Colpisce, a 150 anni
dall’Unità d’Italia, una proposta di legge che prevede per due
ore a settimana “la valorizzazione e l’insegnamento della storia,
della letteratura e della lingua siciliane nelle scuole di ogni
ordine e grado”. L’iniziativa di legge, dal sapore fortemente
leghista (anche se questa volta di carattere non nordista ma
sudista), è stata presa dal Movimento per le Autonomie della Sicilia
ed è stata approvata da un voto ‘bipartizan’ della commissione
Cultura del Parlamento regionale.
Può essere utile,
allora, valutare tale proposta commisurandone il significato
culturale e l’intento formativo alla modernità della concezione e
alla limpidezza dell’esposizione, che contrassegnano il “Saggio
sulla filosofia delle lingue” di Melchiorre Cesarotti (1785) e ne
fanno il frutto più maturo dell’illuminismo italiano in campo
linguistico. Una succinta illustrazione delle tesi che espone ed
argomenta l’autore permette di cogliere il significato
profondamente innovativo delle conseguenze che egli seppe trarre
dall’applicazione della sua riflessione sulle lingue alla lingua
italiana.
In primo luogo, Cesarotti
dà un forte risalto alla natura storica delle lingue, in virtù
della quale tutte nascono e derivano. In secondo luogo, criticando il
concetto di “purezza”, che era il cavallo di battaglia dei
conservatori e dei cruscanti, egli afferma che nessuna lingua è
pura, poiché tutte nascono dalla composizione di elementi diversi.
Vengono quindi formulate due tesi fra di loro strettamente congiunte:
tutte le lingue nascono (non da un disegno razionale ma) da una
combinazione casuale (ticogenesi linguistica che anticipa la
ticogenesi biologica di Darwin!) e nessuna lingua trae origine da
un’autorità. Attraverso il concetto di “uso” o consenso dei
parlanti Cesarotti riconosce il carattere sociale della lingua e si
preoccupa di contemperare tale carattere con l’autonomia degli
scrittori, laddove con questo termine si riferisce non solo alla
cerchia ristretta dei letterati ma alla più ampia comunità degli
scriventi. Dalla terza e quarta tesi egli trae inoltre il corollario
secondo cui nessuna lingua è perfetta, ma tutte possono migliorare.
La sesta tesi afferma che nessuna lingua è talmente ricca da non
dover aumentare il suo patrimonio con apporti esterni: essa mira
perciò a confutare il concetto autoreferenziale di “purezza”,
strenuamente difeso dall’Accademia della Crusca di Firenze e dai
suoi seguaci (i cosiddetti cruscanti). La settima tesi, che poggia
sull’osservazione dei continui cambiamenti della lingua, ne
ribadisce la natura storica. L’ottava e ultima tesi pone in luce la
varietà degli usi della lingua e, in particolare, la dimensione
della lingua parlata. Lo scrittore illuminista sottolinea nondimeno
la superiorità della lingua scritta, che offre maggiori possibilità
di riflessione, non dipende dal popolo ma neanche dal canone
codificato dalla Crusca e non può essere irrigidita nei paradigmi
pur prestigiosi del Trecento. D’altronde, Cesarotti non si sottrae
all’onere di una proposta e formula una norma alternativa al
purismo antiquario della Crusca, che può valere ancor oggi, per la
sua coerenza teorica e per la sua efficacia pragmatica, come una
fertile indicazione di politica linguistica: «La lingua scritta dee
aver per base l’uso, per consigliere l’esempio, e per direttrice
la ragione».
Circa i neologismi la
posizione di Cesarotti è aliena così dalle innovazioni arbitrarie
come dalle preclusioni aprioristiche: i termini nuovi hanno diritto
di cittadinanza nella lingua purché siano ricavati per analogia, per
derivazione o per composizione rispetto ai termini esistenti. Circa i
dialetti, infine, l’autore del Saggio sulla filosofia delle
lingue ammette, sì, che possono costituire un serbatoio a cui
attingere per introdurre parole nuove, ma è assai reciso
nell’affermare che essi occupano un posto subalterno rispetto alla
lingua nazionale: «Non v’è lingua senza dialetto, come non v’è
sostanza senza i suoi modi: né però la lingua cessa d’esser una;
altrimenti vi sarebbero tante lingue quante città». Assolutamente
esemplare è infine il fermo e fervido richiamo di Cesarotti ad
un’indagine capace di esplorare il campo in tutte le direzioni e
capace pertanto di essere, ad un tempo, ‘lucifera’ e
‘fructifera’: «Sicché cotesta gara di lingua, coteste
infatuazioni per le nostrali, o per le antiche, o per le straniere
sono pure vanità pedantesche. La filosofia paragona e profitta, il
pregiudizio esclude e vilipende».
2011
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