Monaco, 1909-10. Il gruppo di lavoro diretto da Alois Alzheimer (l terzo in piedi da destra) Il primo e il secondo seduti, da destra, sono rispettivamente Gaetano Perusini e Francesco Bonfiglio |
Appassionante
viaggio
intorno alla scoperta
di un'oscura patologia
Il 25 novembre 1900 la
Signora Augusta D. moglie di un impiegato delle ferrovie, viene
ricoverata nella Clinica per dementi ed epilettici di Francoforte sul
Meno. La richiesta di ricovero, stilata dal medico di famiglia,
riferisce che la donna «da molto tempo soffre di debolezza di
memoria, manie di persecuzione, insonnia, agitazione». Incapace di
ogni lavoro fìsico e mentale è in uno stato che, nella richiesta,
viene definito di «paralisi cerebrale cronica». Il sanitario che la
ricovera, Dottor Nitsche, intuisce di trovarsi di fronte a un caso
insolito. A rendersene pienamente conto è però il dottor Alois
Alzheimer, primario della clinica, che la visita la mattina seguente.
Da quel momento sino al 2 giugno 1902, quando lascerà la clinica di
Francoforte, Alzheimer seguirà personalmente la malata, sempre più
sicuro di essere entrato in contatto con una realtà patologica
destinata a illuminare la complicata questione delle demenze.
Comincia così ima straordinaria avventura scientifica che ora ci
viene raccontata, in una ricostruzione nitida e documentatissima, da
uno psichiatra tedesco, Konrad Maurer e da sua moglie, direttrice del
Museo «Alzheimer» di Casel, in Alzheimer. La vita di un medico.
La carriera di una malattia
(trad. di L. Garzone, manifestolibri, 2000).
-----
Che
cosa rende tanto insolito questo caso clinico? Certamente non la
condotta della paziente, rimasta in clinica sino alla morte
intervenuta il giorno 8 aprile 1906 per setticemia causata da piaghe
da decubito, che è scandita dalla progressiva degenerazione della
condizione demente: prima difficoltà di coordinazione mentale, poi
un’agitazione sempre più intensa sino a sfociare in un
comportamento violento, infine, frammezzo alla violenza degli atti,
un decisivo rifiuto a comunicare e una totale perdita di controllo
sulle funzioni urinaria e fecale. Sicuramente insolita è però la
storia personale e medica di Augusta D. La malata è una tipica
casalinga della piccola borghesia tedesca dell’epoca, sposa felice
e fedele, magari incline a una pignoleria esagerata nel disbrigo
delle faccende domestiche e, come riferisce il marito, sempre un po’
ansiosa e paurosa. Troppo giovane ancora perché possa esser definita
affetta da demenza senile - al momento del ricovero ha appena 51 anni
- non ha sofferto in passato che di malattie irrilevanti. I suoi
genitori sono morti di mali comuni, comunque non psichiatrici e
nessuno dei suoi ascendenti ha sofferto di disordini mentali.
Assente, a quanto pare, una qualsiasi tara ereditaria, meno che mai
quella, così comune all’epoca, risalente all’alcoolismo. Del
resto la signora D., come suo marito, non beve. In definitiva, nulla
che possa guidare alla comprensione del perché una mite massaia,
tutta K.K.K. (Küche, Kirenhke, Kinder
= casa, chiesa, bambini) sia caduta nella follia.
In
qualche modo scatta una forte simpatia umana in Alzheimer. Uomo
buono, gioviale, generoso, vede in Augusta D. la vittima di qualche
cosa che il passato della paziente e della sua famiglia non
giustifica. Esclude sin dall’inizio che la causa della strana
malattia possa essere di natura somatica.
Ritiene, e i fatti gli daranno ragione, che solo una grave e magari
sconosciuta alterazione cerebrale sia all’origine del male, anche
se non sa - e del resto ancora oggi non si sa con certezza - quale
possa essere la causa dell’alterazione stessa. A guidarlo in questa
convinzione sono due fattori, radicati nel suo vissuto di uomo e di
scienziato: il timore che, se una bravissima persona come Augusta D.
