Il testo che segue, utile e ben
costruito, è un ampio stralcio della relazione dello storico
Francesco Germinario a un convegno su Salò e la RSI, organizzato a
Fermo nel marzo del 2005. (S.L.L.)
Almirante e Romualdi tra i camerati del Msi |
Nella memorialistica
della Repubblica sociale sono presenti quattro casi paradigmatici,
per il ruolo politico o militare dei protagonisti e per i tempi in
cui quelle memorie furono pubblicate: le memorie di Filippo Anfuso,
ambasciatore a Berlino, fondamentali per individuare quale «lettura»
negli ambienti della Rsi si forniva dell’alleanza col nazismo; le
memorie di Rodolfo Graziani, la carica militare suprema della Rsi;
l’autobiografia di Giorgio Almirante, a suo modo una versione di
estrema destra di «uso pubblico della storia»; le memorie di Pino
Romualdi, ultimo vicesegretario del Partito fascista repubblicano e,
nel dopoguerra, dirigente missino.
Alcuni autori mettono
mano alle memorie della Rsi addirittura nelle settimane successive
alla fine della guerra, nei primi mesi di latitanza o prigionia. A
quali cause addebitare questa precocità? In un’Italia
caratterizzata dal clima politico del vento del Nord, braccati,
ricercati, fuggiaschi, gli esponenti della Repubblica sociale hanno
bisogno di procedere a una forma di rielaborazione del lutto, di
spiegare a loro stessi le cause di una sconfitta che avvertono come
epocale, e non solo politica e militare. Avvertono la necessità di
difendersi non solo in sede giudiziaria (è il caso di Anfuso, sotto
processo con l’accusa di avere partecipato all’organizzazione
dell’omicidio dei fratelli Rosselli nel 1937, ma anche di
Graziani), bensì di difendersi dall’accusa politica di essersi
schierati dalla parte del nazismo, appoggiando un regime straniero;
proprio loro che del culto della «patria» erano stati i sacerdoti
incontrastati.
Anfuso, afascismo a
Salò
Su molti punti quelle di
Anfuso sono memorie a dir poco reticenti. L’ambasciatore della Rsi
a Berlino, diplomatico che aveva rapporti quotidiani con i maggiori
responsabili della politica nazista, da Hitler a Ribbentropp, da
Goering a Goebbels, per esempio non fa alcun cenno allo sterminio
degli ebrei («questa è sapienza successiva!»). Ma le sue memorie
sono da considerare fondative perché anticipano elementi conduttori
che si ritroveranno nella memorialistica successiva.
Ad Anfuso. che giudicava
se stesso, un «qualunque occidentale caduto sotto la mannaia degli
avvenimenti del suo tempo», interessava scindere nazismo e fascismo,
in polemica con quel concetto di «nazifascismo» da lui bollato come
«splendido doppio aggettivo di marca Ehrenburg»; in altri termini,
un’invenzione della propaganda dell’antifascismo stalinista e
comunista.
Le descrizioni di Anfuso
dell’aria allucinata che si respirava nella Fuhring e della
personalità dei gerarchi nazisti tradivano come il suo fine fosse
quello di sottrarre il fascismo di Salò al cono d’ombra del
nazismo. Ai nazisti Anfuso imputava di non sapere condurre la guerra,
anteponendo la logica nazionalista dell’Herrenvolk a una
prospettiva europeista. Nel caso italiano era da imputare ai nazisti
sia l’atteggiamento scettico nei confronti della politica
socialisteggiante di Mussolini, che le «irrazionali ordinanze» che
avevano determinato il clima politico nel Nord, agevolando la
strategia partigiana.
Non solo lo sviluppo del
clima di odio, per Anfuso, era stato provocato dall’insipienza
nazista; ma accanto al Mussolini antiborghese, in Anfuso compariva
quello aideologico: il Mussolini che aveva dato vita a uno scudo
protettivo, a uno Stato cuscinetto adeguato a preservare gli italiani
dalla vendetta nazista. Il Mussolini di Salò, stando ad Anfuso, era
agitato dalla volontà di «servire da schermo fra gli italiani e
l’ira germanica», per evitare «l’avviamento degli italiani alle
condizioni dei polacchi e degli ucraini», quale reazione nazista al
tradimento dell’8 settembre. (...) A fronte della cecità e del
furore ideologico di Hitler e dei gerarchi nazisti, Anfuso collocava
il Mussolini tote politìcus e a-ideologico che al Nord «operò (..)
un miracolo politico: politica con i tedeschi, politica con i
fascisti, gli antifascisti, i socialisti con tutte le varie categorie
di tedeschi e italiani; politica dalla mattina alla sera, come il
sindaco di un villaggio che voglia divenire città!», a cominciare
dalla difesa dei confini nordorientali.
(....)
Se Anfuso preferisce il
Mussolini di Gargnano, Graziani verso quest’ultimo formula pochi ma
significativi giudizi tutt’altro che lusinghieri. Proprio sulla
questione dell’unità delle forze armate della Rsi, Graziani ha
occasione di osservare che, il limite maggiore di Mussolini (limite
politico, prima che caratteriale) era la «perenne discordanza tra
pensiero e azione, che fu uno degli aspetti caratteristici della sua
mentalità, e forse il suo principale difetto». E tra gli errori
fondamentali del Mussolini di Gargnano Graziarli registra la scelta
di mantenere «ai posti di comando uomini del periodo pre-25 luglio».
