18.1.17

Los Angeles 1984. Sara, Todisco e Possamai. Le cronache olimpiche di Gianni Brera

Sara Simeoni esprime così dolce malinconia che io la recepisco in una sorta di intima gratitudine, come di fronte a un lago sereno. Solo gli spiriti banali si trovano a disagio sui laghi. A me capita di sentir strisciare fuori dall'anima tutte le immonde bisce che vi si trovano: e per una sorta di inesplicabile sollievo mi par anche di essere migliore. Questo mi accade quasi sempre a Lezzeno, sul Lago di Como, verso Bellagio: le sue acque profonde hanno sicuramente potere radioattivo. Bondino Posca vi matura a modo il suo buon vino pavese e aspetta paziente la Pasqua per cogliere i fichi (ma de bon). Sara Simeoni mi riporta giusto a Lezzeno. La successione di idee e di immagini è forse strana, però, mi sembra, non banale. Quando Sara si avvita nel suo Fosbury e salta i due metri alla prima, io penso a un prodigio di quelli cari al comasco Plinio il Vecchio, che teneva la barca a Rimini per tornare quando più gli garbasse al suo lago. Plinio comandava la flotta del Tirreno ma dal mare fuggiva appena possibile (presentiva forse la morte sulla spiaggia di Ercolano). Quando invece Sara abbraccia la Ulrike Meyfarth, che è tornata a volare sui 2,02, non mi consente divagazioni di sorta. E' propriamente una regina mai nata, una creatura che De Gobineau avrebbe solo potuto immaginare per le sue "Pleiadi" e Ulrike è dello stesso rango. Sedicenne, è stata per tutti una magica apparizione a Monaco di Baviera. Poi si era perduta. La Sara le ha preso le misure prima e infine anche il record mondiale. Ora l'Ulrike conquista la sua seconda medaglia d'oro; e la Sara, campionessa di stile e di durata, può giusto abbracciarla senza invidia: argento a Montreal, oro a Mosca, argento a Los Angeles. Quattro Olimpiadi celebrate contro le stesse leggi di natura. Trentadue anni sofferti in continua esaltazione, però cheta, mai bruttata dall'enfasi. Mi pare giusto sia stata proprio lei a portare la nostra bandiera il giorno dell' inaugurazione. Quella volta ho interpretato la sua dolce malinconia come un'anticipata condanna a vivere di ricordi. Macché! Sara sentiva ben altro. Nei suoi dolci occhi neri era il presagio di un volo bello ma inutile ai fini della vittoria.
Adesso non so che cosa intenda fare Sara. Probabilmente diventerà moglie legittima del suo bravissimo allenatore Erminio Azzaro (o forse è già sua sposa in segreto?); probabilmente penserà al lavoro che l'attende (è professoressa di educazione fisica). A lei debbo ripetere quanto mi è già accaduto di dire a Pietro Paolo Mennea: se vuol restare fra noi e l'idea la diverte, anche noi ne saremo divertiti. Se invece vuole andarsene, di lei rimarrà il ricordo che si merita un'insigne atleta, una brava e onesta donna che emana dolce malinconia come sogliono i laghi sereni.
Vedo in semifinale Salvatore Todisco dopo Maurizio Stecca, al quale Falcinelli raccomandava di "schivare" l'avversario, cioè di non imbarcarsi in giochi solo pericolosi, non più necessari a fare punti. Salvatore Todisco fa esattamente il contrario di quanto consigliava Falcinelli. Ha di fronte Keit Mwila, negretto dello Zambia, alto, esile, mancino. Detesto i mancini, alla cui razza dannata appartengo per mero sfizio di cromosomi. Nella boxe, poi, sono insopportabili. Per loro si dovrebbe modificare il gergo: dire primo e secondo pugno, non sinistro e destro, perché nei "guardia-falsa" il primo pugno è il destro e il secondo è il sinistro. Per questo incontro, deploro ancora una volta l'adozione della maschera, che mi impedisce di cogliere l'espressione dei pugili, le smorfie, le strizzate di palpebre sugli occhi atterriti o spavaldi. Todisco deve entrare nella guardia avversaria e correre dei rischi necessari: vibra colpacci