Ernesto De Martino |
Franco Fortini e Cesare Cases |
Non ho né la
preparazione né l’autorità per scrivere il necrologio finora
mancante. Vorrei invece ricordare De Martino riferendo un colloquio
avuto con lui nel marzo scorso, quando mia moglie ed io andammo a
trovarlo nella clinica romana in cui era allora ricoverato. Questo
colloquio non fu in fondo che la ripresa e la continuazione di un
discorso che avevamo più volte affrontato nelle nostre
conversazioni, ma il fatto che ora i visitatori sapessero — e forse
egli intuisse — che la morte era per lui prossima, gli conferì una
pregnanza sia intellettuale che emotiva tale da spingermi più tardi
a fissarlo in qualche appunto. Mi rincresce soltanto di non poter
riprodurre la parola, insieme così colorita e così concettualmente
precisa, di De Martino, e di dover tradurre il suo linguaggio nel
mio, sbiadito e approssimativo.
Nonostante la malattia,
De Martino era — come del resto, si può ben dire, fino alla morte,
quando non era preso da veri e propri attacchi del male —
perfettamente lucido e «in forma», in possesso di tutta la gamma
delle sue qualità intellettuali, retoriche, espressive e mimiche.
Dopo aver parlato del più e del meno ed essere stati interrotti da
un prete che veniva ad offrire ai malati il suo conforto spirituale e
che fu cortesemente, ma fermamente respinto (non senza vigorosi
commenti demartiniani, dopo l’episodio, su questa abitudine della
clinica di spedire un prete dai malati senza informarsi in precedenza
se essi gradissero o meno la sua visita), Vittoria, l’impareggiabile
compagna di De Martino, si assentò per sbrigare qualche faccenda e
noi tre restammo soli. Si toccò dapprima un tema quasi obbligato di
conversazione: Lévi-Strauss. De Martino aveva alta stima dello
studioso, ma non condivideva la metodologia e le prospettive dello
strutturalismo e soprattutto deprecava che esso fosse diventato una
moda da cui non ci si poteva più salvare. Mia moglie ed io avevamo
appena letto l’introduzione di Lévi-Strauss agli scritti di Marcel
Mauss, che ci era parsa estremamente significativa per gli aspetti
irrazionalistici del pensiero dell’autore, ed esprimemmo la nostra
meraviglia nel vedere che questi aspetti così evidenti erano
generalmente trascurati. De Martino ci diede ragione, ma questa volta
non insistette sull’argomento e troncò con un brutale: «Bisogna
distruggerlo», una di quelle frasi che talvolta uscivano dai suoi
precordi di napoletano che si rifiutava di ascoltar ragione. Passò
invece ad altro argomento: « Oltre a Lévi-Strauss, un’altra
questione che mi interessa in questo momento è il cosiddetto dialogo
tra marxisti e cattolici». Gli dissi che avevo visto sul suo
comodino una delle numerose pubblicazioni in proposito. «Già, mi
son letto questo libro e anche altri, ma mi sembra che per lo più si
tratti di discorsi campati per aria. Manca finora l’intervento
dello storico delle religioni, che qui può dire una parola decisiva.
Poiché tutti costoro mettono a confronto marxismo e cristianesimo
come se fossero lì da sempre. Invece si tratta di vedere che cos’era
una volta la religione e che cosa può ancora essere, che funzione
può svolgere adesso. Senza questa ricerca preliminare non si può
impostare adeguatamente il problema. Direi che, in questi che se ne
sono occupati, manca lo spirito galileiano, cioè essi partono dalle
dottrine e dalla loro maggiore o minore conciliabilità anziché
chiedersi che cosa significhi in concreto l’esperienza religiosa
per chi la vive all’interno della nostra civiltà occidentale.
Questa civiltà si fonda su una scelta di cui possiamo ritrovare
chiara consapevolezza pressapoco all’epoca di Cartesio. Quando
Cartesio respinge il mondo del sogno e fonda la certezza del proprio
io sulla ragione, sulle idee chiare e distinte, è tutta una società
che con lui sceglie questa via. Da questo momento la religione cessa
di essere l’orizzonte necessario per reintegrare in ogni istante
l’uomo nel mondo, per superare la crisi della sua presenza al
mondo. Cessa quindi di avere una funzione operativa come elemento
determinante della civiltà ».