è in preda a un morbo sconosciuto, altri come lui, Alzheimer,
appartenente al mondo ordinato della borghesia, potrebbe caderne
vittima; una fede incrollabile nella scienza dell’epoca intesa a
ricondurre tutte le patologie mentali a guasti somatici riscontrabili
nel sistema nervoso centrale, in base a un quadro di riferimento che
oggi si suole definire «paradigma anatomo patologico». Tra i due
fattori ricorre una sorta di relazione virtuosa che si potrebbe
riassumere così: «le persone per bene non diventano matte per colpa
del loro passato o dei loro ascendenti, né, tanto
meno,
sotto la spinta di inconfessabili passioni come sembra ritenere quel
singolare personaggio che è il Dottor Freud. Se entrano nel girone
infernale della pazzia ancora giovani, vuol dire che il loro cervello
si è ammalato. Occorre riscontrare a livello istologico, cioè sul
piano della situazione oggettiva presentata dalle cellule del
cervello, quali alterazioni e guasti siano intervenuti. Di questi
danni
un giorno si riuscirà a scoprire la causa. Per adesso vanno tutti in
debita considerazione due assunti: tutti i pazienti in età presenile
che manifestino una patologia identica a quella di Augusta D. e che
abbiano un’identica storia medica non vanno inseriti nei quadri
clinici delle altre demenze; tutti questi malati sono oggettivamente,
e in tutti i sensi, non colpevoli del male che li affligge».
Quando,
nel 1888, Alzheimer entra, in qualità di medico assistente, nella
Clinica di Francoforte, diretta da Emil Sioli, ha già fama di
eccellente istologo. Le tavole istologiche che corredano la sua tesi
di laurea - un lavoro sulla patologia del cerume auricolare infantile
- si fanno ancora ammirare per l’eleganza e la precisione del
disegno. La sua competenza istologica lo aiuta a formulare corrette
diagnosi anatomo-patologiche a carico dei dementi morti
nell’ospedale, di cui analizza attentamente lo stato dei cervelli.
Istopatologo di raro talento si cimenta con il problema cruciale
della patologia della psichiatria del tempo: la follia, i cui segni e
sintomi paiono essere sempre gli stessi, dalle manie di persecuzione
al comportamento mentale confuso e delirante, ai disturbi del
linguaggio, all’incontinenza, alla perversione, è una malattia
unica o è piuttosto l’esito di distinte patologie?
-----
I
rapporti autoptici dei folli, esaminati con la dovuta attenzione,
mostrano come, da caso a caso, le alterazioni e i danni siano
diversi: in taluni soggetti si riscontrano tracce evidenti di
aterosclerosi , vale a dire placche di lipidi (grassi) nelle arterie;
in altri si apprezzano fenomeni di arteriosclerosi, ossia forme di
ispessimento e irrigidimento delle arterie che impediscono la
corretta irrorazione sanguigna della corteccia cerebrale (un evento
tipico dell’arteriosclerosi, che l’autopsia riscontra in un vaso,
è quello del restringimento del lume - imboccatura - che impedisce
il regolare flusso del sangue); in altri ancora i danni riscontrati
sono del tutto diversi come nel caso dei malati di paralisi
progressiva. Così, a misura che l’esperienza clinica e la
sofisticazione dell’indagine istopatologica moltiplicano i dati a
sua disposizione, Alzheimer riesce a dimostrare come la follia non
sia affatto una malattia unica, ma piuttosto una fenomenologia
morbosa unitaria prodotta da distinte malattie del sistema nervoso
centrale.
A
questo punto, tuttavia, Alzheimer, come Kraepelin, di cui fu allievo
e collaboratore, come tutti gli psichiatri che esplicitamente credono
in quello che loro stessi chiamano il «dogma anatomo-patologico»,
si trova davanti a un dilemma: perché la fenomenologia è sempre la
stessa, se la patologia è diversa?
