una
tendenziale, e pur ancora ricca di contraddizioni, dilatazione
"totalitaria" del capitalismo post-fordista. Asor Rosa
parla dell'esito attuale in termini di nuova «civiltà montante»
ovvero, riprendendo una suggestiva espressione di Raffaele Simone, di
«mostro mite», in cui la televisione di massa svolge il ruolo di un
«potentissimo e gigantesco intellettuale collettivo». Qui, a mio
avviso, andrebbe richiamata l'attenzione su due categorie "classiche"
- autonomia e impegno - presenti da sempre nella riflessione
asorrosiana sulla storia degli intellettuali. Secondo lo studioso, se
nella realtà dell'Occidente la pratica dell'autonomia intellettuale
«è stata consentita storicamente solo all'interno di una società
borghese» ed è stata la più fertile di risultati, il cosiddetto
impegno della cultura si è rivelato, di volta in volta,
sostanzialmente povero e fallimentare e in Italia si è legato alla
«anomalia» della storia italiana e, in particolare, alla
«rivoluzione passiva» del Risorgimento italiano (in cui - osservava
Gramsci - in assenza di una solida rivoluzione economica borghese, la
rivoluzione è avvenuta nelle «superstrutture», con un impegno e un
primato patologico degli intellettuali). Ora in Asor Rosa queste due
categorie, pur collocate in una durata storicamente determinata,
tendono sempre poi, in qualche modo, a slittare in una pronunzia
(vagamente) prescrittiva e normativa: un libro classico, in questo
senso, è Scrittori e popolo del 1965. A ciò si collega quella che
lo studioso, nell'intervista, chiama la sua «estraneità all'autore
dei Quaderni»: estraneità che lo ha portato a non interrogare fino
in fondo nozioni come intellettuale organico, nazionale-popolare o
popolare-nazionale (si pensi che nel libro circola, sia per mano di
Simonetta Fiori che dello stesso Asor Rosa l'espressione vulgata
nazional-popolare, del tutto estranea a Gramsci: e la differenza non
è, ovviamente, solo grafica). Ma sarebbe anche da riflettere
sull'esperienza operaista di Asor Rosa, troppo rapidamente
consumatasi: egli, autodefinitosi «un trontiano critico», ripensa
oggi all'operaismo come a qualcosa che ha rappresentato anche «l'idea
che la classe operaia fosse il nuovo ceto dirigente, dotato di
caratteristiche intellettuali più forti e più innovative rispetto
alla classe sociale contro cui il movimento operaio combatteva».
Ma torniamo a quello che egli chiama «l'assoluto presente», ovvero «l'ideologia onnivora del presente», che è il punto di vista generale da cui si diparte l'intera intervista-autobiografia. Qui Asor Rosa dà vita a notazioni e spunti analitico-descrittivi assai efficaci, che mettono a fuoco, con una pronunzia sapientemente e icasticamente antropologico-letteraria, i processi, in corso da decenni, di ristrutturazione oligarchica dei poteri e di proliferazione e frammentazione corporativa e atomistica della società; e, per quanto riguarda l'Italia, riprendendo un suo articolo, Più del fascismo, uscito la scorsa estate sul manifesto, delinea i caratteri della «dittatura politico-mediatica» di Berlusconi, della «democrazia totalitaria», presente, a suo avviso, oggi in Italia.
Ma torniamo a quello che egli chiama «l'assoluto presente», ovvero «l'ideologia onnivora del presente», che è il punto di vista generale da cui si diparte l'intera intervista-autobiografia. Qui Asor Rosa dà vita a notazioni e spunti analitico-descrittivi assai efficaci, che mettono a fuoco, con una pronunzia sapientemente e icasticamente antropologico-letteraria, i processi, in corso da decenni, di ristrutturazione oligarchica dei poteri e di proliferazione e frammentazione corporativa e atomistica della società; e, per quanto riguarda l'Italia, riprendendo un suo articolo, Più del fascismo, uscito la scorsa estate sul manifesto, delinea i caratteri della «dittatura politico-mediatica» di Berlusconi, della «democrazia totalitaria», presente, a suo avviso, oggi in Italia.
È interessante osservare
come, ad onta dell'apparenza data dalle sue formule "estreme",
Asor Rosa inviti perentoriamente a non indulgere ad alcuna forma di
catastrofismo e a cercare invece le «zone di resistenza» ancora
presenti, che in Italia egli vede soprattutto nel mondo della scuola
e della magistratura: più in generale, egli delinea il compito
grandioso di «traghettare» il nucleo fondativo, il nucleo «buono»
dell'Occidente («quel mix di libertà e di socialismo, di progresso
e di solidarietà sociale, di rispetto delle regole e di rinnovamento
politico e culturale») in un «altro Occidente». Un compito, questo
del traghettamento, che si colora di forti accenti
etico-antropologici: manca la politica, si sarebbe detto una volta, e
forse - vincendo il pudore - varrebbe la pena riuscire a dirlo
ancora, se non si vuole essere né catastrofisti né brontosauri.
Liberazione 30 settembre
2009
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