Sebbene il grande
pubblico l'abbia scoperta solo qualche anno fa in occasione della
registrazione di un cd con Francesco De Gregori (Il fischio del
vapore), Giovanna Marini è senza dubbio da molti anni una grande
protagonista della musica italiana.
Il canto necessario
(nota cd book, pp. 256, euro 20) di Ignazio Macchiarella,
etnomusicologo presso l'Università di Cagliari, ripercorre la lunga
e intensa carriera della musicista romana: gli esordi in ambito colto
nei primi anni sessanta, la scoperta del canto di tradizione orale,
la militanza nel Nuovo Canzoniere Italiano, l'impegno politico e i
corsi sul canto contadino da lei tenuti (a Roma presso la scuola
popolare di musica di Testaccio e in Francia presso l'Università
Paris 8), l'attività di compositrice per il cinema e il teatro e,
infine, la costituzione di un quartetto vocale esclusivamente
femminile, per esplorare in totale libertà gli orizzonti della voce,
sia nel canto che nella narrazione.
Ma questo libro (di cui
il cd allegato, con alcuni inediti, è indispensabile compagno) è
molto più di una biografia: attraversando praticamente quarant'anni
di musica, fornisce un'innumerevole quantità di spunti, richiedendo
un'analisi approfondita e prestandosi a un vero e proprio
«contrappunto» di riflessioni.
Nel volume vengono
infatti a galla questioni cruciali per chi si occupa di studi
culturali e musicali poiché nel riuscito amalgama di racconto in
presa diretta e di riflessione critica si dipana buona parte della
storia del folk revival (e non solo italiano), si intrecciano
considerazioni etnomusicologiche e antropologiche, si intravedono le
figure di Pier Paolo Pasolini e di Ernesto De Martino, si riflette
sul ruolo degli intellettuali nel rapporto con la cultura popolare,
si parla di popular music e di madrigali, si descrivono i riti
tradizionali del profondo sud, contestualizzando l'intero percorso
dell'artista nell'ampio e diversificato sfondo sociale che ne è
stato il contorno e indagandone anche, con la competenza del
musicologo, la parte specificamente musicale. Ne vengono fuori i
momenti esaltanti di una strepitosa avventura culturale, e il grande
contributo che il folk revival ha dato alla cultura del secolo
scorso, ma anche tutti i dubbi, le contraddizioni, le domande e le
tensioni che hanno accompagnato la riscoperta della musica popolare,
sia nel nostro paese che nel mondo anglosassone. Utilizzeremo quindi
alcune delle tematiche evocate dai ricordi di Giovanna Marini e dal
testo di Macchiarella per proporre alcune considerazioni su quello
che è stato il folk music revival.
QUEL NOTO LOCALE
Nella prima parte del
libro Giovanna Marini, figlia di musicisti, narra delle sue origini
in ambito colto e della sua scoperta della tradizione popolare: nel
1960 Pier Paolo Pasolini le fa scoprire la cultura orale ma sarà la
frequentazione del Folkstudio, il noto locale dove passavano a quei
tempi i giovani talenti della canzone d'autore e del revival, che la
orienterà definitivamente verso la musica popolare: al Folkstudio
arriva infatti, nel 1963, Pete Seeger, «tra i primi a proporre a
livello internazionale la nuova figura del folk singer di
matrice urbana». Che un folk singer cittadino si facesse carico
della rielaborazione e della divulgazione del canto di tradizione
orale veniva, all'epoca, considerato indispensabile: la percezione di
una cultura di massa invasiva e omologante (erano gli anni della
visione «apocalittica» della massificazione teorizzata dai filosofi
della scuola di Francoforte) sembrava impedire l'espressione
spontanea delle culture subalterne e si riteneva che solo la
mediazione di artisti impegnati politicamente avrebbe potuto aprire
dei varchi nel «sistema» dell'industria culturale. Questo schema ha
informato l'intera storia del folk revival, fatta di tanti musicisti
e operatori ma soprattutto di gigantesche figure (Lomax, MacColl,
Seeger, Leydi, ecc.) che, tramite il loro imponente lavoro di
ricerca, catalogazione, riflessione teorica, rielaborazione e
riproposta davano unità e coerenza ai frammenti delle culture
popolari organizzandoli in un vero e proprio «discorso». Il
folk-singer militante appare insomma come un prodotto del
soggettivismo «forte» della modernità, e anche Giovanna Marini è
stata probabilmente in tal modo identificata, almeno in un certo tipo
di immaginario; una figura però, quella del folk-singer, destinata a
essere dissolta, parallelamente alla crisi della militanza politica,
in favore delle mille individualità «deboli» del postmoderno (la
miriade di artisti locali venuti alla ribalta con la globalizzazione
e l'esplosione della world music) e infatti non è casuale la sua
progressiva scomparsa dalla scena se già negli anni Settanta Michel
Foucault poteva affermare che occorreva «liberare
dall'assoggettamento i saperi storici, renderli cioè capaci
d'opposizione e di lotta contro la coercizione d'un discorso teorico,
unitario, formale e scientifico» e che bisognava favorire la
«riattivazione dei saperi locali contro la gerarchizzazione
scientifica della conoscenza e i suoi effetti intrinseci di potere».