assassini con i due pugni. In certo modo, accetta la rissa dopo avermi riempito di gaia meraviglia. Mini mosca per giunta piccolo e atticciato, Todisco impone una boxe al massacro: e infatti il negro viene contato. Si capisce pure che Todisco si è contuso la mano destra, ma seguita a picchiare come un' anima attraversata dai diavoli. "Sta zitto!" gli impone Falcinelli mentre lo va asciugando e ventilando nell' angolo. Todisco vorrebbe spiegare perché ha accettato la rissa. Non ne ha bisogno. La terza ripresa addirittura mi indigna. Todisco smentisce nel modo più irritante la sua napoletanidad. Non ha proprio niente di astuto. Anzi, per me c'è il nome in capo: Todesch e anche nell'anima: dà luogo al più bello e avvincente incontro del torneo, ma il mio tifo farebbe volentieri a meno di ogni emozione: al mio tifo interessato basterebbe che Todisco fosse un po' più napoletano, per una volta, e non corresse rischi gratuiti. Può darsi mai un napoletano che non sia furbo come un volpacchiotto? Eccone qui uno, buona madonna, però è on todesch, e si accula (non viene contato, per fortuna) e si ostina a picchiare quando potrebbe tranquillamente girare in attesa del gong: i suoi punti di vantaggio sono molti: perché si butta ancora all'arrembaggio, perché barcolla sotto i pugni squassanti del mancino Mwila? Stupido regazzino, grido, stupido regazzino! È notte fonda. Chissà che penseranno i miei vicini. Adesso apprendo che la mano destra del finto napoletano Todisco si è fratturata e quasi ne provo sollievo. Ero sicuro che avrebbe vinto l'oro in finale, ma pensando alle giurie di cui si adorna questo ring avventurato preferisco se ne vada a casa con il suo bravo argento senza pigliarsi altre botte. Il piccolo Todisco ha la stoffa per tagliarsi qualsiasi divisa, non esclusa, se mi credete, quella mondiale. È un battant di quelli che piacciono molto agli americani, sempre un po' sadici nell' apprezzare l' eroismo degli altri. Gonzales, l' ex-dispari messicano, vincerà l'oro per gli Usa ma dovrà renderne presto conto al nostro orsacchiotto spaccone: per me, Todisco gliele suona solo attaccando lite: e quello si ingegni pure di contrare, come tanto ama: Todisco, a pugni alterni, lo demolisce.
Agnese Possamai ha il nome in capo. È un donnino tosto del nord, sicuramente un po' matto. La vedo scivolare a ritroso nei 3000 e più non penso a lei, che l' obiettivo Tv trascura come ininfluente. La corsa è nei piedini protervamente scalzi di Zola Budd, alla quale un padre ignorante ha affibbiato il nome del suo autore preferito. La Decker vorrebbe passarla all'interno e prende un ciampicone rovinoso, da piangerne tutta la vita. In testa rimane Zola finchè le tocca la sorte di un tristo personaggio zoliano, non dico proprio Nanà. La corsa deve scegliere tra la Sly, dagli imponenti quarti di cavalla, e la speronata Puika, avvezza alle tirate di collo orientali, quindi in grado di vincere come vuole. Noto con qualche stupore che i discoboli hanno preso a imitare i giavellottisti: quando hanno chiuso, inseguono l'attrezzo buttando urla di liberazione e dispetto. Un olandese mi pare che bestemmi addirittura: il suo disco se ne vola sfarfallando, neanche gli facesse cippirimerlo. So che i pedatori di Bearzot buscheranno anche dagli slavi e mi impongo di rimanere davanti al video come un penso sgradevole. Poi, curioso!, aspetto di aver ragione sentendomi un tantino in colpa. Noto che qualche azzurro gioca nella Jugoslavia e non lo sa. Addosso ai transfughi il mio sentimento di colpa e vado a letto. Piove, il mare è in burrasca. Ogni ondata rimbomba contro la riva come un mostruoso sberleffo al mio sonno. Sopporterei, mi dico, solo se avesse rivinto Sara Simeoni.


“la Repubblica”, 12 agosto 1984

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