Ho intervistato alcuni
mesi fa Alessandro Natta e abbiamo parlato a un certo punto di
Giovanni Gentile. L'attuale segretario del Pci ebbe occasione di
conoscerlo da vicino frequentando la Scuola Normale di Pisa, di cui
il filosofo era direttore. Nei tardi anni Trenta, quella Scuola era
un covo di antifascisti. E Gentile com'era?, ho chiesto al segretario
del Pci. "Un corruttore", è stata la risposta. E poi,
freddamente: "Ho sempre ritenuto che Gentile dovesse finire
com'è finito".
Come sia finito Giovanni
Gentile è noto. Il 5 aprile del 1944, a Firenze, tre giovani gli
spararono attraverso il finestrino della sua macchina. Il filosofo
morì subito. Venti giorni più tardi, sull'“Unità”e poi su
“Rinascita”, Togliatti in persona attribuì al proprio partito la
soppressione di Gentile, "traditore volgarissimo", "bandito
politico", "filosofo bestione", "canaglia".
Sono passati quarant'anni e oggi Natta non trova molto da cambiare in
quel necrologio. Per la sinistra - almeno per quella rappresentata
dal Pci - la glaciale ferocia adoperata a suo tempo per chiudere il
"caso Gentile" non contempla pentimenti.
Siamo partiti dal fondo
della storia, ma ad autorizzarci è proprio il libro di cui vogliamo
parlare. Ne è autore un diplomatico, Sergio Romano, attualmente
ambasciatore italiano presso la Nato a Bruxelles. S'intitola Giovanni
Gentile, la filosofia al potere (Bompiani, pagg. 352, lire
22.000). Fin dalle prime righe, quest'opera sospinge il lettore verso
il finale di cui s'è detto. E non è soltanto perché ci si trova di
fronte a un romanzo di cui, per così dire, s'è già letta l' ultima
pagina. E non è neppure - o non è soltanto - una scelta stilistica
dell'autore, un suo criterio espositivo. È che la vita di Gentile
contiene in sé qualcosa di teatrale, di ostinato, di provocatorio,
che sembra preannunciarne l'epilogo.
Il racconto che Romano ne
fa è accurato, pieno di finezze e di "distinguo"
psicologici, teso ad esporre le tesi filosofiche, anche le più
aggrovigliate e controverse, con chiarezza discorsiva (e si capisce
come mai lo stesso Romano abbia pubblicato l'altr'anno, con Vanni
Scheiwiller, una plaquette contenente cinque brevi saggi su
temi linguistici, intitolata appunto La lingua e il tempo). Su
alcuni aspetti della vicenda gentiliana, come la lunga amicizia del
filosofo con Benedetto Croce e la rottura fra i due, non si potrebbe
desiderare un quadro più esauriente. Esso si estende lungo quei
vent'anni, e più, nel corso dei quali l'Italia sembrò avviarsi a
diventare "il paese dei filosofi", ma va anche oltre,
perché i rapporti fra i due fondatori della “Critica”
continueranno, nella polemica, a influenzare la cultura del
Novecento.
Di quella prima metà del
secolo, Gentile fu protagonista con un'intensità che di rado un
filosofo raggiunge. Le molte forme che può assumere il rapporto fra
cultura e potere vennero da lui esplorate con tenacia quasi mistica.
Siciliano (era nato a Castelvetrano, in provincia di Trapani, nel
1875, nove anni dopo Croce), sembra confermare l' immagine più
consueta che si suole assegnare ai suoi conterranei. Energico,
volitivo, aggressivo, incline al settarismo, aspro con gli avversari,
esigente e fazioso nelle amicizie, egli contemplava accanto a tante
durezze aspetti fin troppo "morbidi", di inguaribile
ascendenza provinciale e meridionale. La sua docilità di fronte alla
"cerchia ristretta e prepotente degli affetti familiari",
la sua ossessiva ricerca di consorterie solidali nella selva della
diplomazia universitaria, la sospettosità, l'aspro vittimismo, il
moralismo a senso unico ci richiamano a quella contraddizione fra
comportamenti pubblici e privati, fra enunciazioni etiche e azioni
pratiche che appartiene a un costume perenne.
Che tutto ciò venisse
ampiamente bilanciato, in Gentile, da insolite doti d'ingegno è
pacifico. Armato d'un simile carattere, Gentile si lanciò molto
presto - e in realtà fin dagli esordi - nel fare politica, cioè
politica della cultura, che per lui significava pedagogia nel senso
più ampio e "vorace" del termine. Cioè, da un lato,
attenzione tecnica alla scuola in tutte le forme, e dall'altro
ricerca e sfruttamento di tutti gli strumenti adatti a diffondere il
suo magistero filosofico: ciò che egli, in sostanza, considerava la
Filosofia con la maiuscola, e poi finì sempre più per cercare (o
sognare) d'imporre come dogma di partito.
Il viaggio del filosofo
dell'"idealismo attuale" attraverso quarant'anni di vita
italiana fu tanto esemplare da farne un eroe del nostro tempo, specie
di quella parte saliente del nostro tempo che furono il fascismo, i
suoi slogan politico-ideologici, le sue avventure imperiali, le sue
tragedie militari e civili. Sempre presente, Gentile, in quei
vent'anni. Sempre coinvolto, pur fra gli alti e bassi della sua
fortuna e della sua influenza. Sempre vestito e parlante da Filosofo.
