Il busto dell'editore Nicola Zanichelli (1819-1894)
nel suo monumento funerario alla Certosa di Bologna
opera dello scultore Alessandro Massarenti
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"Da quante notti non
fo altro che lavorare, e la dolce alba mi trova a scrivere paginaccie
che non finiscono mai e a rivedere, rivedere stampe! Zanichelli m' è
sempre alle spalle: mi manda dietro i suoi valletti, con stamponi, da
per tutto: a lezione, a desinare, alla bottiglieria, sempre
Zanichelli padre, Zanichelli figli, Zanichelli garzoni. Chi mi salva
da Zanichelli?".
Così, in un affettuoso
sfogo epistolare, Carducci (siamo nel 1875) ricorda l'affanno con cui
dovette completare le correzioni ad un suo erudito lavoro sulle
poesie latine dell'Ariosto che Zanichelli (per l'appunto) doveva di
lì a poco pubblicare in edizione di lusso, cento copie soltanto.
Nicola Zanichelli era approdato a Bologna nel 1866, acquistando
l'antica libreria Marsigli e Rocchi, sotto le logge del Pavaglione.
Veniva da Modena, dove aveva un'altra libreria, ritrovo dei patrioti
e degli esuli. Vi circolavano clandestinamente fogli di battaglia,
altri provvedeva Zanichelli stesso a stamparli. La polizia ducale
vigilava. I "birri" perquisivano gli scaffali per snidare
"incendiari" volumi di versi, magari - si racconta - del
povero Berchet. Con un'ordinanza della polizia ducale la libreria fu
costretta a chiudere all'Ave Maria, per evitare che vi si parlasse di
politica, per di più col favore delle tenebre.
Nicola, di famiglia
modesta, lavorava fin da bambino. Fisicamente, dicono i
contemporanei, assomigliava a Giuseppe Mazzini. Ma non era un
rivoluzionario, anche se la passione politica gli procurò qualche
incidente: perquisizioni, arresti, qualche breve permanenza in
carcere e un po' di esilio in Toscana. E soprattutto lo spinse a
farsi, lui libraio, editore. Nel 59, quando Luigi Farini era
dittatore delle Romagne, non esitò a stampare, su sua richiesta, due
volumi di documenti "risguardanti il governo degli
Austro-Estensi in Modena, dal 1814 al 1859". Oggi, a più di
centoventicinque anni di distanza, il catalogo storico della casa
editrice da lui fondata, ripubblicato in questi giorni dopo
l'edizione del centenario e aggiornato fino al 1939, è un vero e
proprio monumento, oltre che una miniera di notizie.
Giosuè Carducci approdò
a Bologna la sera del 10 novembre 1860: veniva, in diligenza, da
Firenze, aveva venticinque anni. Avrebbe di lì a poco cominciato le
sue lezioni all'Università. Ma, all'inizio (e non certo per colpa
sua) i suoi corsi non ebbero successo. Nell'anno accademico 1861-62
ebbe sei alunni; dieci anni dopo gli iscritti al corso erano due.
Furono anni di studio accanito, di infaticabili ricerche. E,
naturalmente, di poesia. Vent'anni dopo le sue lezioni erano
affollatissime, di studenti e di curiosi. “Non sono una primadonna,
né una ballerina - si lamentava, e per tenere a bada gli estranei,
annunciava: “oggi sarò pedante e noioso”. Ma i miti sono
difficili da distruggere e Carducci - sul finir del secolo - era
ormai un mito: intrecciato strettamente a quello del recentissimo
Risorgimento, eppure temperato dalla palandrana professorale che di
fatto non abbandonò mai. Carducci in sostanza cantava la Nuova
Italia alla luce di quella antica: l'erudizione gli consentiva di
recitare - credendoci fino in fondo - la parte del classico vivente,
sconfiggendo le dolciastre ariette tardoromantiche con la proposta
(anche metricamente importante) dell'ode "barbara". Un
ritmo antico si rinnovava, la tradizione sposava il nuovo, ma senza
ubbie, senza estremismi.
Carducci era un monumento
perfettamente controllabile e anche per questo piaceva. Piaceva,
intanto, al suo editore: uomo di idee liberali, ma moderato, aperto
alle novità della scienza (pubblicò la prima traduzione italiana
dell'Origine delle specie di Darwin nel 1864) ma diffidente -
per esempio - nei confronti del decadentismo: solo nel 1892 accanto
al nome di Carducci compare in catalogo quello di D'Annunzio. E
pensare che D'Annunzio, proprio nella libreria Zanichelli, acquistate
nel novembre del 1878 (aveva quindici anni) le Odi barbare, fu
subito preso da "un'eccitazione straordinaria e febbrile: l'odio
pei versi scomparve per incanto e vi subentrò la smania della
poesia".
Con Zanichelli avrebbe
pubblicato anche Pascoli, ma ormai il vecchio Nicola era morto (1884)
e il figlio Cesare aveva preso le redini della casa. Nel 1901
l'editore tenta nuove strade: pubblica in volume unico tutte le
poesie di Carducci. Era la prima volta che in Italia si proponeva un
"omnibus". Il volume, di oltre mille pagine, fu tirato in
cinquemila copie (costava dieci lire) e la tiratura fu esaurita in
tre mesi. Un trionfo. Particolare curioso: per la carta, che doveva,
data la mole, essere piuttosto fine, chiesero consiglio ad una
cartiera londinese, dopo aver visto delle Bibbie inglesi stampate,
appunto, su carta finissima. Fu una sorpresa sapere, da Londra, che
quella carta veniva da una cartiera di Pontecchio, a pochi chilometri
da Bologna: in Inghilterra ci facevano le Bibbie, in Italia le
sigarette.
La libreria Zanichelli fu
per Carducci una vera e propria seconda casa. Lì si riuniva il suo
cenacolo letterario, lì leggeva i giornali, correggeva le bozze,
vedeva gente. Gli Zanichelli lo vezzeggiavano, sbrigavano per lui
fastidiose incombenze, gli regalavano (era un bibliofilo accanito)
preziosi volumi. E lambrusco. Il vino entra spesso nel rapporto
Carducci-Zanichelli: che del resto firmò le sue Nuove poesie
(il primo volume carducciano che Zanichelli si incaricò di
distribuire, insieme ad un libro che, guarda caso, parlava di vini)
Enotrio Romano, da Enotria, terra del vino, che era poi l'antico nome
dell'Italia. La sera, sempre in libreria, uno scopone. "Ditemi
magari che non so fare versi, ma non giudicatemi un cattivo giocatore
di scopone", diceva Carducci che invece era un giocatore
mediocre. Lambrusco e scopone. Forse, per capire meglio quell'Italia
e quegli uomini, invece di lasciarsi sopraffare dalla retorica - come
ancora qualcuno che non cito continua a fare - bisognerebbe partire
da lì.
“la Repubblica”, 23
giugno 1985
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