All’apparenza,
la risposta fornita da quanti condividono la fede nel dogma è
convincente. Al modo stesso in cui, nella normalità, l’attività
mentale prodotta dal cervello si esprime nel regolare funzionamento
dell’ideazione, della volizione, del linguaggio, così quando il
cervello si ammala, quale che sia la sua specifica malattia,
compaiono i medesimi disordini delle funzioni mentali. In realtà,
perché questa fenomenologia, nella regolarità e nella situazione
dei disordini, si presenti unitaria, occorre ipotizzare l’esistenza
di ima realtà che, pur prodotta dal sistema nervoso centrale, sia da
questo distinta. In altre parole, ipotizzare un epifenomeno, se non
addirittura un vero e proprio continente sconosciuto, che è la mente
o psiche. Ovviamente non si tratta di un organo, che non è, per ciò
stesso, possibile studiare empiricamente né, tanto meno,
anatomizzare, ma la cui concreta realtà – questa volta sì – è
possibile riscontrare persino nei dementi all’ultimo stadio, quando
i rari episodi di comunicazione linguistica fanno affiorare affetti e
ricordi peculiari che scaturiscono dal remoto passato dei soggetti.
Come sarebbe possibile una situazione del genere se, in qualche modo,
la mente, la cui attività è sconvolta dalla patologia cerebrale,
non continuasse ancora a funzionare?
Va
detto che, ancora oggi, non sappiamo in concreto che cosa la mente o
psiche realmente sia. Molti sospettano che si tratti per l’appunto
di un epifenomeno prodotto dalla natura autospeculare dell’attività
mentale. Un’ipotesi sulla quale non è certamente possibile
pronunziarsi qui ma che, tuttavia, va presa in considerazione se non
altro perché tiene per fermo il carattere di sostanziale autonomia
della mente o psiche rispetto al cervello.
-----
Per
una singolare congiura di circostanze, Alzheimer, che dal 25 ottobre
è primario a Monaco presso la Clinica diretta da Kraepelin, presenta
il caso di Augusta D. il 3 novembre del 1906 alla XXXVII Assemblea
degli psichiatri tedeschi del sud a Tubinga, nella medesima sessione
in cui Cari Gustav Jung, allora ritenuto il più fedele assertore
della teoria di Freud, si appresta a discutere la peculiarità delle
malattie psicosomatiche. Alzheimer, al momento di prendere la parola,
è convinto del successo della sua relazione. Ha studiato a lungo il
caso. Ha letto l’ormai voluminosa cartella clinica di Augusta D., e
ne ha analizzato a fondo il cervello. Il suo lavoro è stato
coadiuvato allora - e lo sarà ancora per altri casi simili - da due
valenti ricercatori italiani, Francesco Bonfiglio e Gaetano Perusini.
Dopo aver illustrato la storia medica della paziente, con l’aiuto
di fotografie e diapositive formula gli elementi della diagnosi
anatomo-patologica. Il cervello di Augusta D. è contrassegnato «da
un’atrofia della corteccia cerebrale con una massiccia perdita di
cellule e da una strana malattia delle fibrille nervose con una forte
proliferazione della glia (neuroglia, l’insieme delle cellule di
supporto del sistema nervoso centrale) fibrosa e la formazione di
numerose cellule della glia a forma di bastoncelli». La corteccia
cerebrale lascia altresì apprezzare la presenza di vistose placche
contenenti prodotti metabolici. Pur trattandosi di alterazioni
reperibili anche nei cervelli di dementi anziani, si tratta di
fenomeni di portata ed estensione decisamente più ampia.
Nonostante
la novità del caso, la fine della conferenza non suscita alcun
dibattito. Tanto il presidente dell’Assemblea, quanto gli
psichiatri presenti hanno l’impressione di trovarsi di fronte a
semplici curiosità anatomo-patologiche quali, per solito, venivano
comunicate nei congressi medici del tempo. La medesima disattenzione
viene prestata a Jung anche se colorata dal forte scetticismo che
allora investiva quello che veniva chiamato il freudismo.
