Sara Simeoni esprime così dolce
malinconia che io la recepisco in una sorta di intima gratitudine,
come di fronte a un lago sereno. Solo gli spiriti banali si trovano a
disagio sui laghi. A me capita di sentir strisciare fuori dall'anima
tutte le immonde bisce che vi si trovano: e per una sorta di
inesplicabile sollievo mi par anche di essere migliore. Questo mi
accade quasi sempre a Lezzeno, sul Lago di Como, verso Bellagio: le
sue acque profonde hanno sicuramente potere radioattivo. Bondino
Posca vi matura a modo il suo buon vino pavese e aspetta paziente la
Pasqua per cogliere i fichi (ma de bon). Sara Simeoni mi riporta
giusto a Lezzeno. La successione di idee e di immagini è forse
strana, però, mi sembra, non banale. Quando Sara si avvita nel suo
Fosbury e salta i due metri alla prima, io penso a un prodigio di
quelli cari al comasco Plinio il Vecchio, che teneva la barca a
Rimini per tornare quando più gli garbasse al suo lago. Plinio
comandava la flotta del Tirreno ma dal mare fuggiva appena possibile
(presentiva forse la morte sulla spiaggia di Ercolano). Quando invece
Sara abbraccia la Ulrike Meyfarth, che è tornata a volare sui 2,02,
non mi consente divagazioni di sorta. E' propriamente una regina mai
nata, una creatura che De Gobineau avrebbe solo potuto immaginare per
le sue "Pleiadi" e Ulrike è dello stesso rango. Sedicenne,
è stata per tutti una magica apparizione a Monaco di Baviera. Poi si
era perduta. La Sara le ha preso le misure prima e infine anche il
record mondiale. Ora l'Ulrike conquista la sua seconda medaglia
d'oro; e la Sara, campionessa di stile e di durata, può giusto
abbracciarla senza invidia: argento a Montreal, oro a Mosca, argento
a Los Angeles. Quattro Olimpiadi celebrate contro le stesse leggi di
natura. Trentadue anni sofferti in continua esaltazione, però cheta,
mai bruttata dall'enfasi. Mi pare giusto sia stata proprio lei a
portare la nostra bandiera il giorno dell' inaugurazione. Quella
volta ho interpretato la sua dolce malinconia come un'anticipata
condanna a vivere di ricordi. Macché! Sara sentiva ben altro. Nei
suoi dolci occhi neri era il presagio di un volo bello ma inutile ai
fini della vittoria.
Adesso non so che cosa intenda fare
Sara. Probabilmente diventerà moglie legittima del suo bravissimo
allenatore Erminio Azzaro (o forse è già sua sposa in segreto?);
probabilmente penserà al lavoro che l'attende (è professoressa di
educazione fisica). A lei debbo ripetere quanto mi è già accaduto
di dire a Pietro Paolo Mennea: se vuol restare fra noi e l'idea la
diverte, anche noi ne saremo divertiti. Se invece vuole andarsene, di
lei rimarrà il ricordo che si merita un'insigne atleta, una brava e
onesta donna che emana dolce malinconia come sogliono i laghi sereni.
Vedo in semifinale Salvatore Todisco
dopo Maurizio Stecca, al quale Falcinelli raccomandava di "schivare"
l'avversario, cioè di non imbarcarsi in giochi solo pericolosi, non
più necessari a fare punti. Salvatore Todisco fa esattamente il
contrario di quanto consigliava Falcinelli. Ha di fronte Keit Mwila,
negretto dello Zambia, alto, esile, mancino. Detesto i mancini, alla
cui razza dannata appartengo per mero sfizio di cromosomi. Nella
boxe, poi, sono insopportabili. Per loro si dovrebbe modificare il
gergo: dire primo e secondo pugno, non sinistro e destro, perché nei
"guardia-falsa" il primo pugno è il destro e il secondo è
il sinistro. Per questo incontro, deploro ancora una volta l'adozione
della maschera, che mi impedisce di cogliere l'espressione dei
pugili, le smorfie, le strizzate di palpebre sugli occhi atterriti o
spavaldi. Todisco deve entrare nella guardia avversaria e correre dei
rischi necessari: vibra colpacci assassini con i due pugni. In certo
modo, accetta la rissa dopo avermi riempito di gaia meraviglia. Mini
mosca per giunta piccolo e atticciato, Todisco impone una boxe al
massacro: e infatti il negro viene contato. Si capisce pure che
Todisco si è contuso la mano destra, ma seguita a picchiare come un'
anima attraversata dai diavoli. "Sta zitto!" gli impone
Falcinelli mentre lo va asciugando e ventilando nell' angolo. Todisco
vorrebbe spiegare perché ha accettato la rissa. Non ne ha bisogno.
