Alla celebrazione del
centenario della teoria della relatività “il manifesto” dedicò
sul finire del 2015 un'intera pagina a cura di Andrea Capocci. Essa
comprendeva una sorta di promemoria sui suoi contenuti e sui suoi
limiti sotto il titolo Luce, massa e un bell'effetto Gps e
un'ampia intervista su Einstein a un fisico italiano tra i più
stimati nel mondo, Giovanni Amelino-Camelia, dell'Università La
Sapienza di Roma. La tesi, da costui enunciata, di una precoce decadenza di Einstein,
che - dopo una formidabile giovinezza di scoperte straordinarie –
avrebbe dato contributi trascurabili e gestito come un divo la fama
conseguita e meritata, ha suscitato dissensi e polemiche e richiede, se non altro, qualche verifica.
Riprendo in questo post entrambi gli articoli: la rievocazione in blu e l'intervista in nero. (S.L.L.)
Luce, massa e un
bell'effetto Gps
A. Ca.
Il 2 dicembre 1915, la
rivista dell’Accademia Prussiana delle Scienze pubblicava
l’articolo di Albert Einstein in cui veniva presentata la teoria
della relatività generale nella sua forma finale, dopo diverse
revisioni. La teoria prevede che lo spazio e il tempo vengano
modificati dalla massa dei corpi. Per capirlo con un’analogia,
immaginiamo lo spazio come un telo teso ai lati in modo da renderlo
piatto. Su una simile superficie, una sferetta leggera rotolerebbe in
linea retta. Ora immaginiamo di appoggiare una massa sul telo. Essa
lo deforma, creando un avvallamento. La sferetta lanciata in linea
retta, giunta in prossimità dell’avvallamento, ora devierà per
seguire la pendenza del telo. Secondo la teoria della relatività
generale, l’effetto della massa sullo spazio è simile.
La teoria precedente,
quella newtoniana, prevedeva invece che lo spazio e il tempo fossero
immutabili e le masse si attirassero tra loro. In questa ipotesi la
luce, che non risente dell’attrazione gravitazionale, dovrebbe
procedere in linea retta. Se invece si comportasse come la sferetta
sul telo, cioè secondo la teoria di Einstein, la presenza di una
massa ne devierebbe la traiettoria. Nel 1919, osservando la luce
proveniente dalle stelle durante un’eclissi solare, l’inglese
Arthur Eddington confermò che la traiettoria della luce veniva
effettivamente deviata dalla massa, confermando la validità della
teoria di Einstein.
Gli effetti della
curvatura dello spazio-tempo sono visibili anche su scale più
piccole di quelle galattiche. Solo con la teoria di Einstein si sono
spiegate le piccole ma significative anomalie dell’orbita di
Mercurio che, per la sua vicinanza al Sole, risente maggiormente
della curvatura spazio-temporale. Anche il sistema di localizzazione
Gps, basato su una rete di satelliti in orbita intorno alla Terra,
deve la sua precisione ai calcoli basati sulla teoria della
relatività. Altrimenti, la posizione rilevata dai satelliti
accumulerebbe un errore pari a una decina di chilometri al giorno.
Sebbene la teoria sia
rimasta sostanzialmente immutata dalla sua fondazione, essa è
tuttora considerata «incompleta». Ad esempio, a piccolissime
distanze la teoria della relatività generale prevede che la
curvatura diventi infinita, ma una simile grandezza non è misurabile
e dunque, per definizione, non è scientifica. Su piccole distanze,
ci si aspetta che i cosiddetti effetti quantistici giochino un ruolo
importante, ma le teorie quantistiche della gravità ipotizzate
devono ancora ricevere conferme o smentite sperimentali. Inoltre, la
materia visibile non è sufficiente a giustificare la curvatura
spazio-temporale che si osserva nell’universo.
Per giustificare la
discrepanza tra osservazioni e previsioni teoriche, finora si è
ipotizzato che l’85% dell’universo sia costituito di materia
oscura. Ma sulle caratteristiche di questa materia non si sa quasi
nulla.
La frontiera aperta
dell'Universo
Intervista a
Giovanni Amerino-Camelia
Andrea Capocci
Cento anni fa, Albert
Einstein spediva all’Accademia Prussiana delle Scienze l’articolo
Feldgleichungen der Gravitation («Le equazioni di campo della
gravità»), in cui veniva presentata la versione «definitiva»
della teoria della relatività generale, pubblicata poi il 2 dicembre
del 1915. Era la conclusione di un percorso iniziato nel 1905, e che
proseguirà ancora nei primi mesi del 1916. Dieci anni prima,
Einstein aveva contribuito anche alla fondazione della meccanica
quantistica e delle particelle. Grazie alla teoria della relatività
generale, il fisico tedesco si conquistò un ruolo indiscutibile
nella cultura non solo scientifica del ventesimo secolo.
Secondo molti, la vicenda
di Einstein è irripetibile: la dimensione industriale della scienza
attuale impedisce che un singolo scienziato dia un contributo così
rilevante al progresso delle conoscenze. D’altra parte, Einstein
continua a rappresentare un riferimento per generazioni di studenti e
per l’immagine della scienza veicolata dai media. Solo qualche anno
fa, la rivista americana Discover individuava sei possibili
nuovi «Einstein» in grado di rivoluzionare la fisica andando anche
oltre Einstein stesso: unificando, cioè, la teoria della relatività
e la meccanica quantistica. Tra loro anche un italiano: Giovanni
Amelino-Camelia, cinquantenne fisico dell’università La Sapienza
di Roma. Un ottimo interlocutore, dunque, per comprendere l’eredità
scientifica di Einstein e i futuri sviluppi delle sue teorie. «Prima
però dobbiamo metterci d’accordo. Di Einstein non ce n’è uno
solo: ce ne sono almeno tre».