«Si può dunque dire —
chiesi — che in un certo senso, finché la religione aveva questa
funzione operativa, gli dei esistevano?». «Sì, — rispose De
Martino — almeno nel solo senso che la parola esistere può avere
agli occhi della scienza. Poiché la religione era tutto, era essa a
tenere insieme la società che altrimenti si sarebbe disgregata. Ora
mi sembra che di questa funzione che la religione ha esercitato nella
storia il marxismo non abbia chiara coscienza, e in fondo non ne
avesse neanche Marx stesso. È vero che da qualche parte allude per
esempio alle concezioni apocalittiche, ma aggiunge che del
significato di queste concezioni può occuparsi chi ne abbia voglia,
come si si trattasse di questioni puramente erudite. Certo la
mancanza di questa consapevolezza non è imputabile a una deficienza
di Marx: era lo stato della scienza del tempo che non gli permetteva
di scorgere questa funzione della religione ».
A questo punto feci delle
obiezioni: mi sembrava che già il pensiero tedesco da cui Marx
proveniva si differenziasse dall’illuminismo francese proprio
perché aveva coscienza della funzione storica della religione e non
la considerava come pura menzogna e finzione, come remora e non come
elemento fondatore di civiltà. Sia Hegel che Feuerbach, in modi
diversi e opposti, condividono in sostanza questo atteggiamento. De
Martino ammise che questo poteva valere in qualche misura per Hegel,
data l’impostazione generale del suo pensiero, ma lo contestò per
Feuerbach. Tornai alla carica risalendo all’indietro e citando
Lessing e l’Educazione del genere umano.
De Martino replicò:«Già,
Lessing, ma anche in Lessing si tratta pur sempre dell’idea
pedagogica per cui la religione, o un certo tipo di religione, è la
forma fantastica di una verità non ancora giunta a chiarezza. C’è
sotto il paragone del bambino in cui è viva la forza
dell’immaginazione e che si rappresenta in veste fantastica ciò
che, spogliato di questa veste, sarà la sua verità di adulto.
Quello che afferma la moderna scienza delle religioni è un’altra
cosa: è l’idea che c’è un tipo di civiltà, in sé autonoma e
autosufficiente, che è fondata sulla religione come elemento di
reintegrazione culturale dell’individuo nella società (tipo di
civiltà che continua oggi nelle società primitive), mentre la
civiltà occidentale ha optato per un altro modo di reintegrazione
culturale e cioè per il dominio razionale della natura. Non si
tratta quindi di bambino e di adulto, ma, per così dire, di due
diverse forme di essere adulto, una delle quali è la nostra. E certo
questa scelta che abbiamo fallo è irrevocabile, e dobbiamo
accettarla, ma ciò non significa che la religione non possa
nuovamente riapparire all’orizzonte non più come assise della
società, ma come possibilità di reintegrazione al limite, là dove
la società dissacrata non riesce più a coprire la crisi della
presenza. Poiché anche in una società fondata interamente sulla
ragione, anche nella società socialista, la crisi, il dramma,
continueranno a sussistere, e guai se non fosse così perché
altrimenti questa società sarebbe spaventosamente noiosa. Ora anche
questo in Marx non è esplicitamente previsto, nemmeno nel giovane
Marx ».
Con questo De Martino
stava approdando a un discorso già noto a chiunque lo conoscesse, e
cioè a quello della necessità di un simbolismo laico. Glielo dissi,
ed egli confermò: «Certo, è un mio leit-motiv, perché secondo me
l’integrazione e la reintegrazione dell’uomo nella società non
cessano di essere problematiche e continuano quindi a postulare una
soluzione simbolica. Sai che io penso appunto che nascita,
matrimonio, morte abbiano bisogno di essere adeguatamente
solennizzati anche in una società socialista, e provo orrore
all’idea che tutto si riduca a un atto burocratico di fronte a uno
sportello. Ed è qui che l’insoddisfazione per la razionalizzazione
dei rapporti riapre la via alla tentazione religiosa. Prendi la
morte, la crisi ultima e definitiva della presenza dell’individuo.
Come puoi eliminarne il carattere drammatico? Sì, certo, anche qui
il limite si può spostare, forse verrà il giorno in cui, quando il
tuo cuore si sarà stancato di battere, lo potrai spedire, che so io,
da Einaudi, dove provvederanno a ricaricartelo perché tu ritrovi la
tua efficienza. Ma il limite lo potrai spostare, non abolire. E,
capisci, se uno ha il cancro e sa che deve morire, beh, allora ha un
bel sapere che Dio non c’è, la tentazione è grande... E questo,
caro mio, in Marx non ci sta scritto ».
