Le domande che
lascia aperte
Una morte così
perfettamente iscritta in un discorso sembra essa stessa essere
parola, segno di una verità ostinatamente, freneticamente
perseguita. Tanto più dopo che le cronache della radio, della
televisione, dei giornali, i ragionamenti — forse mai così sinceri
e spietati e dolenti — di tutto ciò che conta e si muove nella
cultura italiana, non si sono limitati a darci il ritratto umano e
culturale di Pier Paolo Pasolini, a ripercorrere la sua presenza
inquieta nella lotta politica e ideale in oltre vent'anni della
nostra storia, ma hanno tentato di continuare quel discorso così
dolorosamente interrotto, che è il discorso sul nostro presente duro
e così spesso tragico e sul nostro incerto, oscuro futuro. E
tuttavia, tutti insieme — penso all'immenso potere della macchina
dei mass-media che, a torto o a ragione, egli ha fino all'ultimo
continuato a denunciare e al tempo stesso, contraddittoriamente ma
non tanto, a servire e a servirsene — è come se avessero finito
col contribuire alla fissazione, alla continuazione come mito o
parabola moderna, di quel personaggio Pasolini così reale e così
inquietante, così vero e così scomodo per tutti, che egli ha dovuto
— forse assai più che voluto — costruire nel corso di tutta la
sua vita, della sua ininterrotta battaglia intellettuale e pubblica,
sino alla fine e al prevedibile e previsto paesaggio di miseria, di
desolazione, di violenza e di pena feroce dove la morte lo ha
stroncato.
Eppure questa fine
atroce, emblematica degli abissi che stanno attorno e dentro le
nostre stesse certezze o speranze, non chiude, non deve chiudere il
cerchio. È ancora una domanda che Pasolini, nel momento in cui la
sua bocca viene tappata per sempre, continua a porci con lo stesso
assillo frenetico con cui ha continuato a gridarla negli ultimi mesi.
Dirò di più. Sta a noi, in qualche misura, far sì che il «
personaggio » non si sovrapponga a questa domanda e non la soffochi.
Abbiamo e avremo sempre di più bisogno, noi comunisti, di un
interlocutore scomodo e difficile qual era Pasolini: il quale ci
aveva scelti come punto di riferimento e speranza — sia pure solo
astratta e ipotetica — di tutta la sua battaglia politica, morale e
ideale, non perché avessimo pronte le risposte, ma per quello che
siamo venuti rappresentando nella storia delle classi subalterne in
Italia in questo dopoguerra, forza di organizzazione e di lotta, polo
di aggregazione nella generale disgregazione di valori, bisogno di
una società diversa. Si potranno, si dovranno ancora discutere le
motivazioni profonde, esistenziali e culturali, del suo « male di
vivere »: cogliere con pietà e onestà morale e intellettuale tutta
la profondità della ferita che era in lui e da cui sgorgavano —
ora lo sappiamo fin troppo bene — come sangue i suoi versi, le
immagini lancinanti dei suoi film, le sue disperate interrogazioni.
Ma è innegabile che, nella sua « diversità », a noi in primo
luogo egli si rivolgesse. E toccherà a noi ancora, oggi e domani
molto di più di quanto abbiamo saputo fare ieri, rispondergli. Per
questo, se tra le file di quella classe dominante che egli così
accanitamente ha combattuto e che così ferocemente per vent'anni lo
ha odiato, vilipeso, censurato, perseguitato, c'è oggi chi trae un
sospiro di sollievo perché, passato questo momento di commozione
popolare, quella voce umile, tenace e ferma comunque tacerà per
sempre, noi dovremo far nostro anche il suo coraggio solitario e
disperato perché essa in qualche modo risuoni ancora, e ci solleciti
e ci aiuti nella nostra lotta.
Intanto, c'è la grande
questione della violenza che cresce «a livello di massa» in questa
società, come conseguenza della crisi politica e di valori e di
quello che egli chiamava il vero e proprio «genocidio culturale ».
La nostra risposta deve sapersi porre all'altezza che anche questo
atroce ed emblematico episodio impone. Dobbiamo prima di tutto capire
di più, organizzarci di più, collegare di più le proposte
operative immediate con la grande ispirazione di fondo che è la
nostra, e che si può riassumere nel compito immane della gramsciana
« riforma intellettuale e morale ». Senza illusioni, ma senza
rinunce. Sappiamo bene di chi è la colpa della «mutazione
antropologica» (altro termine pasoliniano con cui abbiamo avuto e
avremo molto da discutere); ma anche qui, non possiamo accontentarci
che altri, sempre più numerosi, condividano la nostra e sua denuncia
e vogliano fare qualcosa con noi per rovesciare questo corso;
dobbiamo invece estendere nella pratica quotidiana, e fin nel
costume, le alleanze — e l'egemonia — della classe operaia, anche
— perché no? — per impedire delitti così sconvolgenti come
questo e gli altri che insanguinano ogni giorno di più il paese e
degradano le nostre illusorie metropoli e periferie coloniali.
Sappiamo, e dovremo capire sempre meglio, come violenza «a livello
di massa », delitto gratuito e criminalità organizzata, fino alle
trame nere e alla strategia della tensione, facciano in definitiva
parte di una stessa catena che potrebbe soffocare il paese.
Ma i problemi che abbiamo
di fronte sono anche molto più gravi. Pasolini li ha vissuti e
probabilmente ne è morto. Possiamo noi tacerne e fare come se non
esistessero? E' tutta la problematica del «diverso»,
dell'«escluso», su cui egli aveva costruito una intera metafisica,
a investire ormai la vita quotidiana di interi agglomerati urbani e
coinvolgere comunque le coscienze di tutti. I temi della sessualità
— ma anche quelli della omosessualità — vengono alla ribalta in
relazione con profondi mutamenti sociali e con la traumatica crisi
generale con una drammaticità che molti forse avevano sottovalutato
e che è resa ancora più acuta da antiche arretratezze connesse alla
storia e alla cultura di massa del nostro paese. Anche su questi temi
dobbiamo saperci misurare, e soprattutto lavorare tra le masse, senza
cedere alle provocazioni radicali ma anche senza dogmatismi.
Pensiamo tuttavia che la
morte di Pasolini ci inviti anche ad altre riflessioni, che investono
la condizione più generale dell'intellettuale. Siamo infarti
convinti che il suo essere «diverso» avesse motivazioni meno
facilmente riconducibili alla psicologia e alla biologia. Al fondo
della sua ferita, c'era — col suo bene e col suo male — una tale
disperata fame di conoscenza da segnare tutto il suo destino. Si è
parlato di identificazione arte-vita, quasi di un rovescio speculare
(di matrice cattolica o persino luterana) di quella che fu la più
esemplare e mostruosa esperienza decadente della letteratura italiana
dell'ultimo secolo, quella dannunziana. Io direi piuttosto che quel
bisogno di identificazione esistenziale e fin culturale con tutto ciò
che nella società che egli sentiva così profondamente sua vi fosse
di emarginato, di oppresso, di «diverso» appunto, nasceva da
qualcosa di ben più alto, che era disperazione ma anche immenso
coraggio intellettuale e morale: ossia la coscienza della separatezza
della parola — suo strumento e sua dannazione — dal vivere. E
tutto ciò, nel quadro di uqa cultura che aveva accolto tutti gli
strumenti più affinati e consapevoli della ricerca contemporanea, ma
che da sola, questo problema non aveva saputo porsi, né viverlo
nella pena quotidiana della carne e della lotta. E morirne.
È un'altra domanda che
egli ci lascia. E che attende altre risposte.
Rinascita, 7 novembre
1975
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