E’ un Mussolini, quello di Graziani, ancora legato alle squallide
regole della politique politicienne, incline alle ragioni
delia bassa politica e ai compromessi che un soldato, Graziarti, non
riesce a comprendere e ad accettare.
I volontari di
Graziani
E non a caso
l’autobiografia di Graziani (ma sarebbe più giusto definirla una
vera e propria memoria difensiva) s’intitola Ho difeso la
patria. Se Anfuso depoliticizza e deideologizza la Rsi, in nome
del disegno mussoliniano di evitare la polonizzazione dell’Italia,
Graziani ambisce presentare la propria persona come un impolitico -
anzi, come un antipolitico dedito al mestiere delle armi per la
gloria della patria. (...) Ed è nella veste di soldato impolitico
che Graziani pretende di avere aderito alla Rsi; in nome, insomma,
degli «interessi (...) della comune Patria italiana» (...).
Graziani respinge così le accuse di collaborazionismo: «mi si può
oggi anche condannare in base a una materialistica e cinica legge; ma
se le cose fossero andate diversamente, sarei stato acclamato eroe
salvatore della patria alla pari di De Gaulle». (...) Graziani,
dunque, come il generale francese che era riuscito a tenere accesa la
speranza e il destino di una nazione, assumendo un comportamento che,
ispirandosi a valori virili, era politicamente trasversale, e anzi
superiore al terreno della politica. I soldati, per Graziani, - o
almeno i soldati che aderiscono alla Rsi - non hanno valori politici
da condividere, ma solo il rispetto di valori virili e guerrieri
(onore, rispetto della parola data all’alleato). (...)
All’impoliticità della
Rsi teorizzata da Anfuso, Graziani replica dunque riconoscendo il
carattere ideologico di quello Stato, non foss’altro perché
assicurato dalla presenza di fascisti di lunga data, ma rivendicando
al tempo stesso l’impoliticità dell’esercito. In questo modo,
Graziani creava un altro mito, destinato a futura celebrazione dalla
memorialistica successiva; quello della Rsi come ultimo baluardo di
un pugno di eroi tra un popolo che aveva perso la dignità, quasi a
voler confermare, ancora una volta, che tra gli italiani non avessero
quasi mai albergato i valori virili del coraggio e del sacrificio.
Graziani inaugurava quel
tema memorialistico che avrebbe sempre denunciato il carattere
badogliano del popolo italiano: scarso di eroi, ma ricco di
opportunisti, incapace di reggere, come i sovietici, i tedeschi, i
giapponesi, agli uragani della Storia. (...)
Scrivendo nell’immediato
dopoguerra, e soprattutto per giustificare le loro scelte politiche,
sia Anfuso che Graziani scontavano la situazione di riorganizzazione
nell’area dell’estrema destra. Di conseguenza nelle loro pagine
sono assenti alcuni temi della memorialistica successiva e
dell’immaginario dell’estrema destra. In particolare due: la
convinzione che la Resistenza fosse stato un movimento provocato dai
comunisti; la caratterizzazione dello scontro fra il movimento
partigiano e la Rsi come una «guerra civile».
Questi due motivi trovano
un largo spazio nelle memorie dei due Dioscuri del Movimento sociale,
Giorgio Almirante e Pino Romualdi. L’autobiografìa politica del
primo, dal titolo provocatorio Autobiografia di un «fucilatore»,
del 1974, è la risposta alla campagna politica delle associazioni
partigiane e dei partiti di sinistra che accusava il segretario
missino di avere firmato un manifesto del 1944, in cui si minacciava
di fucilazione i partigiani che non avessero deposto le armi.
I dioscuri dell’Msi
Quello di Almirante è un
caso di eclatante uso pubblico della storia in versione di estrema
destra: è un testo scritto per discolparsi dall’accusa infamante
di essere stato un fucilatore di italiani, ma rivolto anche al
proprio elettorato, nel senso che appone l’imprimatur della propria
carica politica alla vulgata di estrema destra ormai già consolidata
da quasi un trentennio, a cominciare dalla teoria della guerra civile
provocata dal Pei e dall’«untuoso e accomodante» Togliatti.
A favorire le condizioni
di sviluppo dello scontro fra italiani fu la presenza «degli
stranieri in casa nostra (...) Se ( non ci fossero state le armate
straniere entro i confini d'Italia, gli Italiani non si sarebbero
ammazzati a vicenda nel nome del fascismo e dell’antifascismo».
Erano presenti poi sia la consueta rivendicazione della necessità di
scindere la Rsi dai nazisti — richiamandosi proprio alle memorie di
Anfuso, Almirante scriveva che «Mussolini detestava i tedeschi, o
più precisamente le autorità tedesche con le quali era
quotidianamente a contatto» —, sia la versione dell’impoliticità
della Rsi. (...) A coronamento non mancava la celebrazione della
figura, esistenziale prima che politica, dei vinti, nel senso che chi
aveva aderito alla Rsi era consapevole di essersi schierato dalla
parte perdente.