In che senso,
professore?
C’è il divo, quello
che fa le smorfie e va sulle magliette, che nasce ufficialmente nel
1919. È l’anno in cui Eddington conferma la validità della teoria
della relatività generale. Einstein finisce sulle prime pagine e la
stampa lo trasforma in un personaggio di fama mondiale. Quello è lo
scienziato-icona che piace molto ai media, svampito e stravagante
come ormai immaginiamo che debba essere uno scienziato. Ma è un
Einstein che fa comodo a tutti. È simpatico, fa vendere, quando
compare sulla copertina di una rivista funziona sempre. È un’icona
dotata di un valore economico.
E gli altri?
C’è l’Einstein
giovane, quello che tra il 1905 e il 1916 compie alcune delle
scoperte più straordinarie della storia della scienza. Sarebbero
tante anche per un’intera generazione di scienziati, figuriamoci
per un uomo solo. Infine, c’è l’Einstein della maturità che,
dopo il 1919, dà un contributo scientifico trascurabile. Non si
tratta di vecchiaia, perché nel 1919 ha solo quarant’anni. Eppure
contraddice completamente il suo modo di lavorare. Perde la bussola,
attacca la meccanica quantistica come un crociato. Secondo Wolfgang
Pauli, un altro grande fisico poco più giovane di lui, le ricerche
di Einstein di quel periodo sono «terribile immondizia». Solo il
peso scientifico del personaggio costringe gli altri a prenderlo sul
serio. Però così riesce anche ad avere un ruolo politico
importante, a cavallo della seconda guerra mondiale.
A lei quale Einstein
interessa di più?
Quando me lo chiedono, a
me piace parlare del giovane scienziato, anche se è quello più
difficile da raccontare. Ma se ci ricordiamo lo scienziato spettinato
o quello pacifista, è grazie al giovane Einstein.
È lo scienziato delle
grandi intuizioni…
Anche il suo intuito
certe volte ci azzeccava e altre no, come tutti. La grande forza di
Einstein fu piuttosto la adesione totale al metodo scientifico, che
ci aiuta a liberarci dai pregiudizi. Einstein studiò i risultati di
esperimenti che nessuno riusciva a interpretare. Ipotizzò per primo
che la luce potesse comportarsi come una particella, il fotone, il
primo mattone della meccanica quantistica. E fu ancora Einstein a
sviluppare la teoria atomica della materia, studiando il moto casuale
di un granello di polline in un liquido. Quegli undici anni sono un
perfetto manuale del fare scienza confrontandosi con i dati e solo
con loro, senza pensare alla teoria più «elegante» o più «bella».
Studiandoli da vicino si impara molto più che la relatività o la
meccanica quantistica.
A lei cos’altro
hanno insegnato?
Ad esempio, che anche
senza microscopio si può indagare i componenti più piccoli della
realtà. Quando Einstein teorizzò atomi e molecole non c’erano gli
strumenti di oggi, che riescono persino a fotografarli. Ma gli atomi,
se esistevano, collettivamente dovevano produrre effetti visibili. Fu
proprio studiando gli effetti macroscopici che Einstein scoprì i
costituenti più piccoli della materia.
Oggi però i
microscopi in cui misurare gli effetti quantistici esistono, sono gli
acceleratori di particelle…
Ma persino al Cern non
arrivano ad osservare le distanze più piccole, laddove la teoria
della gravità e meccanica quantistica devono ancora essere comprese.
Allora anche io, come Einstein, cerco di studiare sistemi più
grandi. Fortunatamente, ce n’è uno grande abbastanza: è
l’Universo. Gli effetti quantistici della gravità sono invisibili
su scala planetaria. Ma su una particella che viaggia abbastanza a
lungo nell’Universo gli effetti accumulati possono lasciare tracce
osservabili. Se il nostro modello di gravità quantistica funziona,
deve essere in grado di prevedere gli effetti che essa ha su queste
particelle.
E dove troviamo queste
particelle?
Per esempio, c’è un
esperimento in Antartide chiamato IceCube, «cubetto di ghiaccio».
In realtà, è un cubo di ghiaccio di un chilometro e mezzo di lato
pieno di sensori. IceCube riesce a rilevare i neutrini, particelle di
massa piccolissima provenienti dall’universo lontano, ben al di
fuori dalla nostra Galassia. Per ora ne ha intercettati qualche
decina. Se riuscissimo a capire da dove arrivano e quanta strada
hanno fatto, potremmo confrontare i dati e i modelli. Ma c’è
ancora molto da fare prima di mettere d’accordo gravità e
meccanica quantistica.
Questa è la strada
verso la «teoria del tutto»?
Non parlerei di «teoria
del tutto». Il primo nemico di questa idea fu proprio Einstein. Già
a fine Ottocento, quando Einstein era uno studente, le leggi di
Newton sulla gravità e alle equazioni di Maxwell
sull’elettromagnetismo sembravano aver spiegato l’intero
universo. Anche a Max Planck, vent’anni prima, era stato
sconsigliato di intraprendere studi di fisica, perché non c’era
più niente da scoprire. Un paio di decenni dopo, quando Einstein
aveva quarant’anni, quella fisica era stata rasa al suolo e
sostituita da meccanica quantistica e relatività. La «teoria del
tutto» mi ricorda le tavole della legge della religione, più che la
scienza. Io mi accontenterei: la materia che abbiamo conosciuto
finora rappresenta solo il 4% della densità di energia
dell’universo. Il resto è ancora da capire. Siamo lontani anche da
una «teoria del molto». Il «tutto» lasciamolo perdere.
“il manifesto”, 27
novembre 2015
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