È uscito da poco in
libreria Giorgio Gaber su Re Nudo (Edizioni Re Nudo): il
volume, prefazione di Gad Lerner, è accompagnato da un dvd con un
video inedito.
Gaber è sempre stato
vicino Re Nudo, storica rivista della controcultura italiana, e
infatti il libro copre un arco di venti anni di articoli e interviste
(1972-2002) in cui il cantautore si racconta, rilassato, in compagnia
di amici dei quali evidentemente si fidava, essendo ben nota la
scarsa simpatia dell'artista milanese per i giornalisti. Ne vengono
fuori precisazioni e chiarimenti, riflessioni e perfino alcuni
monologhi, mai inseriti in spettacoli teatrali, che aiutano meglio a
comprendere la visione del mondo di colui che è stato un autentico
«pensatore» in musica della canzone e del teatro italiani.
L'interlocutore
privilegiato è Majid Valcarenghi, direttore della testata e vecchio
amico di Gaber, ma c'è anche, tra gli altri, Adriano Sofri: scorrono
dunque i ricordi di Parco Lambro nel 1976, che Gaber chiuse davanti a
centomila persone («una delle esperienze più emozionanti della mia
vita»), si precisa, evidentemente pressato, la propria posizione
rispetto alle scelte politiche di Ombretta Colli («fa quel che deve,
con l'idea che effettivamente quella parte politica possa risolvere i
problemi. È chiaro che io non ho quest'idea, ma questo non significa
che lei fa delle cose di cui io mi debba vergognare») rivendicando
di essere «'di sinistra' ma non 'della sinistra'». C'è poi quella
strenua volontà di provocare sempre il suo pubblico che, alla fine
degli anni Settanta, gli si rivoltò contro («a me interessa
scuotere la gente che sento più vicina, che amo, in cui una parte di
me, si riconosce, non mi frega niente di mettere in berlina Fanfani o
Agnelli. Io non voglio compiacere il mio pubblico»).
C'è, soprattutto, la
consapevolezza di essere a pieno titolo un uomo del secolo scorso
(«la maggior parte della mia vita è stata nel Novecento e questi
frammenti che mi rimangono nel Duemila mi pongono di fronte a
prospettive di cambiamento preoccupanti»), che spiega un certo
«ritardo» intellettuale di Gaber, nonostante il grande successo,
nelle sue ultime formulazioni: c'è, insomma, il Gaber sessantottino
che non capisce il Settantasette e, in fondo, lo disprezza,
continuando ossessivamente a evocare quella «massa» indifferenziata
e amorfa che intanto, a sua insaputa, si era trasformata in
«moltitudine», un insieme di singoli differenziati dalla
conversione del modo di produzione fordista in quello postfordista.
C'è, infine, il video: un monologo (registrato nel 1996 al convegno
«Coscienza della morte» organizzato dall'Associazione «Politica e
Zen») che ci restituisce il Gaber più vertiginoso, quello che non
aveva paura, unico tra i cantautori italiani, a calarsi senza remore
negli abissi della malattia e della morte: non la morte «letteraria»
di De André, non quella «politica» di Lolli, non quella romantica
o contadina di Guccini ma quella vera, che si sperimenta negli
ospedali tra parenti e infermieri, umori e odori acri, già cantata
in Gildo. In una magistrale prova attoriale di poco più di
dieci minuti, Gaber, qui solo in prosa, racconta di un uomo che si
isola dai suoi familiari per «conoscere» la morte e in un momento
visionario la percepisce come una donna di malaffare che viene a
sedurre gli uomini per prendersi il loro corpo.
alias il manifesto - 19
gennaio 2008
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