Johann Joseph Schmeller, Goethe all'età di 81 anni con il suo segretario |
Thomas Mann non sta nella
mia formazione. Dopo una infatuazione giovanile per La montagna
incantata - ereditavo dalla guerra un filo di tbc e lo rivestivo
delle piume di Naphta e Settembrini - Mann non ha più avuto un gran
posto nel mio cuore. Ma una sua opera, non delle più note, mi si è
annidata nella memoria, è Lotte in Weimar (in italiano non
Lotte ma Carlotta a Weimar perché non la si scambi con gli
scioperi di quella repubblica).Chi è Lotte? È l'amore del giovane
Werther, protagonista dell'opera di Goethe del 1774 e decisiva nello
Sturm und Drang. Era successo due anni prima a Goethe di infiammarsi
per una Charlotte Buff, fidanzata con un suo amico, Kestner, e di
esserne rifiutato per lealtà al promesso sposo. Goethe naturalmente
era sopravvissuto, mentre il suo Werther si spara per disperazione.
Per il poeta non è stato
né il primo né sarà l'ultimo innamoramento; già vedovo, a
settantaquattro anni, chiede (inutilmente) la mano di una
diciottenne. Ma in quello che sarebbe stato un idillio composto e
ragionato, oltre che trasparente nei luoghi e personaggi, tutta la
Germania s'era riconosciuta, gettando sul suo autore una gloria che
non lo avrebbe più lasciato. Poesia e realtà non sono la stessa
cosa.
Nel 1937 Thomas Mann, che
ha lasciato per sempre la Germania e non è ancora partito per gli
Stati Uniti, riflette senza indulgenza sul suo paese e sul poeta
nazionale. Sa che Lotte era andata a Weimar, dove Goethe viveva fra
splendori e onori, quarantaquattro anni dopo quell'amore giovanile;
lei era ormai sessantenne e vedova, madre di nove figli, e faceva
quel viaggio apparentemente per incontrare una sorella. Mann pensa
che sia andata diversamente, e il suo racconto comincia mentre una
elegante signora, anziana ma ancora snella e attraente - un tremito
del capo tradisce l'età - scende con la figlia, severa e
disapprovante, all'albergo dell'Elefante.
Lotte è così saggia da sorprendersi (o non tanto?) quando il maggiordomo dell'hotel, appena ne scorge la firma sul registro, riconosce in lei la fanciulla immortalata dal poeta, locale oltre che nazionale. Alla notizia, propagata fra maggiordomi e cameriste, una piccola folla si accalca davanti all'albergo. Lotte ha mandato un biglietto all'Eccellenza amico d'un tempo, diventato fin primo ministro del duca di Saxe-Weimar, ma si prepara a raggiungere la sorella, quando il maggiordomo la ferma perché riceva alcuni ospiti importanti: una giovane americana che freme di immortalarla nel suo album di disegni, l'ex segretario di Goethe, Riemer, la sorella di Arthur Schopenhauer e infine il figlio che Goethe ha avuto da una Cristiane Vulpius qualsiasi, la sola che ha sposato - messaggero dell'invito a colazione da parte del padre.
Lotte è così saggia da sorprendersi (o non tanto?) quando il maggiordomo dell'hotel, appena ne scorge la firma sul registro, riconosce in lei la fanciulla immortalata dal poeta, locale oltre che nazionale. Alla notizia, propagata fra maggiordomi e cameriste, una piccola folla si accalca davanti all'albergo. Lotte ha mandato un biglietto all'Eccellenza amico d'un tempo, diventato fin primo ministro del duca di Saxe-Weimar, ma si prepara a raggiungere la sorella, quando il maggiordomo la ferma perché riceva alcuni ospiti importanti: una giovane americana che freme di immortalarla nel suo album di disegni, l'ex segretario di Goethe, Riemer, la sorella di Arthur Schopenhauer e infine il figlio che Goethe ha avuto da una Cristiane Vulpius qualsiasi, la sola che ha sposato - messaggero dell'invito a colazione da parte del padre.
