Ho appena letto un libro
non nuovissimo e per nulla pretenzioso che si intitola Sicilia, o
cara ed ha come sottotitolo Un viaggio sentimentale, opera
di Giuseppe Culicchia, scrittore e traduttore nato e vissuto a Torino
e, se non mi sbaglio, torinista, figlio di un immigrato marsalese. Il
libro racconta con leggerezza (soprattutto senza gli eccessi di
erudizione che spesso gravano su libri dello stesso genere) i suoi
rapporti con la Sicilia e specialmente con la città del padre.
Un'appendice, come è ormai d'uso, è dedicata alle ricette di cucina
che lo scrittore attribuisce al padre. Si tratta, quasi sempre, di
classici della cucina marsalese e siciliana, generalmente
semplificati, ma mantenendone l'essenza. Funzionano.
Dal libro riprenderò
alcune pagine, comprese un paio di quelle gastronomiche, ma voglio
cominciare con il primo dei viaggi da Torino alla Sicilia con il
famoso “Treno del Sole”, soppresso nel 2011. L'anno in cui si
colloca è il 1972 e il protagonista ha solo sette anni. (S.L.L.)
Villa San Giovanni, 1964. L'imbarco sul traghetto del direttissimo Torino-Palermo. |
Il treno, venne fuori,
traboccava di siciliani, uomini, donne e bambini, tutti con la pelle
scurissima e i capelli neri come mio padre. A differenza di mio
padre, però, non sembravano parlare piemontese e si esprimevano
appunto in siciliano, quella lingua incomprensibile piena di chistu
e di chiddu che mio padre usava solo quando venivano a
trovarci da Torino le sue due sorellastre e per me e mia sorella zia
Fortunata e zia Rosa, dette rispettivamente Nata e Sina, con il
corredo di figli e nipoti ma un solo zio, Michele, ovvero il marito
di Sina, perché l’altro, Totò, il marito di Nata, era morto pochi
anni prima. Qualcuno aveva già tirato fuori i panini imbottiti di
sugo e melanzane fritte, la pasta al forno con l’uva passa e i
pinoli, le pizze fatte in casa e cosparse di origano, olive,
acciughe, capperi, cipolle. Ogni famiglia aveva con sé una scorta di
cibo che sarebbe bastata fino a Zanzibar o a Samarcanda, e ogni
boccone era un tentativo di esorcizzare per sempre la guerra, la
fame, l’immigrazione, la povertà. I bambini gridavano, mangiavano,
bevevano, giocavano, correvano, piangevano, non di rado tutto nello
stesso momento. Gli adulti salutavano dai finestrini chi li aveva
accompagnati fino al treno, a meno che non si trattasse come nel
nostro caso di un semplice facchino. Certe donne avevano perfino
tirato fuori dall’incavo tra i seni un fazzoletto bianco, e lo
sventolavano dopo essersi asciugate il sudore sulla fronte e sulla
nuca. Altre invece avevano già estratto da una delle innumerevoli
valigie e borse in pura plastica o similpelle il ventaglio che
avrebbero adoperato senza sosta da quel momento in poi fino a
Palermo. Io mi limitai a esplorare affascinato il nostro
scompartimento, dove un inserviente delle Ferrovie dello Stato aveva
già provveduto a calare le cuccette, le cuccette su cui mia madre e
un’altra signora stavano sistemando i cuscini e le lenzuola di
cotone su cui era stampata la sigla FFSS, e perfino le coperte,
malgrado il caldo. I posti infatti erano sei, e assieme a noi quattro
avrebbe viaggiato una coppia: lei vestita di nero dalla testa ai
piedi come la nonna nelle fotografie dei nostri album, lui con un
abito di lino bianco immacolato, anche se all’occhiello spiccava il
classico bottone nero del lutto. “Io dormo lassù!” comunicai ai
miei genitori quando scoprii che i nostri posti corrispondevano alle
due cuccette in alto e alle due nel mezzo. Il fischio del
capostazione coprì le parole di mia madre, preoccupata che potessi
cadere durante la notte. Mi arrampicai su per la scaletta con il mio
“Topolino” proprio mentre il convoglio cominciava a muoversi
lentamente sui binari, e presi possesso della cuccetta, simile a
quelle dove dormivano i marinai nei film di guerra che passavano in
televisione e perciò ai miei occhi bellissima. Molto presto dal
riquadro del nostro finestrino sparirono le facce degli
accompagnatori, e dopo di queste anche i marciapiedi e gli edifici
della stazione. Fuori ormai si stava facendo buio, e il capotreno o
chi per lui aveva acceso la luce.
Dimenticavo: naturalmente
viaggiavamo in seconda classe, che comunque era un bel progresso
rispetto alla terza che aveva preso mio padre per il suo viaggio da
Marsala a Torino nel 1946.
Da Sicilia, o cara,
Feltrinelli, 2010
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