19.8.16

Muhammad Ali. Campione idealista e provocatorio (Gianni Minà)

Nel 1967 Muhammad Ali recitò questi versi durante il discorso sull’obiezione di coscienza: «The Draft is about White People sending Black People to fight Yellow People to protect the country they stole from the Red People». Una traduzione, inevitabilmente approssimativa e che rende solo vagamente la forza espressiva e la «metrica dei versi» di Ali, potrebbe essere la seguente: «Il Progetto è che i Bianchi mandino i Neri a combattere i Gialli per proteggere un paese che hanno rubato ai Rossi».
Questa invenzione, rileggendola adesso, sembra un rap ante literam che ribadisce la poliedricità di un personaggio come lui.
Forse è per questo che fu avversato fin dall’inizio, e malgrado ciò non è mai stato uno sconfitto.
So che è inusitato il panegirico di un campione dello sport ma, come ho scritto nel libro Il mio Ali, credo che solo chi non è stato abbastanza informato può discutere l’omaggio a Muhammad Ali-Cassius Clay, per quello che ha rappresentato, per quello che ha detto e per quello che ha fatto.
E nell’era della televisione, dove un premio non si nega proprio a nessuno, questo re del ring pronto ad esporsi per difendere non solo i propri diritti, ma quelli di molti altri, ha rappresentato un esempio indiscutibile.
A diciotto anni aveva conquistato la medaglia d’oro nella boxe alle Olimpiadi di Roma, categoria mediomassimi, riempiendo di botte, fra la sorpresa generale, Zbigniew Pietrzykowsky, un polacco fino a quel momento onusto di vittorie olimpiche ed europee.
A ventitre anni, passato professionista, aveva conquistato il titolo dei massimi cancellando un duro come Sonny Liston.
Eppure la sua eccellenza sarebbe stata quella di essere un grande uomo prima che un grande pugile.
Non c’è stato, infatti, uno sportivo o un protagonista del nostro tempo che abbia travalicato i confini del suo mondo come Cassius Clay-Muhammad Ali per diventare un simbolo positivo, una persona accettata da tutti, anche da chi, negli anni ’60, lo detestava per la presunzione di voler essere molto più del campione che era, molto più di quel meraviglioso innovatore della boxe alla quale aveva tolto violenza e regalato spesso le movenze di una danza, la gioia di una festa, lo stile quasi di un’artista.
Allora questo giovane bello e apparentemente superbo, che condizionava gli avversari più con gli atteggiamenti irridenti che con la volontà di far loro del male, aveva voluto dar voce, approfittando della sua fama, ad un popolo, quello di milioni di afroamericani, che cinquant’anni fa, nella stagione di Martin Luther King, faticavano ancora a far valere i propri diritti e non avevano ancora conquistato negli Stati uniti, una compiuta emancipazione.
Mezzo secolo dopo un nero di radici africane, Barack Obama è il presidente di quella nazione e il merito di questa incredibile evoluzione sociale è anche di persone come questo ex ragazzo di Louisville, Kentucky, che oggi aveva settantaquattro anni e, in quell’epoca, influenzato dal leader afroamericano Malcolm X, cambiò il suo nome per scegliere quello di Muhammad Ali, si convertì alla fede islamica rifiutò, perché ministro di culto, di andare a far la guerra in Vietnam e, per questo, fu privato del titolo mondiale che avrebbe riconquistato, soltanto sei anni dopo contro George Foreman sconfitto per knock-out a Kinshasa, in Congo, in quello che fu definito il «match del secolo».
Per ritornare a combattere e vincere aveva dovuto aspettare che vicende come la sua convincessero il Congresso nordamericano a cambiare la legge sull’obiezione di coscienza.
Mentre, per arrivare a questa sfida Ali, da parte sua, aveva nel frattempo dovuto incontrare, e due volte su tre battere, Joe Frazier, l’avversario di sempre, in match epici che avrebbero lasciato tracce nella salute di entrambi.
Un campione idealista nella vita e provocatorio nel modo di stare sul ring, che così mi spiegò una volta le sue scelte: «La mia abilità di pugile, innamorato della fantasia, che condiziona l’avversario più con gli atteggiamenti irridenti che con la volontà di fargli male, non sarebbe servito a niente se io non avessi capito che dovevo utilizzare i media, invece di farmi usare. E se veramente avessi voluto far emergere il mio disagio, la protesta, il dolore, l’orgoglio degli afroamericani, dovevo utilizzare quei microfoni che mi buttavate davanti alla bocca dopo le vittorie. Dovevo sputare le mie sentenze, le mie sfide esasperate sui vostri taccuini cercando di precedere le vostre domande, imponendo i miei argomenti ai vostri».
Fu una rivoluzione di stile, di linguaggio fatta da un pugile. Una vera intuizione di marketing prima del marketing.
Non a caso Ali iniziava sempre le conferenze stampa ricordando: «Nessuno, nemmeno il Presidente degli Stati uniti (in quegli anni del suo ritorno sul ring alla Casa bianca c’era Jimmy Carter) ha la possibilità di parlare come me, in ogni occasione, a così tanti giornali, radio e televisioni».
Furono gli ultimi anni d’oro dello show business della boxe, irradiata via satellite in ogni angolo della terra, dal ventre dell’Africa alle Isole Filippine.
Era tuttavia la personalità di Muhammad Alì a tenere in piedi tutto, a dettare i tempi dello spettacolo.
Una volta, prima del match di rivincita con Leon Spinks contro cui avrebbe conquistato per la terza volta il titolo mondiale, perso mesi prima con il giovane avversario in una sera di malumore, sosteneva di aver messo in castigo i giornalisti accusati di essere scorretti.
Ma avendo una particolare simpatia per me, aveva deciso di derogare e concedermi un’intervista prima dell’incontro.
Non avevamo neanche incominciato il dialogo che, come un ossesso, era arrivato il producer della Abc, il network che aveva l’esclusiva di quello spettacolo da New Orleans. «Come ti permetti! –aveva urlato – di parlare con questo italiano dopo aver negato l’intervista a tutti, perfino a noi che abbiamo pagato questo show!».
Ali, steso mollemente sul canapè della sua suite, a quel punto si era raddrizzato e, rivolto al manager, aveva detto, improvvisamente serio: «Voi avete comprato il mio spettacolo, non la mia vita».
Muhammad Ali è stato un vero testimone del suo tempo, che ha rappresentato e rappresenta come nessuno.
Anche per il coraggio e la pazienza con cui affronta da tempo la malattia che lo angustia, il morbo di Parkinson.
Qualche anno fa, dopo che lo avevo accompagnato a una visita privata da Papa Giovanni Paolo II, che lo aveva ricevuto con un’ammirazione tenerissima, da inaspettato conoscitore della sua boxe, mi aveva detto: «Il mio Dio mi ha dato talmente tanto nei primi quarant’anni che se adesso mi toglie qualcosa, sono sempre pari con la vita».


Il manifesto 5 giugno 2016

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