All’apparenza il trattamento riservato ad Alzheimer non ha nulla a
che vedere con quello di cui è vittima Jung. In realtà la reazione
dei congressisti è sostanzialmente unica e risponde alla medesima
logica. Vediamo perché.
Accogliere
con la più seria considerazione le comunicazioni di Alzheimer
avrebbe significato porsi di fronte al dilemma dell’unitarietà
della demenza e dell’ampia diversità della sua origine, ma questo
avrebbe, a sua volta, comportato una diversa attenzione a quanti,
come Jung e Freud, insistevano sulla concreta esistenza di una
dimensione epifenomenica quale quella della mente o psiche.
Paradossalmente se una sorta di miopia intellettuale non li avesse
traditi, avrebbero recato un segnalato servizio al dogma
anatomo-patologico del quale erano così convinti e,
conseguentemente, avrebbero dato un forte impulso alla ricerca delle
cause della malattia. Del pari, sarebbero stati costretti a prendere
in esame la dinamica del caso di Augusta D. sulla scorta dei dati
clinici forniti da Alzheimer e, coerentemente, correlare in modo
virtuoso la dimensione psichiatrica classica e quella inedita, così
«scandalosa», presentata da Freud. In un solo giorno, la
psichiatria anatomo-patologica e la nascente psicoanalisi subirono
una pesante sconfitta, che non avrebbe giovato né alla medicina
scientifica, né, soprattutto ai malati.
La
«malattia di Alzheimer» fu riconosciuta ufficialmente quale precisa
individualità clinica nel 1910, quando Kraepelin ne inserì la
definizione nel suo trattato generale di psichiatria. Per molti anni,
anche in conseguenza della precoce scomparsa di Alzheimer, morto nel
1915, rimase tuttavia poco più che una singolare curiosità
scientifica. Persino la cartella clinica di Augusta D, rimase a lungo
ignorata, tant’è vero che fu rintracciata solo nel 1995.
-----
Le
cose cominciarono a cambiare nel secondo dopoguerra. Ad agevolare la
ricerca delle sue cause fu soprattutto, prevalentemente nel mondo
anglosassone, il grande lavoro di indagine sull’mvecchiamento.
Queste ricerche condussero ad esaminare con maggiore attenzione i
casi di demenza senile e quelli di demenza presenile e,
coerentemente, a studiare in modo specifico la «malattia di
Alzheimer». Si scoprì, tra l’altro, come forme di demenza senile
potevano essere con qualche ragione ritenute fenomenologie croniche
di Alzheimer intervenute in età precoce. Per un certo periodo, dato
il tempo di insorgenza del morbo, si pensò a infezioni virali, delle
quali sarebbero stati responsabili i cosiddetti «virus lenti», così
chiamati per il tardivo effetto delle loro azioni. Altre malattie
neuropsichiatriche, come la sindrome di Creutzfeld-Jakob,
apparentemente simili, ma in realtà assai diverse dall’Alzheimer,
furono effettivamente ricondotte con sicurezza all’azione di virus
lenti. Oggi, per quanto riguarda l’Alzheimer, si tende a escludere
la causa dell’infezione virale.
La
prospettiva di ricerca più solida pare, allo stato, essere quella di
natura genetica. Nel campo neuropsichiatrico l’indagine che invoca
un fattore genetico per l’insorgenza del morbo è stata enormemente
favorita dagli studi dell’invecchiamento. In Italia, sulla scorta
dell’influenza delle indagini geriatriche, specie per merito di
taluni ricercatori come Claudio Franceschi, nell’esplorazione delle
cause dell’Alzheimer sono entrati in campo fattori ambientali e
culturali, come, ad esempio l’incidenza del livello di scolarità
nei malati. Ci sembra che in questo modo si stia affacciando ima
opportunità cruciale per il trattamento dei malati: intrecciare la
loro storia medica a quella del vissuto personale. Chissà se non sia
questa la strada per assecondare una collaborazione essenziale tra
geriatria propriamente detta e quanti si occupano di dinamiche della
psiche.
“il
manifesto”, 2 marzo 2000
Nessun commento:
Posta un commento