Alla voce di Orson
Welles, nelle sequenze centrali del cortometraggio La Ricotta
(1963), Pier Paolo Pasolini ha forse affidato la più disarmata e
incandescente dichiarazione di poetica: «Io sono una forza del
Passato./ Solo nella tradizione è il mio amore./ Vengo dai ruderi,
dalle Chiese, dalle pale d’altare, dai borghi/ dimenticati sugli
Appennini e sulle Prealpi,/ dove sono vissuti i fratelli./ (...)
Mostruoso è chi è nato/ dalle viscere di una donna morta./ E io,
feto adulto, mi aggiro/ più moderno di ogni moderno/ a cercare
fratelli che non sono più». Nei versi si contiene la coscienza
d’una sfasatura cronologica (il sentirsi estraneo, un sopravvissuto
ostile) e insieme di uno squilibrio percettivo, quasi d’una
perdizione: il sapersi divorato da una fame di forme, eventi, corpi
chiamati a ribadire una radicale estraneità.
Quando si parla di
sperimentalismo, troppo spesso si tace l’assoluta fissità dello
sguardo, un sentire che non sembra conoscere varianti di spazio e
tempo; viceversa, quando si dice manierismo, alludendone
l’estroversione e febbre da engagement (la rincorsa ai
fatti, ai destini generali) lo si liquida traducendolo in nostalgico
anacronismo. L’anacronismo dei fuochi fatui, dei meteoriti. Un
senso comune filisteo perciò gli conferisce rango di classico
proprio nel momento in cui sostanzialmente glielo nega scegliendo di
volta in volta tra stasi e mobilità, tra il dentro d’ima
esperienza poetica refrattaria a ogni assimilazione e il fuori d’una
costante presenza civile.
Pasolini è invece un
convergere anzi un precipitare di prima e dopo, interno ed esterno,
euforia e patimento. Mostruosa è questa lacerazione che non può né
sa richiudersi, cicatrizzata in una sintesi. La sua figura
fondamentale è l’ossimoro, in cui confliggono invarianza e senso
della mutevolezza storica, così come riferimento primario è il
Pascoli, analizzato nel saggio inaugurale della rivista Officina
(maggio ’55) ma già attivo in lui negli anni di formazione e
oggetto della tesi di laurea discussa a Bologna nel novembre del ’
45 con Carlo Calcaterra, un maestro meno affascinante di Roberto
Longhi (che certo Pasolini avrebbe preferito, se non avesse perso nei
trambusti dell’8 settembre gli appunti per la tesi sulla pittura
italiana contemporanea) ma filologo di grande qualità: la tesi sotto
il titolo Antologia della lirica pascoliana, viene adesso
edita da Einaudi con apparato di lettere al relatore e successivi
interventi pascoliani grazie all’attenta cura di Marco A. Bazzocchi
ed Ezio Raimondi.
Non si tratta di
un’organica monografia ma piuttosto d’una selezione già
appoggiata a un personale percorso d'autore. Frammentando il Pascoli,
Pasolini cerca e subito ritrova motivi e consonanze che sono già
iscritte nella propria parola; antologizzandolo, è come se
riesaminasse per traslato i nuclei e le scelte linguistiche della
plaquette d’esordio, le Poesie a Casarsa scritte in
friulano e uscite tre anni prima da una piccola antiquaria bolognese.
Nei minimi detriti di
Myricae e dei Canti di Castelvecchio (ma anche negli
intarsi dei Conviviali), nei particolari capaci di dilatarsi a
universali, dimora una contraddizione che è anche la sua, una specie
di cortocircuito tra l'immobilità psicologica (così uguale a se
stessa da apparire mineralizzata) e una liquidità verbale dilagante:
«Si può dire che il Pascoli possedesse nella parola, nel mezzo
espressivo la sua unica certezza nell’infinito d’incertezza
dov’era immerso». Il diffondersi della parola, inclusiva dall’alto
e dal basso secondo un canone pluri-linguistico avviatosi con Dante,
rinvia per paradosso ad una situazione psicologica bloccata; il
flusso nasconde e nel frattempo allevia il trauma senza mai poterlo
appagare: nel cosiddetto infantilismo pascoliano, nella vita depressa
e strozzata, Pasolini legge infatti i segni in cifra della propria
omosessualità, mentre scopre in quella selva di forme un’autentica
matrice spe-rimentalista. Non la rinnegherà. Nel saggio su
“Officina”, forte dell’avallo di Contini, farà del Pascoli un
crocevia o meglio una funzione in grado di legittimare quanto il
Grande Stile novecentesco (il classicismo ermetico, il neorealismo
della cattedra) sequestra oppure rimuove: il calore dell’esistenza,
il germinare degli idiomi, l’universo muto e reietto del sentire
popolare. Come per il fanciullino del Pascoli, per chi mai ha avuto
accesso alla parola, la lingua è sempre altra, sorgiva, è una
lingua di Adamo che restituisce alle cose i loro semplici nomi. «Per
noi ormai lo scrivere in friulano è un fortunato mezzo per fissare
ciò che i simbolisti e i musicisti dell”800 hanno tanto ricercato
(e anche il nostro Pascoli, per quanto disordinata-mente) cioè una
’melodia infinita(...)»: quando Pasolini scrive queste parole, già
da quattro mesi ha discusso la tesi ed è tornato in Friuli, a
Casarsa.
Nei campi del Friuli, nei
corpi e nella voce intatta degli adolescenti scampati alla guerra, il
poeta proietta l’utopia di una lingua non ancora scissa dalla nuda
esperienza, d’un pronunciare che fuori delle angustie vernacole
corrisponda alla grazia del sentire; un mondo che finalmente sappia
ricomporre la lacerazione tra l’umiltà della vita e la ricchezza
delle forme che la esprimono.
Nico Naldini, che ne fu
sodale testimone, recupera oggi questi scritti friulani di Pasolini
in Un paese di temporali e di primule (Guanda),
ordinandoli secondo la materia (frammenti di narrativa, testi di
linguistica, note di politica e di pedagogia) e premettendo al volume
una lunga memoria biografica che a sua volta è un esempio di
filologia in atto, di critica tradotta senza residui in narrazione.
Diseguali nel taglio, le pagine pasoliniane consuonano con la calma
bellezza di un assetto naturale antico ma ormai prossimo a sciuparsi,
se infatti vi si insinua un filo di disperazione: «Odore di terra
romanza, di area marginale. Sulla dolcezza dell’Italia moderna c’è
come il rigido, fresco riflesso d’un’Italia alpestre dal sapore
neolatino ancora stupendamente recente». La forza del passato,
l’umile Italia dei fratelli che non sono più.
“Il manifesto – la
talpa giovedì”, 10 febbraio 1994
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