«Non sono uno scrittore
di fantascienza», diceva di se stesso Ray Bradbury, morto ieri a 92
anni in California e non era per civetteria. «La fantascienza -
spiegava - è una descrizione del reale. La fantasia è una
descrizione dell'irreale. Il solo libro di fantascienza che ho
scritto è Fahreneit 451, basato sulla realtà». In un'altra
occasione era stato ancora più preciso: «Se qualche ragazzo
scriverà a matita sulla mia tomba "Egli raccontava favole",
sarò felice. Non desidero fama più grande».
Narratore di favole, sì,
ma di favole americane: favole circondate dalla trama dell'incubo,
condannate a intrecciarsi continuamente con quell'oscurità, a
misurarcisi e sfidarla, a volte a batterla con l'arma segreta di uno
sguardo capace di cogliere la meraviglia nascosta ovunque, altre
volte costrette a soccombere perché la meraviglia è troppo
imparentata con l'orrido per rappresentare un riparo sicuro.
Da Salem a Marte
Tra i grandi autori
americani della sci-fi o del fantastico diventati famosissimi
nel dopoguerra, quando immaginare altri mondi era di moda, Ray
Douglas Bradbury, classe 1920, nato nell'Illinois e cresciuto in
Arizona, è stato insieme il più europeo e il più americano di
tutti. Dall'Europa aveva preso l'amore per i miti e la coscienza
della loro importanza per la cultura di un popolo. Più e meglio di
qualunque altro tra i suoi contemporanei aveva cercato però di
portarli da quella parte dell'Atlantico per creare una originale
mitologia americana capace di insediarsi nelle autostrade
interminabili, nelle cittadine di provincia che sono la pancia
d'America, nella malinconia delle fiere di paese in autunno,
nell'euforia fragorosa delle vignette dei comics dell'epoca. Vengono
da lì l'«Uomo illustrato», il cui corpo è un fantasmagorico
compendio di favole e miti, la «Strega della Polvere», l'«Uomo
elettrico». La discendenza diretta dei grandi maestri scoperti
nell'adolescenza e mai più abbandonati: l'Edgar Allan Poe creatore
del gotico americano e l'Edgar Rice Burroughs dal cui Tarzan origina
una intera genealogia variopinta di supereroi da fumetto.
Esattamente 320 anni
prima della morte del suo più celebre discendente, nel 1692, una
delle antenate dello scrittore, Mary Bradbury, fu processata per
stregoneria, condannata a morte e poi impiccata nella poco ridente
cittadina di Salem. Forse anche per questo, il suo pronipote non
perderà mai di vista il lato oscuro dell'anima dell'America, e
cercherà non di esorcizzarlo ma di riconoscerlo, narrarlo e
trasformarlo in mito fiabesco per averne ragione e sconfiggerlo.
Cronache marziane la sua opera più famosa, quella che, anche
grazie all'intermediazione provvidenziale di Christopher Isherwood,
conosciuto per caso, lo rese da un giorno all'altro famoso nel
Cinquanta (ma raccoglieva racconti scritti nei '40), è una rilettura
della storia americana e del mito della frontiera depurato da ogni
baldanzoso trionfalismo ma anche spogliato dalla retorica facile
della colpevolizzazione. È una storia di sogni e di orrori, segnata
dalla necessità di riconoscere l'altro e il diverso - il
colonizzato, il nativo, il marziano - come non avevano saputo fare i
padri pionieri, ma non per questo rinunciando alla colonizzazione.
Dunque non solo e non tanto «rispettandolo»: piuttosto incorporando
la sua cultura e la sua mitologia tanto quanto si cerca di comunicare
a lui i propri miti e i propri valori.
Qualcosa dei roghi accesi
nella città dove fu impiccata la sua bis-bisnonna, Bradbury deve
certamente averla riportata anche nel più famoso dei suoi romanzi,
Fahreneit 451. Col 1984 di Orwell e Il mondo nuovo
di Huxley è probabilmente il più celebre e celebrato esempio di
sci-fi distopica, fortemente influenzata dalla recente fioritura di
dittature decise per la prima volta a intrufolarsi nell'intimo dei
sudditi per dominarne non solo il corpo ma l'animo. In quel mondo si
bruciano i libri, come fonte dannata di tutto ciò che è inquietante
e perturbante, e si punisce severamente chi osa nasconderli. I roghi
di carta stampata divampanti alla giusta temperatura di gradi
fahreneit 451, dovevano qualcosa al sinistro sacrificio degli autori
proibiti nella Berlino del 1933. Per quanto in tarda età l'autore si
sgolasse per negarlo, contraddicendo però sue stesse precedenti
affermazioni, evocavano anche la passione censoria che percorre da
sempre l'anima americana, dalla caccia alle streghe propriamente
detta, di cui nonna Mary era stata una vittima, a quella di nuovo
conio che veniva allestita negli anni in cui il giovane Ray scriveva
i suoi capolavori, col senatore McCarthy nei panni del grande
inquisitore. Però ancora maggiore era il debito che l'America di
Fahreneit 451, intratteneva con la neonata televisione, e in
generale con un sistema dei media che, nelle peggiori paure di
Bradbury, si avviava in quegli anni '50 distruggere la letteratura, e
così facendo ad attutire, annacquare e smorzare ogni emozione, ogni
inquietudine.