La sua guerra di conquista del potere culturale - dal ministero della
Pubblica Istruzione all'Enciclopedia italiana, dall'Istituto
Fascista di cultura alla Scuola Normale, dalle case editrici alle
riviste - cominciò presto a differenziarsi, come qualità,
intenzione, metodi, da quella lunga attività tesa alla "rinascita
dell'Idealismo" che lui stesso aveva svolto gomito a gomito con
Croce. Da non esperto di filosofia posso sbagliarmi; penso tuttavia
che la contesa fra i due, Croce e Gentile, apparirebbe oggi
incomprensibile, o perfino pretestuosa, se fosse rimasta ferma ai
suoi dati iniziali: il superiore scetticismo col quale il pensatore
siciliano prese a considerare la "mania" di Croce per la
dialettica dei distinti o le accuse di "misticismo" che
Croce, in risposta, cominciò a muovere allo Stato etico nella
versione gentiliana. Certo, erano già presenti, in questo dibattito,
i sintomi di due discordanti visioni del mondo. Ma solo la storia
politica del nostro paese si sarebbe incaricata di rendere esemplare
e largamente accessibile quel litigio filosofico. Fu il fascismo a
fare da barricata tra i due.
Da una parte c' era un
liberale all' antica, Croce, che verso il regime littorio aveva avuto
qualche iniziale propensione dovuta a illusione, o leggerezza, o
indulgenza; ma poi se n'era ritratto, rappresentando alla fine un
punto di riferimento ideale per gli oppositori democratici (anche per
tanti di coloro che nel vecchio mondo liberale non potevano più
riconoscersi appieno). Dall'altra parte c'era Gentile, un fascista
vero, spinto a quella scelta di parte dalla stessa coerenza con i
propri princìpi, che ne facevano uno Statolatra inflessibile (almeno
in teoria), un apostolo dell'identità fra Stato e individuo, un
difensore della libertà solo in quanto "il massimo della
libertà coincida col massimo della forza dello Stato": e si
tratta - è chiaro - di un sofisma mistificante ad uso di tutte le
dittature. Questa visione "totale" dell'esistenza era
fascismo in atto, anzi un superfascismo inapplicabile alla lettera, a
causa del suo stesso rigore. Basta, per capirlo, leggere le pagine
che Romano dedica al processo di parziale sgretolamento cui i
governanti fascisti sottoposero la riforma scolastica di Gentile:
troppo elitaria, umanistica e sospetta di "classismo",
certo, più di quanto potesse permettersi un regime reazionario sì,
ma "di massa". Il peccato di Gentile non consistè dunque
nell'incoerenza di un liberale che diventa fascista: liberale, in
verità, non era mai stato. Si trattò invece di un lucido eccesso di
coerenza ideologica da parte di un filosofo che trovò la forma
statuale, storica, nella quale incarnare le proprie teorie. Certe
frasi encomiastiche da lui rivolte all'"Uomo che a palazzo Chigi
(lì Mussolini esordì, prima di trasferirsi a palazzo Venezia)
lavora giorno e notte nel travaglio di una passione fiammeggiante per
la grandezza della Patria, i grandi occhi intenti rivolti su voi, su
tutti gli italiani" non odorano perciò di vaudeville,
come quando le recita un gazzettiere di regime. Sono invece indice di
una tragedia vera, adeguata all'altissimo ingegno di chi le
pronunzia. E così la retorica esaltazione - cui Gentile si abbandonò
un mese prima di morire - per Hitler, "Condottiero della Grande
Germania".
Questi severi imperativi
dell'ideologia presentavano anche qualche smagliatura, com'era tipico
del carattere di Gentile, sempre oscillante fra secche enunciazioni
teoriche e comportamenti a volte accomodanti. Su queste sue
"benemerenze" insiste forse un po' troppo il diplomatico
Romano. È vero, ad esempio, che l'Enciclopedia Treccani da lui
diretta non fu nè una falange di "sciarpe littorie" per la
gente chiamata a redigerla, né un catechismo fascista per le cose
che ci sono scritte; tutt'altro. Ma è anche vero che negli
"imperialisti della cultura" del rango di un Gentile
l'inclinazione al compromesso è sempre presente. Fa parte del
programma.
Ci sono infine i suoi
allievi. Gentile ne ebbe tanti. "Avvinceva i discepoli con la
sua calda umanità", dichiara Alessandro Galante Garrone (un
testimone non sospettabile di indulgenze), nel suo libro I miei
maggiori; e ricorda che perfino Gobetti, in un empito di
ingenuità che commuove se si pensa alla sua fine, parlò una volta
di Gentile come di un "maestro di moralità". Alla
fidanzata dello storico Adolfo Omodeo, Eva Zona, Gentile apparve come
un "mite professore dalla gigantesca persona", quasi un
patriarcale dispensatore di scienza. E così tanti altri ne subirono
il fascino: da Ernesto Codignola a Giuseppe Lombardo Radice, da
Ranuccio Bianchi Bandinelli a Guido De Ruggiero, da Aldo Capitini a
Guido Calogero e allo stesso Omodeo. Più d'uno, fra loro, si
avvicinò, a metà strada o alla fine, a Croce; quasi tutti, con
diverse sfumature, passarono all'antifascismo attivo. Si può pensare
che sia stato merito, se non dell'esempio di Gentile, almeno del suo
insegnamento? È un azzardo troppo generoso. In un commosso articolo
che Tristano Codignola scrisse poco dopo la morte del filosofo, fra
tanti grati riconoscimenti per i suoi meriti giovanili si afferma
tuttavia che egli "ebbe una parte preponderante nel mercimonio e
nella corruttela delle coscienze d'intere generazioni di giovani".
E questo - con tutto il postumo rispetto, l'umana pietà e anche l'orrore che suscita la sua fine - resta, per Giovanni Gentile, un
equo epitaffio.
“la Repubblica”, 16
novembre 1984
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