Il folk-singer, insomma, può oggi essere visto retroattivamente e
dubbiosamente come una sorta di Giano bifronte: eroico alfiere canoro
dei senza voce, dunque, o perpetuatore, più o meno consapevole, di
invisibili, subdoli e non meno perniciosi effetti di potere?
Il folk-singer urbano era
dunque un «mediatore», e se c'era qualcosa su cui si doveva
intervenire per favorire l'accesso del canto popolare alle orecchie
del pubblico urbano, questa cosa era ciò che allora veniva percepito
come l'«alterità» del canto di tradizione orale: una differenza
fatta di ritmi non «quadrati» (cioè non formalizzati in pulsazioni
regolari), di prassi esecutive fuori della tradizione classica o
leggera, di melodie non tonali, di armonizzazioni scarne, di
emissioni aspre e di suoni non temperati. Soprattutto il problema del
canto fu al centro della riflessione teorica dei nuovi interpreti
della musica tradizionale (e qui c'è forse il contributo più
importante che Giovanna Marini ha apportato al folk revival).
La tecnica più diffusa di riproposta della musica di tradizione
orale era infatti quella del «ricalco»: si trattava di lavorare
sulla voce dell'esecutore urbano fino a che essa perdesse quei
caratteri di levigatezza, di intonazione e di interpretazione ritmica
della musica tonale, capace però di modellare in maniera egemonica
il nostro modo di «pensare» e di riprodurre il suono impoverendolo
inevitabilmente. Una vocalità che Giovanna Marini nel suo racconto
identifica, in polemica con l'insegnamento ricevuto in Conservatorio,
nella tradizione classica, «con i modelli già belli e pronti
omologati sul canto lirico ottocentesco» (e, presumibilmente, sulle
sue diramazioni popular). E proprio questo si ascolta nel cd,
nelle tracce 14 e 16, quando l'artista romana, con l'ausilio della
sua sola voce e con quelle delle sue compagne di lavoro, mostra le
differenze tra suoni temperati e naturali, la potenza evocatrice dei
«battimenti» (quelle sonorità che è possibile sentire quando si
accorda una chitarra, ad esempio, e che tendono a scomparire quando
ci si avvicina all'accordatura temperata), il fascino dei «ritardi»
come li si ascolta nel canto tradizionale sardo (dove «si passa di
accordo in accordo modificando piano piano i suoni come sulle
tastiere non si può fare») e delle risonanze facciali così
evidenti, ad esempio, nei canti della Passione di Milena, in
provincia di Caltanissetta.
STUDIO E
RIPROPOSIZIONE
In tutto questo poi,
Giovanna Marini chiarisce subito di non muoversi con una metodologia
scientifica («ne so poco, quasi niente di etno-musicologia») e,
dichiarando di non avere alcun giudizio negativo verso l'approccio
accademico, sostiene di aver scelto di avvicinare il mondo popolare
«dall'interno», per capire la musica dei contadini «attraverso il
fare e non l'osservare da lontano». E infatti i suoi viaggi di
ricerca, con oltre cento studenti al seguito che con macchine
fotografiche, registratori e telecamere invadevano piccoli paesi per
ascoltare da vicino un canto di Passione nella settimana santa, sono
stati spesso criticati proprio perché alteravano,
spettacolarizzandoli, contesti fortemente ritualizzati. È questo un
punto sempre molto discusso nel dibattito sullo studio e la
riproposizione della musica di tradizione orale: la riscoperta della
musica popolare infatti, come abbiamo visto, nasce sotto l'egida di
personalità di grande spessore intellettuale che hanno sempre
sottoposto l'attività di ricerca e di riproposta a scrutinio critico
(senso politico dell'operazione di revival, rapporto con i musicisti
di tradizione da cui venivano raccolti i canti popolari, i cosiddetti
«informatori», limiti dell'attività di rielaborazione, rapporti
con l'industria culturale, ecc.). Divenuta fenomeno di massa, però,
la musica popolare sfugge all'ambito del quale fa parte: essa viene
anche rielaborata e riproposta da musicisti ed esecutori che,
rivendicando la libertà creativa che l'arte pop concede, non
necessariamente sentono di aderire alle indicazioni metodologiche dei
loro precedessori e la trasformano di fatto in popular music,
accusando gli etnomusicologi di accademismo.