Maledetta modernità
La sostituzione della
realtà con una seconda realtà mediatica destinata a fagocitare la
prima è in effetti un altro dei temi ricorrenti nella poetica di
Bradbury. Forse il solo motivo per cui non è mai stato riconosciuto
come uno dei grandi pionieri del cyberpunk
è di stampo strettamente ideologico: forse nessuno, a parte Philip
Dick, ha anticipato l'avvento della realtà virtuale come lui, ma con
intenti di palese e allarmata denuncia che non potevano essere
granché apprezzati dai discepoli di William Gibson e di Matrix. Nel
suo racconto più universalmente noto, The Veldt, due genitori
di un futuro molto prossimo permettono ai figli di passare ore e ore
con un gioco che trasforma la loro stanza nell'ambiente di volta in
volta preferito. Quando decidono di darci un taglio e di sprangare la
stanza dei sogni per restituire ai pargoli il senso della realtà,
quelli li chiudono nella camera, trasformata in veldt, e se la
godono ascoltando da dietro la porta le urla dei malcapitati mentre i
leoni non più tanto virtuali li sbranano.
Nell'intreccio di ironia
e orrore che rende Il Veldt uno dei migliori racconti di
sci-fi mai scritti c'è tutto Bradbury: la diffidenza con forti
venature moraliste per la modernità e insieme una capacità di
comprenderne a fondo le dinamiche che gli rendeva impossibile non
impadronirsi dei suoi codici per metterli al servizio della sua
poetica. Pochi autori sono stati più «cinematografici» di questo
scrittore e sceneggiatore che paventava la distruzione della parola
scritta ad opera delll'immagine e l'assassinio della letteratura per
mano della televisioni. Un po' perché scriveva sceneggiature (la più
importante per John Houston nel '53: Moby Dick). Molto perché
il grande schermo e soprattutto quello piccolo hanno saccheggiato per
decenni i suoi romanzi e i suoi racconti. Truffaut è stato
insuperabile con la sua versione di Fahreneit 451 interpretata
da Oskar Werner e Julie Christie nel '66: fedele allo spirito oltre
che alla lettera del romanzo ma centrato più sull'amore per i libri
e per le storie che per una paura della televisione che il regista
francese avvertiva ormai meno incombente. Tre anni dopo Jack Smight
portò sullo schermo tre racconti tratti dall'Uomo illustrato,
tra cui Il veldt, con risultati oltremodo deludenti nonostante
la presenza di Rod Steiger tra gli interpreti.
Ma è proprio l'«odiata»
tv che ha chiesto a Bradbury innumerevoli sceneggiature e ha preso
decine delle sue storie per portarle sullo schermo con risultati
alterni. La serie tratta nell'80 da Cronache marziane, con un
mostro sacro come Rock Hudson, fu apprezzata dal pubblico, molto meno
dall'autore che la seppellì con un lapidario: «Noiosa».
Mastodontico il Ray Bradbury Theater, in onda per sette anni,
dall'85 al 92: 65 racconti ognuno riadattato dall'autore e introdotto
da un suo breve commento.
Ma il legame più forte
tra le parole di Ray Bradbury e le immagini di Hollywood è fatto
ancora di libri: è la trilogia hard boiled scritta tra l'85 e
il 2003, inaugurata dal bellissimo Morte a Venice. Tra i tanti
omaggi post modern che proliferavano in quegli anni alla California
degli anni '40 e '50, quella di Hammett, Chandler e McDonald, quasi
nessuno è riuscito altrettanto bene, quasi nessuno è così sincero
e così bello. Così capace di incorporare anche Hollywood e il noir
e le serie televisive nel grande corpo tatuato della grande mitologia
americana.
il manifesto, 7 giugno
2012
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