I colloqui con queste
persone, più un monologo di Goethe con se stesso, costituiscono i
pilastri del racconto, che staglia in crescendo, fra incensi e
veleni, il profilo del poeta. Il quale risplende a Weimar della luce
di un Nume, venerato e temuto. La più acerba nel descriverlo è la
sciocca Adele Schopenhauer, ma agli occhi della stupefatta Lotte
nessuno manca di dissodare il terreno del dubbio. L'ex segretario
Riemer, in un profluvio di devozione, avanza il dubbio che la qualità
più sublime del poeta, l'olimpico spirito di tolleranza, non si
debba che a un'olimpica indifferenza alle sorti altrui. Ascoltando,
Lotte è presa da un certo turbamento: non sarà presa anche lei da
ambigui sentimenti per quel suo adoratore di gioventù che l'ha
trascinata nella sua luce?
Adele Schopenhauer ha una
preghiera da farle: non vorrà l'onorevole signora, quando si
parleranno, indurre il grande uomo a dissuadere il figlio dallo
sposare la sua carissima amica Ottilia von Pogwisch? Ottilia è una
delle Muse weimariane, ardenti patriote antifrancesi e
antinapoleoniche, e potrebbe convolare a nozze soltanto con un
patriota tedesco molto più credibile di quanto sia stato Goethe
figlio. La signorina Schopenhauer sembra ignorare che Goethe padre,
assai sensibile alle fanciulle in fiore, è stato un grande
ammiratore di Napoleone (e viceversa).
Nello sproloquio di
Adele, l'ironia di Mann diventa sarcasmo. Non solo perché nulla
apprezza di meno del patriottismo tedesco, che ritiene capace di ogni
enormità, ma perché Goethe non vi ha opposto che la straordinaria
capacità di tenersi fuori dai bassi impicci della storia senza mai,
per così dire, pagare dazio. Ha osservato la guerra tra tedeschi e
francesi dalle alture d'una delle sue predilette stazioni d'acqua,
Karlsbad o Wiesbaden. I sorprendenti colloqui di Lotte si chiudono
con il goffo Augusto, che dell'indifferenza del padre è il testimone
più innocente, tanto che lei si commuove, non senza farsi sfiorare
dal pensiero che se quella volta Goethe avesse sposato lei, potrebbe
esserne la madre. Il successivo monologo di Goethe fra sé e sé,
all'inizio di una giornata come le altre, è una preziosa tessitura
di citazioni, che introduce l'evento della colazione di qualche
giorno seguente.
Lotte vi si reca - la
figlia sempre più disapprovante - nell'abito bianco e nastri rosa
che portava quando Goethe l'aveva incontrata. Non è abbigliata più
bizzarramente delle altre signore. Né è più incantata di loro
dalla splendida casa al Frauenplan, dagli splendidi oggetti raccolti
dal più colto degli uomini, dal suo splendido apparire per ultimo,
un po' invecchiato ma guadagnando di essere dimagrito, nella casacca
di seta nera e la decorazione della stella d'argento. È lui che dà
il benvenuto con inimitabile cortesia e come lievemente sorpreso,
stringendo fra le sue le mani di Lotte e della figlia. Sarebbe in
pena se non lo avessero degnato di una visita! A tavola conduce Lotte
al posto d'onore, sempre con quel parlare squisito nel quale nessun
cenno di ricordo traspare.
La conversazione è
generale, elevata, rispettosa, ciascuno al suo posto. Lotte vede e
valuta e via via ammutolisce; anche quando lui mostrerà da un album
alcune silhouettes ritagliate a mo' di ritratto, che lei gli aveva
fatto avere. Poi è il congedo di tutti fra tutto. Non si saranno
parlati a quattro occhi neanche un istante.
Lotte resta a Weimar
qualche settimana, Goethe fa sapere al mondo di essere indisposto. Ma
le manda la sua famosa carrozza foderata di seta blu pregandola di
servirsene per andare una sera al teatro che egli, fra altre
incombenze, dirige. Lotte nobilmente ci va, nobilmente appare sola
nel suo palco, nobilmente si annoia alla Rosemuende di Koerner
e infine risale in carrozza per rientrare. Nella penombra non si è
accorta che Goethe vi era dentro.
