In Mimmo Cuticchio (un
sessantottenne nato a Gela) si fondono due tradizioni: quella dell'
“opra dei pupi”, che rappresentava con le tipiche marionette
siciliane (“pupi”, appunto) episodi del ciclo carolingio, e
quella dei “cuntastorie”, che nei loro “cunti” raccontavano
ritmicamente le stesse vicende, accompagnandosi con la mimica e
battendo un bastone. Cuticchio, erede di una delle più famose
famiglie di pupari, ha attraverso questa contaminazione rinnovato
l'arte dei suoi avi, con un risultato pregevole. L'etnomusicologo
Giovanni Vacca, nell'articolo che segue, scritto per “alias” a
correde di un articolo sul “puparo cuntista”, fissa le
caratteristiche di codeste popolari forme d'arte. (S.L.L.)
Le sei file di posti
esclusivamente riservati ai bambini per lo spettacolo di pupi di
Mimmo Cuticchio, per quattro giorni all’Auditorium di Roma subito
dopo Natale, fanno davvero sembrare che, come per fiabe e racconti,
l’infanzia sia il destinatario naturale del teatro di figura, con
le sue storie fantastiche e i suoi pupi che volteggiano senza
affettazione nello spazio. Ma non è sempre stato così: l’Opera
dei Pupi è stata a lungo non solo uno spettacolo, e un rito, per le
classi subalterne siciliane fino all’epoca del boom economico ma
anche l’espressione formalizzata di un codice di comportamento, la
riattivazione performativa di veri e propri archetipi mitici celati
sotto le vesti dei prodi paladini di Francia, difensori dell’Europa
contro la minaccia musulmana.
Strettamente intrecciata
all’opera dei pupi è poi il «cunto», il racconto mimato e
ritmato dei cicli eroici carolingi che il «cuntista» rievoca con un
bastone o una spada. Entrambe queste manifestazioni della cultura
teatrale popolare hanno dunque alla loro base una forte componente
ritmica che le rende assolutamente particolari e inconfondibili: un
ritmo che sembra attraversare l’intera figura del performer,
dalla spada che volteggia al piede che batte, nel caso del
«cuntista», o dominarlo completamente, nel caso dell’opera,
perché costringe il manovratore («maniante») a piegarsi ai
movimenti meccanici del pupo e a fare corpo con lui. Un ritmo che
ipnotizza completamente lo spettatore, perché dal corpo si estende
alla voce, canalizzandosi nella sillabazione spezzata del «cuntista»
o nelle scansioni artificiali dei «manianti», la cui fonazione è
deformata dallo sforzo a cui il corpo stesso è sottoposto.
A partire da quella
«psicodinamica» propria delle culture orali, che proprio al ritmo
riservano un ruolo centrale nella prassi comunicazionale, sia il
«cunto» che l’opera dei pupi si strutturarono nella loro
fisionomia in quell’Ottocento in cui prese forma buona parte della
cultura popolare italiana per come oggi la conosciamo; e se per
quanto riguarda il «cunto» gli studi più recenti hanno
definitivamente escluso una continuità di forme e contenuti da aedi
e rapsodi dell’antichità, l’uso di un bastone e del battito del
piede per accentuare la sillabazione di una performance vocale è
certamente presente anche in altri luoghi: nelle Midlands
dell’Inghilterra ad esempio, dove ancora fino agli anni Sessanta
del secolo scorso, come testimoniano gli storici del canto popolare
anglosassone, i vecchi pastori cantavano le ballate tradizionali
sottolineando le note con colpi di bastone e pestando violentemente
il suolo con i piedi alla fine dei versi. Il «cunto», però, non è
cantato (e quindi i «cuntisti» o «cuntastorie» non sono da
confondere con i «cantastorie», che pure in Sicilia hanno una
nobile storia): è una recitazione in versi che mette in scena, in
un’alternanza di momenti di narrazione distesa e parossistica (in
cui si evoca il fragore delle battaglie agitando la spada e battendo
i piedi), le gesta di Carlo Magno e di Orlando, di Rinaldo e di Gano
di Maganza.
Le storie narrate nel
«cunto» sono le stesse dell’opera dei pupi, che con esso è
dunque per molti versi intrecciata, della quale però si annoverano
più «tradizioni» (quella palermitana, quella catanese e poi quella
pugliese e napoletana per non parlare del teatro delle marionette,
presente in moltissimi paesi) che derivano dai cicli epici medievali
filtrati da quella sensibilità romantica che li riportò in auge
nell’Ottocento e li fece rifluire in ambito subalterno tramite
l’editoria popolare e il melodramma. In comune, «cunto» e opera,
spettacoli popolari spesso mobili, avevano anche l’uso di eseguire
le vicende in forma ciclica, cioè a «puntate», e di interrompere
il racconto in un momento critico: nell’opera, infatti, lo
spettacolo si concludeva immancabilmente con il «perdomani», un
pupo che faceva il riassunto dell’episodio che si sarebbe svolto il
giorno dopo in modo da assicurarsi il pubblico per la serata
successiva.