Quello di Almirante era
un esercizio di uso pubblico della storia, utile per l’elettorato e
i militanti E tuttavia, proprio per questo, da considerare un vero e
proprio vademecum della memorialistica della Rsi, perché in poche
pagine erano condensati quasi tutti i temi cui la memorialistica di
quell’area politica si sentiva più legata. Mancava solo il tema
della Resistenza quale movimento esogeno, provocato da individui che,
per comportamento sanguinario, per appartenenza politica o
addirittura per la loro origine etnica e razziale tout court
erano da considerare «slavi».
Il saggio postumo di Pino
Romualdi ultimo vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano, nel
suo situarsi a metà strada fra l’autobiografia e l’ambizione
storiografica è un caso abbastanza frequente in quest’area
politica.
Nel saggio, scritto
alcuni mesi dopo il 25 aprile 1945, nel periodo della sua latitanza,
Romualdi ribadisce quasi tutti i punti forti delle posizioni dei
reduci, a cominciare dalla teoria della Rsi quale Stato cuscinetto
per evitare la polonizzazione dell’Italia. È una posizione che
Romualdi fa risalire allo stesso Mussolini, al quale, nel loro primo
incontro da vicino, fa dire che gli italiani «devono convincersi che
senza il grosso cuscinetto costituito da noi, i colpi che sono
destinati a ricevere dai tedeschi sarebbero di gran lunga più
pesanti e rovinosi». Allo stesso Mussolini, Romualdi, sulla scia
della teoria di Anfuso sull’afascismo di Salò, riconosceva inoltre
la volontà di costituire un governo con personalità indipendenti e
non schierate politicamente. (...)
I pretoriani del
regime
Le memorie di Romualdi
presentavano qualche significativa novità rispetto alla
memorialistica precedente - sia pure in una ricostruzione in cui,
considerata la carica politica che l’autore aveva ricoperto, spesso
predominavano le rimozioni - nella ricostruzione del dibattito sulla
caratterizzazione più o meno politica dell’esercito della Rsi.
Intanto, Romualdi giudicava un «indubbio errore politico» di
Mussolini la costituzione delle Brigate Nere. La militarizzazione del
partito, per Romualdi, si era conclusa nell’opera di smantellamento
delle sue strutture politiche operanti sul territorio. Il secondo
errore «gravissimo, forse il più grave» di Mussolini, fu la
ricostituzione dell’esercito affidata alla chiamata alla leva. Una
scelta che «incontrò immediata opposizione fra i fascisti, molti
dei quali ritenevano, oltreché difficile, pericoloso costringere la
totalità del popolo italiano a prendere parte attiva alla nostra
rivolta repubblicana». «Sarebbe stato più opportuno lasciarli
tranquilli gli italiani», scrive Romualdi, dando vita a un esercito
ideologizzato di volontari ancora convinti del fascismo (....)».
Proprio nella
ricostruzione, lacunosa e reticente, del dibattito interno alla Rsi
sulle caratteristiche che avrebbe dovuto avere l’esercito, emergeva
l’insostenibile aporia entro cui si muoveva la memorialistica: per
un verso, si presentava la Rsi come uno stato afascista e
aideologico; per l’altro, si sosteneva la necessità che questo
stato aideologico, in cui avrebbero potuto riconoscersi tutti gli
italiani, se non gli antifascisti, certo la zona grigia degli
afascisti, desse vita a forze armate caratterizzate in senso
ideologico e politico.
Inoltre, se c’è un
teorico della «guerra civile», nella accezione peggiore del
termine, quale situazione in cui si affrontano ideologie armate,
questi era proprio Romualdi, convinto sostenitore del progetto che la
guerra avrebbe dovuto essere fra due settori fortemente
ideologizzati, con la nazione e gli italiani al tempo stesso come
terreno di battaglia e come posta in gioco, con l’esercito di
volontari fascisti a metà fra il vecchio squadrismo antemarcia e una
Guardia Pretoriana dell’ideologia.
E tuttavia, con Romualdi
e la sua adesione al progetto di dare vita a un esercito
ideologizzato veniva al pettine il nodo forse fondamentale di tutta
la vicenda della Rsi: la scarsa fiducia che ormai il fascismo
repubblicano dimostrava di nutrire nei confronti degli italiani e
dunque la consapevolezza, sempre più crescente e diffusa, di operare
in una situazione di minoritarismo politico. Su quale terreno
politico si radicava la proposta di un esercito ideologizzato, se non
sul sospetto che, dopo che per un ventennio il fascismo aveva preteso
che gli italiani si identificassero nel regime, sequestrando i
concetti di «patria» e «nazione», ormai bisognava prendere atto
che la serpeggiante domanda di pace tradiva l'avvenuta distinzione
fra fascisti e italiani, fra fascismo e «nazione», con la
definitiva conseguenza che le sorti del fascismo non potevano più
essere affidate alla difesa degli italiani tutti?
“il manifesto”, giovedì 3 marzo
2005
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