Con la consueta eleganza
si scusa di non aver potuto incontrarla più spesso. Lei, che la
delusione ha reso padrona di sé, lo ringrazia smettendo di dargli
dell'eccellenza. Tu, Goethe, hai capito come me che non potevamo
lasciarci senza una parola dopo una così lunga separazione.
Separazione, ritorni, che sono? replica lui; brevi momenti fra due
esseri che si rivedono non poco segnati dall'età. Ha notato tutto,
il tremito del capo, l'abito dai nastri rosa, e il loro significato
non gli è dispiaciuto, anche se non è bene concedere al
sentimentalismo della gente. Ah sì? Non è bello da parte tua,
Goethe, ricordare i segni del mio sfiorire. E non credo che ti
abbiano commosso perché non sei capace di un'emozione, osservi tutto
e ti servi di tutto.
Il Nume incassa, chiede
persino perdono e non lo ottiene, segno - dice - di disprezzo per chi
lo richiede. Segue uno scontro, in forme cortesi e gelide, più che
un dialogo. Lotte colpisce diritto, gli dice senza alcuna amenità
che lui ha scelto di essere eccelso piuttosto che vivere, anzi
sentire il Possibile che a ogni istante la vita offre, dono
transitorio ma un dono. Lui non demorde, sì, ha scelto di dare al
transitorio un'altra esistenza, a un'ombra, anche a una cara ombra,
il sigillo dell'immortalità. Lei è donna e sa della vita, lui è un
uomo e sa dell'eternità. Così si è chiuso il viaggio di Lotte a
Weimar.
Mann vi ha regolato i
conti con il suo paese e il tedesco più illustre. Ma forse anche con
se stesso, per quello che di comune ha con Goethe - l'indifferenza
per i sentimenti altrui. Dieci anni dopo Lotte in Weimar,
consegnerà all'umanità un Arnold Schoenberg in veste di Doktor
Faustus, uomo di suoni infettato di sifilide da una etera, che ha
fatto un patto con il diavolo per scoprire il segreto di una
scrittura musicale mai concepita prima. Schoenberg non gradisce,
tanto più che Mann si è fatto spiegare tutto della dodecafonia non
da lui stesso, che conosce da un pezzo, e vive in Pacific Palisades
sulla sua stessa strada, ma da Theodor Wiesengrund Adorno, anche lui
vicino di casa.
Più tardi renderà riconoscibile Gustav Mahler nel professor Aschebach, che si spegne a Venezia nell'amore umiliante per un ragazzo. Stavolta il mondo ha dubitato, ed è andato a frugare nelle pieghe dell'esistenza di Mann. Al quale nulla importa dell'infedeltà dei ritratti. Come Goethe, pensa che tutto è materia per le metamorfosi che vi porta l'artista. Quasi che tutti e due non potessero scrivere se non fuggevolmente toccati dal vivente, testimoni del suo passaggio alla fissità dell'immortale.
È la sola autocritica che Mann si è mai fatto, ammesso che dei due duellanti della carrozza abbia ragione Lotte. Ma non è detto. In ogni caso lei si è spenta prima di Goethe, come quasi tutte le creature da lui rese immortali. Lui, il Nume, cesserà di vivere dopo sedici anni, trascorsi in gran parte nel conversare meravigliosamente con Eckermann.
Più tardi renderà riconoscibile Gustav Mahler nel professor Aschebach, che si spegne a Venezia nell'amore umiliante per un ragazzo. Stavolta il mondo ha dubitato, ed è andato a frugare nelle pieghe dell'esistenza di Mann. Al quale nulla importa dell'infedeltà dei ritratti. Come Goethe, pensa che tutto è materia per le metamorfosi che vi porta l'artista. Quasi che tutti e due non potessero scrivere se non fuggevolmente toccati dal vivente, testimoni del suo passaggio alla fissità dell'immortale.
È la sola autocritica che Mann si è mai fatto, ammesso che dei due duellanti della carrozza abbia ragione Lotte. Ma non è detto. In ogni caso lei si è spenta prima di Goethe, come quasi tutte le creature da lui rese immortali. Lui, il Nume, cesserà di vivere dopo sedici anni, trascorsi in gran parte nel conversare meravigliosamente con Eckermann.
“il manifesto”, 2 agosto 2012
Nessun commento:
Posta un commento