«Più che le persone, mi
fanno paura le zanzare»; «Io voglio andare. Se non mi ci portate
voi, datemi un paracadute». Sono solo un paio di battute, colte “al
volo” – è il caso di dirlo – sull’aereo che il 25 scorso
portava papa Francesco a Nairobi, capitale del Kenya e prima tappa
del viaggio di cinque giorni che lo sta vedendo impegnato nel
continente dalle risorse del suolo e del sottosuolo più ricche al
mondo e dalle popolazioni più miserabili della terra. Come tale
gigantesco, incrollabile, insostenibile paradosso sia possibile, e
come tutti lo accettiamo senza fiatare, è forse la spina avvelenata
che sta contagiando il mondo: che lo sta portando verso una catena di
guerre, di violenze e di disastri sia ecologici sia sociali che
potrebbe anche rivelarsi di proporzioni mai viste.
Perché dev’esser
chiaro che questa è la posta in gioco. E che, tra i grandi leaders
mondiali, questo gesuita italoargentino che al suo paese qualcuno
accusa di essere «un gaucho peronista irresponsabile» è l’unico
ad affrontarla direttamente e a chiamare le cose con il loro nome:
come ha fatto nell’enciclica Laudato si’. I rischi sono
molti ed evidenti: per lui, per chi gli sta vicino, per le folle che
accorrono a salutarlo. Lui lo sa bene.
E sa bene che, quando il
pericolo è relativo e non incombe, lo si può anche evitare; ma
quando è lì, ci è addosso, minaccia di sopraffarci, allora non c’è
nulla da fare: va affrontato a muso duro. E lui, dietro certi suoi
disarmanti sorrisi, la grinta del duro ce l’ha eccome.
In un raid mozzafiato,
rifiutando papamobili corazzate e giubbotti antiproiettile, questo
ciclone quasi ottantenne sta visitando un bel pezzo di Africa
centroccidentale: il Kenya dove i cattolici sono quasi 9 milioni,
l’Uganda dove superano i 14, la Repubblica Centroafricana dove sono
invece piuttosto pochi mentre forti sono le comunità
cristiano-evangeliche e musulmana, che lui visiterà tra domenica e
lunedì.
Senza per nulla
minimizzare le tappe a Nairobi in Kenia e a Kampala in Uganda, è
proprio a Bangui, capitale della Repubblica Centroafricana, che
avranno luogo gli incontri più significativi: anzitutto al visita al
campo profughi, quindi la messa nella cattedrale e l’apertura della
prima Porta Santa di quel Giubileo della Misericordia che – il papa
ci tiene – non dovrà avere Roma come centro e mèta bensì
svolgersi fondamentalmente in quelle periferie che egli ama e nelle
quali vede le chiavi per il destino del mondo di domani. Quindi il
papa visiterà la grande moschea della capitale.
Se non ci saranno intoppi
gravi, è evidente che questo è solo il principio. Non potrà non
esserci un’altra visita, specie nei paesi dove i fedeli cattolici
sono ancora più numerosi: 31 milioni nella Repubblica Democratica
del Congo, 20 in Nigeria. Va ricordato che in Africa i cattolici sono
200 milioni, vale a dire il 17% della popolazione cattolica del
mondo; nel clero, i preti africani stanno ormai diventando sempre più
numerosi e a loro viene sovente affidata l’evangelizzazione e la
pastorale rivolta agli europei. Ecco perché Francesco sostiene che
la risorsa più preziosa dell’Africa non sono né il petrolio, né
l’oro, né i diamanti, né l’uranio, né il coltan, bensì gli
uomini. Eppure da questo continente sfruttato e distrutto soprattutto
a causa della scellerata complicità tra le lobbies multinazionali
che lo dissanguano sfruttandolo e i corrotti governi locali che
tengono loro il sacco ricevendone laute prebende mentre la guerra
infuria e le bande terroristiche impazzano, la gente è costretta a
fuggire. Derubati in casa loro e quindi cacciati. Inaudito, ignobile,
intollerabile.