La terza ripresa addirittura mi indigna. Todisco smentisce nel modo
più irritante la sua napoletanidad. Non ha proprio niente di astuto.
Anzi, per me c'è il nome in capo: Todesch e anche nell'anima: dà
luogo al più bello e avvincente incontro del torneo, ma il mio tifo
farebbe volentieri a meno di ogni emozione: al mio tifo interessato
basterebbe che Todisco fosse un po' più napoletano, per una volta, e
non corresse rischi gratuiti. Può darsi mai un napoletano che non
sia furbo come un volpacchiotto? Eccone qui uno, buona madonna, però
è on todesch, e si accula (non viene contato, per fortuna) e si
ostina a picchiare quando potrebbe tranquillamente girare in attesa
del gong: i suoi punti di vantaggio sono molti: perché si butta
ancora all'arrembaggio, perché barcolla sotto i pugni squassanti del
mancino Mwila? Stupido regazzino, grido, stupido regazzino! È notte
fonda. Chissà che penseranno i miei vicini. Adesso apprendo che la
mano destra del finto napoletano Todisco si è fratturata e quasi ne
provo sollievo. Ero sicuro che avrebbe vinto l'oro in finale, ma
pensando alle giurie di cui si adorna questo ring avventurato
preferisco se ne vada a casa con il suo bravo argento senza pigliarsi
altre botte. Il piccolo Todisco ha la stoffa per tagliarsi qualsiasi
divisa, non esclusa, se mi credete, quella mondiale. È un battant di
quelli che piacciono molto agli americani, sempre un po' sadici nell'
apprezzare l' eroismo degli altri. Gonzales, l' ex-dispari messicano,
vincerà l'oro per gli Usa ma dovrà renderne presto conto al nostro
orsacchiotto spaccone: per me, Todisco gliele suona solo attaccando
lite: e quello si ingegni pure di contrare, come tanto ama: Todisco,
a pugni alterni, lo demolisce.
Agnese Possamai ha il nome in capo. È
un donnino tosto del nord, sicuramente un po' matto. La vedo
scivolare a ritroso nei 3000 e più non penso a lei, che l' obiettivo
Tv trascura come ininfluente. La corsa è nei piedini protervamente
scalzi di Zola Budd, alla quale un padre ignorante ha affibbiato il
nome del suo autore preferito. La Decker vorrebbe passarla
all'interno e prende un ciampicone rovinoso, da piangerne tutta la
vita. In testa rimane Zola finchè le tocca la sorte di un tristo
personaggio zoliano, non dico proprio Nanà. La corsa deve scegliere
tra la Sly, dagli imponenti quarti di cavalla, e la speronata Puika,
avvezza alle tirate di collo orientali, quindi in grado di vincere
come vuole. Noto con qualche stupore che i discoboli hanno preso a
imitare i giavellottisti: quando hanno chiuso, inseguono l'attrezzo
buttando urla di liberazione e dispetto. Un olandese mi pare che
bestemmi addirittura: il suo disco se ne vola sfarfallando, neanche
gli facesse cippirimerlo. So che i pedatori di Bearzot buscheranno
anche dagli slavi e mi impongo di rimanere davanti al video come un
penso sgradevole. Poi, curioso!, aspetto di aver ragione sentendomi
un tantino in colpa. Noto che qualche azzurro gioca nella Jugoslavia
e non lo sa. Addosso ai transfughi il mio sentimento di colpa e vado
a letto. Piove, il mare è in burrasca. Ogni ondata rimbomba contro
la riva come un mostruoso sberleffo al mio sonno. Sopporterei, mi
dico, solo se avesse rivinto Sara Simeoni.
“la Repubblica”, 12 agosto 1984
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