Quello dell’opera dei
pupi è un mondo ormai estinto, connotato da una forte componente di
ritualità con una partecipazione popolare ad alto tasso emotivo, un
po’ come accadeva nella «sceneggiata» napoletana e dove il
pubblico (che tra l’altro conosceva perfettamente le storie, con le
loro complesse vicende e le loro intricate genealogie, ed esercitava
quindi anche una sorta di funzione di controllo sul rispetto della
tradizione) parteggiava per alcuni personaggi fino a intervenire
direttamente durante la rappresentazione: un mondo dove gli intrecci
drammatici erano compensati da inserimenti comici (i pupi «da
farsa») e dove la lentezza ieratica dei gesti era la condizione
necessaria per attivare quella sospensione dal tempo profano e
quell’attivazione di un tempo mitico che è propria della sfera
sacrale. Non sono poche, infatti, le risonanze mitologiche presenti
nell’opera dei pupi: per esempio nel personaggio di Orlando, «eroe
solare» che viene tuttora fatto morire e poi nascere nel periodo
natalizio per consentire al ciclo di ricomunicare con il nuovo anno e
che, nella vulgata italiana popolare della Chanson de Roland,
viene per tradizione partorito in una grotta, a Sutri, proprio dove
c’è ancora un famoso santuario del dio Mitra (il dio sole che,
come Cristo, nacque in una grotta e la cui festa di rinascita fu
sostituita dalla cristianità con il natale).O come in Ferraù, che,
come Achille, è un guerriero invincibile perché invulnerabile,
tranne che in un solo punto, l’ombelico.
Uno spettacolo, quello
dei pupi, fatto dei bagliori delle corazze lucide dei guerrieri,
esibite nei numerosi «consigli», quando cioè appaiono schierati in
fila, e del rumore e del ritmo, quasi da danza, dei combattimenti:
uno spettacolo, insomma, a forte carattere «formulaico», vale a
dire con una serie di scene fisse («consigli» e «battaglie» sono
scene tipiche delle letterature epiche) attorno alle quali si
organizza una narrazione strutturata su dei canovacci, proprio come
accade per tanta narrativa appartenente alla sfera dell’oralità.
Ma anche uno spettacolo di colori, con pupi, nonché draghi, mostri e
sirene, dipinti con accuratezza nei particolari, e «cartelloni»,
quegli antesignani dei manifesti pubblicitari che riassumevano le
vicende dell’episodio in scena con la stessa tecnica pittorica
degli ex voto su legno che affollano le chiesette del mondo contadino
meridionale.
L’opera dei pupi ha
avuto una forte influenza sul costume popolare e ha lasciato segni
profondi anche nei linguaggi regionali, se tuttora in Sicilia si dice «Rinardo
di Montarbanu» per designare una persona che si vanta in maniera
esagerata o, a Napoli, «avere le orecchie di Pulicane», per
indicare qualcuno che ci sente fin troppo bene, in riferimento a un
personaggio con questo nome, mezzo uomo e mezzo cane e dalle lunghe
orecchie. Ma la storia dell’opera dei pupi è anche una storia di
razionalizzazione produttiva, perché l’originaria orchestrina che
accompagnava lo spettacolo, composta in genere da tre chitarre,
mandolino e violino, fu sostituita, appena possibile, da un pianino
meccanico capace di eseguire soltanto pochi motivi (la «battaglia
lenta» e quella «spietata», la marcia reale, la marcia alla turca
e il «lamento») con i quali bisognava accompagnare diverse scene,
magari aumentando o diminuendo la velocità.
Nonostante tutte le loro
componenti narrative e scenografiche, però, sia il cunto che l’opera
dei pupi restano eventi teatrali sostanzialmente «riassunti» nel
ritmo, che continua a scandirne l’esistenza scenica e in cui
risiede gran parte del loro fascino: un ritmo «antibiologico» e
incantatorio, che nel «cunto» dischiude alla voce l’astrazione
fonetica e nei pupi regala quella leggerezza che sembra ignorare la
forza di gravità e che, come intuì lo scrittore tedesco Heinrich
Von Kleist, permette di vincere definitivamente, almeno
nell’illusione, quella sorda resistenza che il corpo umano impone a
ogni movimento e a ogni verticalità.
Alias il manifesto, 20 febbraio 2009
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