De Martino aveva
pronunciato queste ultime parole con quel lampeggiamento degli occhi
e quella breve mimica (lo spostamento laterale delle mani con le dita
aperte e distese) con cui sottolineava abitualmente un momento
importante del suo discorso. L’esempio si era offerto naturalmente
e nulla poteva far pensare che egli si riferisse a se stesso, anche
se questa possibilità non è del tutto da escludere (naturalmente
solo per quanto riguarda la consapevolezza della morte imminente, non
per la tentazione religiosa). Egli era stato tenuto all’oscuro
sulle sue vere condizioni, note ai familiari e agli amici, ma è
probabile (altri indizi stanno a confermarlo) che almeno con una
parte di se stesso egli oscuramente le intuisse. Sicché l’esempio
dell’uomo che muore di cancro, gettato lì né più né meno come
una qualsiasi di quelle esemplificazioni concrete di cui il discorso
di De Martino era sempre assai ricco, suscitò una comprensibile
commozione in me e in mia moglie.
Per superare il
turbamento mi affrettai a ricondurre subito la conversazione a temi
di carattere generale. Dissi a De Martino che questa sua correzione
al marxismo mi ricordava le posizioni di un mio amico, illustre
studioso del Leopardi, che vuole integrare Marx con il suo poeta
prediletto, in quanto sostiene che il comunismo non può eliminare le
limitazioni naturali dell'uomo, la malattia, la morte ecc., di fronte
alle quali il pessimismo leopardiano resta un’istanza valida.
Aggiunsi che ero sempre in polemica con questo mio amico non già
perché negassi l'esistenza del male naturale, ma perché mi pareva
in qualche modo secondario rispetto al male di origine storica, più
che mai in questo momento in cui il progresso tecnologico ha posto in
mano all’uomo i mezzi per la propria totale estinzione.
Toccavo così un punto
che avevamo già discusso con De Martino e su cui sussistevano tra di
noi elementi di dissenso. Negli ultimi anni egli si era intensamente
occupato del tema della fine del mondo e dei rapporti tra apocalissi
culturali e apocalissi psicopatologiche, su cui stava preparando in
collaborazione con Giovanni Jervis un libro rimasto purtroppo
incompiuto (l’ultimo scritto pubblicato da De Martino — nel n.
69-71 di « Nuovi Argomenti » — e intitolato appunto Apocalissi
culturali e apocalissi psicopatologiche, svolge alcuni temi
centrali di questo libro). Mi aveva spesso parlato del suo lavoro
specie in relazione alla documentazione letteraria che egli stava
raccogliendo e per cui gli avevo fornito qualche indicazione. Si era
letto, con lo zelo e la passione che metteva in ogni sua impresa, un
mucchio di testi, da Proust a Sartre, da Hofmannstahl a Kafka, dagli
espressionisti a Beckett, subito inquadrandoli perfettamente nella
sua problematica. Ma in complesso questa letteratura non gli andava a
genio. Le sue concezioni — che anche qui facevano tutt’uno con il
suo temperamento — lo portavano a una valutazione negativa di tutto
ciò che metteva in dubbio l’«appaesamento» (per usare un termine
che ricorre spesso negli ultimi scritti) dell’uomo nel mondo.
Perciò considerava tutta la letteratura «apocalittica» che
scrupolosamente si sorbiva solo come la testimonianza di una crisi
dei valori, giungendo per diverse vie a un giudizio analogo a quello
di Lukàcs. Io gli facevo osservare che non era ormai più possibile
considerare questa crisi come un puro fenomeno culturale
corrispondente all’involuzione di una classe sociale, poiché
l’esistenza della bomba atomica trasformava in possibilità reale e
concreta quell’apocalissi che finora indubbiamente rappresentava
soltanto la proiezione del dissestamento delle strutture culturali di
una civiltà. Ciò conferiva una certa legittimità oggettiva alla
letteratura in questione e limitava la sua analogia con le apocalissi
psicopatologiche individuali. Ma egli si rifiutava di vedere una
differenza qualitativa tra apocalissi reale e totale e apocalissi
culturale parziale. «La fine del mondo — mi disse una volta —
c’è sempre stata. Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o
gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani
piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi
possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cosa è la fine
del mondo se non sempre la fine del proprio mondo?». Era questo il
punto su cui non c’intendevamo, poiché io non riuscivo a mettere
sullo stesso piano la fine di un mondo culturale, al di là della
quale si aprono comunque nuove prospettive, e la fine del mondo umano
in generale. Nel saggio di «Nuovi Argomenti» De Martino ribadì
esplicitamente la sua posizione scrivendo che «rispetto alla
dissipazione... dell’ethos del trascendimento valorizzante della
vita impallidisce per importanza la stessa atroce prospettiva della
catastrofe fattuale del mondo umano per un possibile conflitto
termonucleare». «Infatti — concludeva il saggio — se la
catastrofe fattuale del mondo umano dovesse prodursi — magari
’’casualmente” o ’’per equivoco” — attraverso un gesto
tecnico della mano dell’uomo, ciò significherebbe che il mondo era
segretamente finito già molto tempo prima e che già poteva capitare
qualsiasi cosa, per esempio l’avventura di Gregorio Samsa che una
mattina, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto
mostruoso: e che già poteva capitare qualsiasi cosa non più nel
distacco di un racconto, ma proprio nella realtà, diventata essa
stessa allucinatoria e distruttiva». Che per De Martino l’essenziale
continuasse ad essere la disposizione etica dell’uomo, la sua
capacità di trascendere la crisi nel valore, risulta anche da ciò
che ebbe a dirmi un’altra volta, e cioè che in una catastrofe
cosmica era per lui pur sempre decisivo il «gesto di non
accettazione» che l’uomo le avesse opposto nel perire, confermando
la sua fedeltà ultima al mondo culturale cui apparteneva.
