Nel 1967 Muhammad Ali
recitò questi versi durante il discorso sull’obiezione di
coscienza: «The Draft is about White People sending Black People
to fight Yellow People to protect the country they stole from the Red
People». Una traduzione, inevitabilmente approssimativa e che
rende solo vagamente la forza espressiva e la «metrica dei versi»
di Ali, potrebbe essere la seguente: «Il Progetto è che i Bianchi
mandino i Neri a combattere i Gialli per proteggere un paese che
hanno rubato ai Rossi».
Questa invenzione,
rileggendola adesso, sembra un rap ante literam che ribadisce
la poliedricità di un personaggio come lui.
Forse è per questo che
fu avversato fin dall’inizio, e malgrado ciò non è mai stato uno
sconfitto.
So che è inusitato il
panegirico di un campione dello sport ma, come ho scritto nel libro
Il mio Ali, credo che solo chi non è stato abbastanza
informato può discutere l’omaggio a Muhammad Ali-Cassius Clay, per
quello che ha rappresentato, per quello che ha detto e per quello che
ha fatto.
E nell’era della
televisione, dove un premio non si nega proprio a nessuno, questo re
del ring pronto ad esporsi per difendere non solo i propri diritti,
ma quelli di molti altri, ha rappresentato un esempio indiscutibile.
A diciotto anni aveva
conquistato la medaglia d’oro nella boxe alle Olimpiadi di Roma,
categoria mediomassimi, riempiendo di botte, fra la sorpresa
generale, Zbigniew Pietrzykowsky, un polacco fino a quel momento
onusto di vittorie olimpiche ed europee.
A ventitre anni, passato
professionista, aveva conquistato il titolo dei massimi cancellando
un duro come Sonny Liston.
Eppure la sua eccellenza
sarebbe stata quella di essere un grande uomo prima che un grande
pugile.
Non c’è stato,
infatti, uno sportivo o un protagonista del nostro tempo che abbia
travalicato i confini del suo mondo come Cassius Clay-Muhammad Ali
per diventare un simbolo positivo, una persona accettata da tutti,
anche da chi, negli anni ’60, lo detestava per la presunzione di
voler essere molto più del campione che era, molto più di quel
meraviglioso innovatore della boxe alla quale aveva tolto violenza e
regalato spesso le movenze di una danza, la gioia di una festa, lo
stile quasi di un’artista.
Allora questo giovane
bello e apparentemente superbo, che condizionava gli avversari più
con gli atteggiamenti irridenti che con la volontà di far loro del
male, aveva voluto dar voce, approfittando della sua fama, ad un
popolo, quello di milioni di afroamericani, che cinquant’anni fa,
nella stagione di Martin Luther King, faticavano ancora a far valere
i propri diritti e non avevano ancora conquistato negli Stati uniti,
una compiuta emancipazione.
Mezzo secolo dopo un nero
di radici africane, Barack Obama è il presidente di quella nazione e
il merito di questa incredibile evoluzione sociale è anche di
persone come questo ex ragazzo di Louisville, Kentucky, che oggi
aveva settantaquattro anni e, in quell’epoca, influenzato dal
leader afroamericano Malcolm X, cambiò il suo nome per scegliere
quello di Muhammad Ali, si convertì alla fede islamica rifiutò,
perché ministro di culto, di andare a far la guerra in Vietnam e,
per questo, fu privato del titolo mondiale che avrebbe riconquistato,
soltanto sei anni dopo contro George Foreman sconfitto per knock-out
a Kinshasa, in Congo, in quello che fu definito il «match del
secolo».
Per ritornare a
combattere e vincere aveva dovuto aspettare che vicende come la sua
convincessero il Congresso nordamericano a cambiare la legge
sull’obiezione di coscienza.
Mentre, per arrivare a
questa sfida Ali, da parte sua, aveva nel frattempo dovuto
incontrare, e due volte su tre battere, Joe Frazier, l’avversario
di sempre, in match epici che avrebbero lasciato tracce nella salute
di entrambi.
Un campione idealista
nella vita e provocatorio nel modo di stare sul ring, che così mi
spiegò una volta le sue scelte: «La mia abilità di pugile,
innamorato della fantasia, che condiziona l’avversario più con gli
atteggiamenti irridenti che con la volontà di fargli male, non
sarebbe servito a niente se io non avessi capito che dovevo
utilizzare i media, invece di farmi usare. E se veramente avessi
voluto far emergere il mio disagio, la protesta, il dolore,
l’orgoglio degli afroamericani, dovevo utilizzare quei microfoni
che mi buttavate davanti alla bocca dopo le vittorie. Dovevo sputare
le mie sentenze, le mie sfide esasperate sui vostri taccuini cercando
di precedere le vostre domande, imponendo i miei argomenti ai
vostri».
Fu una rivoluzione di
stile, di linguaggio fatta da un pugile. Una vera intuizione di
marketing prima del marketing.
Non a caso Ali iniziava
sempre le conferenze stampa ricordando: «Nessuno, nemmeno il
Presidente degli Stati uniti (in quegli anni del suo ritorno sul ring
alla Casa bianca c’era Jimmy Carter) ha la possibilità di parlare
come me, in ogni occasione, a così tanti giornali, radio e
televisioni».
Furono gli ultimi anni
d’oro dello show business della boxe, irradiata via satellite in
ogni angolo della terra, dal ventre dell’Africa alle Isole
Filippine.
Era tuttavia la
personalità di Muhammad Alì a tenere in piedi tutto, a dettare i
tempi dello spettacolo.
Una volta, prima del
match di rivincita con Leon Spinks contro cui avrebbe conquistato per
la terza volta il titolo mondiale, perso mesi prima con il giovane
avversario in una sera di malumore, sosteneva di aver messo in
castigo i giornalisti accusati di essere scorretti.
Ma avendo una particolare
simpatia per me, aveva deciso di derogare e concedermi un’intervista
prima dell’incontro.
Non avevamo neanche
incominciato il dialogo che, come un ossesso, era arrivato il
producer della Abc, il network che aveva l’esclusiva di
quello spettacolo da New Orleans. «Come ti permetti! –aveva urlato
– di parlare con questo italiano dopo aver negato l’intervista a
tutti, perfino a noi che abbiamo pagato questo show!».
Ali, steso mollemente sul
canapè della sua suite, a quel punto si era raddrizzato e, rivolto
al manager, aveva detto, improvvisamente serio: «Voi avete comprato
il mio spettacolo, non la mia vita».
Muhammad Ali è stato un
vero testimone del suo tempo, che ha rappresentato e rappresenta come
nessuno.
Anche per il coraggio e
la pazienza con cui affronta da tempo la malattia che lo angustia, il
morbo di Parkinson.
Qualche anno fa, dopo che
lo avevo accompagnato a una visita privata da Papa Giovanni Paolo II,
che lo aveva ricevuto con un’ammirazione tenerissima, da
inaspettato conoscitore della sua boxe, mi aveva detto: «Il mio Dio
mi ha dato talmente tanto nei primi quarant’anni che se adesso mi
toglie qualcosa, sono sempre pari con la vita».
Il manifesto 5 giugno
2016
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