In Africa c’è anche
una grave minaccia terroristica: il papa lo sa bene e non sottovaluta
in pericolo. Non ci sono prove effettive che gruppi come Boko Haram o
come le molte milizie attive in area somala da dove irradiano la loro
violenza siano strutturalmente legate all’IS del califfo
al-Baghdadi. Egli agisce forse solo in franchising, apponendo il suo
trade mark agli attentati e alle azioni violente che riescono e dando
così l’impressione di una potenza intercontinentale che non
possiede. Ciò non diminuisce però di un grammo la pericolosità dei
guerriglieri islamisti. In Uganda agisce, ai confini con il Ruanda e
il Congo, la Adf-Nalu (“Forze democratiche alleate – Esercito
Nazionale di Liberazione dell’Uhanda”), che ormai ha assunto un
inquietante colore confessionale da quando a guidarlo c’è Jamil
Mukulu, un ex cristiano convertito alla setta musulmana taqlib.
Quel ch’è accaduto il
20 scorso nel Radisson Hotel di Bamako nel Mali, è ancora troppo
recente per essere già stato dimenticato: dei clienti uccisi una
volta appurato semplicemente che non conoscevano il Corano. Qualche
giorno fa i rappresentanti dell’Unione europea, riuniti a Malta,
hanno stanziato un po’ meno di 2 miliardi di euro per sostenere lo
sviluppo economico africano e rimpatriare i migranti irregolari: una
goccia nell’oceano, che per giunta – come assicura padre Mussie
Zerai, dell’autorevole agenzia Habeshia – finirà quasi del tutto
nelle tasche di governanti e di politicanti locali. Eppure
l’equilibrio sociopolitico del mondo discende dalla necessità di
una ridistribuzione delle ricchezze nel continente africano.
Il papa lo sa; e sa
benissimo altresì che il terrorismo è imprevedibile e che – se
non si coordinano bene intelligence e infiltrazione per distruggerne
le centrali – i quasi 36.000 uomini del servizio sociale non
possono far quasi nulla per tutelare la sicurezza da nessuno. Lo ha
detto chiaro e tondo: «Il terrorismo si alimenta di paura e
povertà». Ma no, i soliti esperti tuttologi abituali ospiti dei
talk-show durante i quali discettano su tutto, dalla questione
femminile alla Juventus, gli hanno dato sulla voce giudicando la sua
tesi “semplicistica” e “superficiale”, ribadendo con sussiego
che alla base del terrorismo c’è l’ideologia distorta dei
fondamentalismi. Ma sfugge a questi competenti per autolegittimazione
che in una dottrina nella quale la fede viene degradata a base
politica di un nuovo imperialismo vi sono sì i teorici che sanno
quel che fanno, ma la massa di manovra agisce in quanto esasperata
dalle sue condizioni economiche e incapace di disporre di un
linguaggio sociale che non faccia riferimento al bagaglio religioso.
Ma alla base di tutto v’è
una miseria che dilaga in Asia, in Africa, in America latina , che
tocca a differenti livelli il 90% della popolazione del globo (e tra
loro più poveri, quelli che vivono sotto la soglia di sopravvivenza
fissata dalla Banca Mondiale, i fatidici due dollari al giorno, sono
700 milioni) e che è aggravata dall’informazione.
Non esiste povero e
isolato centro che non sia raggiunto dalla Tv o dalla rete
informatica. Ora, i miserabili che pensavano alla loro condizione
economica come “naturale”, sanno e vedono; gli africani ai quali
le multinazionali fanno pagare perfino l’acqua potabile sanno che
là, “in Occidente”, c’è chi nuota in piscine private
olimpioniche la cui capacità sarebbe tale da soddisfare le esigenze
idriche giornaliere di migliaia di persone. E non ci stanno più.
Ora, tra loro molti non trovano di meglio del jihadismo islamista per
reagire; se piegheremo quella forza eversiva, non illudiamoci. Ne
nasceranno altre: in quanto esse costituiscono le risposte distorte,
scorrette, crudeli, disperate, a una situazione intollerabile.
Il papa chiede giustizia
per i poveri nel nome del Cristo, povero tra i poveri. Quelli tra noi
che sono insensibili alla parola di Dio e alla voce dell’umanità,
si muovano almeno per egoismo, per legittima difesa. Per troppo tempo
i poveri non si sono mossi perché non sapevano. Ora che sanno, non
illudiamoci: o costruiamo tutti insieme una società più giusta e
dignitosa, o ci travolgeranno.
“il manifesto”, 27
novembre 2015
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