La storia del revival è
piena di queste polemiche (si pensi ai feroci giudizi di Ewan MacColl
su Bob Dylan e in genere sui gruppi del «folkrock» come Fairport
Convention, Pentangle, ecc.) e la stessa Giovanna Marini fu
protagonista, alcuni anni fa, di un acceso confronto con il gruppo
Pueblo Unido che aveva inciso, sicuramente con una certa leggerezza,
una serie di cd di canti politici poi acclusi alla rivista
“Avvenimenti”. L'accusa, in sostanza, era quella di aver
appiattito su esecuzioni tutte uguali una serie di brani che avevano
caratteristiche differenti che andavano rispettate e di aver
banalizzato un patrimonio che doveva invece essere trattato in modo
ben diverso. Ma allora, archiviato il «ricalco», quale èilmodo
giusto per ricercare e assimilare la musica tradizionale? E come la
si può riproporre? È opportuno essere rigorosi, tentare di aderire
alle particolarità della musica di tradizione o essa può
legittimamente essere assunta all'interno del proprio orizzonte
artistico come uno fra i tanti suoni che ci circondano, da utilizzare
in quel mosaico di citazioni che caratterizza gran parte dell'arte
dei nostri tempi?
Pur se mai esplicitata in
maniera evidente, in molte delle affermazioni che la musicista e
ricercatrice fa nel libro (e nelle parole delle presentazioni che
accompagnano i brani del cd) si coglie una critica serrata alla
cultura di massa, e alla conseguente omologazione, derivata
principalmente dalle posizioni di Pasolini. Ora, negli ultimi anni la
critica «apocalittica» alla cultura di massa si è molto attenuata:
i «cultural studies» britannici, rielaborando Gramsci e Benjamin,
hanno introdotto una nuova chiave di lettura dei fenomeni culturali,
relativizzando la portata alienante della produzione industriale e
ponendo l'enfasi, più che sulla produzione, sulle modalità di
ricezione (e quindi sulle possibilità di utilizzo creativo
autodiretto) dei beni di consumo. La percezione ormai diffusa che la
cultura di massa presenti anche aspetti liberatori e potenzialità
emancipatrici ha spezzato l'antica diffidenza di matrice romantica
verso la riproducibilità dell'oggetto come veicolo di
«inautenticità». La cultura di massa, infatti, usata in maniera
intelligente, può anche fungere da ponte per avvicinare l'individuo
cresciuto unicamente all'interno di una cultura urbana a prodotti
culturali provenienti da altri ambiti. Questo avrebbe dovuto essere,
nelle intenzioni, il fine ultimo del folk revival: riproporre la
tradizione popolare, rivitalizzarla per riportarla all'interno
dell'esperienza del soggetto; ma era un processo che, nelle
intenzioni, sarebbe dovuto avvenire soltanto in un primo tempo
tramite mediatori professionisti. In un secondo momento, infatti, il
revival avrebbe dovuto favorire l'approccio diretto agli esecutori
tradizionali, alla musica popolare viva e al suo contesto di festa,
di piazza, di osteria, per spezzare il dominio della musica imposta
dall'industria e permettere il recupero di una dimensione diversa
dell'esperienza sonora e, con essa, di una diversa esperienza
relazionale.
Pur nella sua travagliata
storia, con tutte le sue contraddizioni e le sue aporie, sembra
tuttora essere questa l'eredità di maggiore rilevanza lasciataci dal
revival, ed è quindi assolutamente condivisibile l'accorato e
importante appello che Giovanna Marini lancia in una pagina del
libro, quando dice: «Perché sentite Donovan che ci cantale ballate
inglesi dei minatori e non direttamente queste ultime cantate
veramente dai minatori con la loro grinta, le loro voci stupende non
addomesticate, i loro violini suonati veramente con una sola arcata e
mille note dentro?»
“alias il manifesto”,
10 marzo 2007
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