Portando il discorso su
questo tema potevo quindi aspettarmi che esso sarebbe rimbalzato
indietro. Infatti, quando gli dissi che più che le limitazioni
naturali dell’uomo mi importava la possibilità che l’uomo
uscisse definitivamente dalla scena della natura, De Martino replicò
subito: «Ma, caro mio, dalla natura l’uomo rientra e riesce ogni
momento, per questo non c’è bisogno della bomba atomica. E anche
il comunismo non può sopprimere questa tensione, questo dramma, qui
il dominio integrale della natura urta contro limiti invalicabili».
Con ciò si ritornava alla questione della morte individuale, da cui
avevo cercato di evadere accennando alla morte collettiva. Questa
volta non mi restava che affrontarla. Mi ricordai allora di una
discussione che avevo avuta di recente con un comune amico che
sosteneva l’opportunità di dire a De Martino che era condannato,
poiché un uomo della sua statura intellettuale dovrebbe accettare la
propria morte nella consapevolezza della sopravvivenza della specie.
In questo mi sentivo più demartiniano del mio amico, la «crisi
della presenza» mi sembrava qualcosa che non si può superare in
modo puramente razionale, meno che mai da parte di un uomo che non
per nulla l’aveva posta al centro del proprio pensiero. Ero quindi
dell’avviso che fosse giusto nascondergli la verità. Ma dissentivo
da De Martino nel senso che valutavo più ottimisticamente le
possibilità di risoluzione della crisi della presenza nell’ambito
del comunismo. Perciò ribattei : «Sì, questo è vero, ma solo fino
a un certo punto. Mi sembra che in Marx ci sia la prospettiva di un
rivolgimento importante anche nel dramma che tu descrivi. Poiché il
comunismo non significa soltanto il dominio assoluto della natura, ma
anche la realizzazione dell’uomo come essere generico, la
riconciliazione dell’individuo con la specie. Certo tu hai ragione,
la fine di un individuo che avrebbe ancora molto da dire e da fare è
una ingiustizia irreparabile che ci rifiutiamo di accettare. Per
questo, per esempio, un uomo come Goethe così attaccato al mondano,
e proprio perchè attaccato al mondano, nel colloquio con Falk ai
funerali di Wieland postula una specie di immortalità individuale
poiché gli sembra impossibile che la monade uomo debba cessare di
svilupparsi con la morte. Cioè anche a Goethe non bastava il rimando
alla continuità della specie per giustificare la fine
dell’individuo, soprattutto del grande individuo. Ma nella società
senza classi, ogni individuo realizzando immediatamente la specie, la
consapevolezza che il proprio lavoro, il significato della propria
esistenza, viene proseguito nella sopravvivenza dell’uomo come
specie, dovrebbe assumere ben altra intensità, e quindi anche la
morte dovrebbe perdere gran parte della sua drammaticità. Certo,
finché questo stadio non sarà raggiunto, il rimando alla specie
resterà una fredda operazione intellettuale, una magra consolazione,
ma ripeto che nel futuro, contrariamente a quanto pensi, anche qui si
dovrebbe realizzare una svolta ».
De Martino ripeté: «Già,
l’individuo, la specie...». Ma in quel momento rientrò Vittoria,
un po’ preoccupata perché il colloquio era stato molto lungo e De
Martino non doveva affaticarsi troppo. Ci congedammo in fretta. Non
so che cosa De Martino avrebbe replicato, ma se questa brusca fine
del colloquio aveva lasciato formalmente a me l’ultima parola, in
realtà era lui il vincitore morale, poiché quel mio rimando a ere
future, e chissà quanto probabili, non aveva fatto altro che
ribadire indirettamente la consapevolezza del dramma attuale: del
dramma dell’amico che stava per morire nel pieno delle sue forze e
al culmine della sua attività, e del dramma di noi, che restavamo
orbati di una così vigorosa e feconda presenza.
“Quaderni Piacentini”
n. 23-24, maggio-agosto 1965
Nessun commento:
Posta un commento