Ritratto dello scrittore da giovane |
Gli odori sono
l'involucro dell'India, la mite difesa che questo paese di tesori e
di meraviglie innalza come per scoraggiare l'intrusione dei nasi
occidentali. I cattivi odori, naturalmente: la greve fisiologicità
che emana dalla civiltà più spirituale del mondo. Ogni discorso o
racconto sull'India deve tenerne conto, anzi forse partire di lì, se
non vuol dare un'immagine mistificatoria e edulcorata.
Ho detto nasi occidentali
intendendo anche nasi indiani occidentalizzati. Come quello di V.S.
Naipaul, che ha visitato il paese dei suoi avi solo in età matura
(An Area of Darkness, 1964) e le cui ripugnanze hanno creato
una distanza difficilmente colmabile tra l'India e quello che fino
allora veniva considerato il più famoso scrittore indiano. Ma
Naipaul viene da una famiglia indiana trapiantata da generazioni
nelle West Indies cioè nelle Antille britanniche; Salman Rushdie è
il caso opposto: nato in India da genitori indiani e cresciuto là
fino ai quattordici anni, poi venuto a studiare in Inghilterra e
diventato uno scrittore inglese (uno dei più fortunati della giovane
generazione ora sui trentacinque anni), vive a Londra e racconta
l'India come dal di dentro.
Nel romanzo che l'ha
rivelato al pubblico inglese col Booker Prize del 1981 e che è stato
tradotto in tutto il mondo e ora anche in Italia da Garzanti, I
figli della mezzanotte, lo ha intervistato per Repubblica Irene
Bignardi il 10 aprile scorso, n.d.r., egli si presenta come il
rapsodo d'un'epopea dell'India moderna in chiave comica e grottesca,
dove i cattivi odori e tutta la dimensione fisiologica della vita
indiana vengono celebrati con lo sfarzo e i colori d'una festa
rituale sul Gange. Il personaggio simbolo dell'eternità dell'India,
il barcaiolo Taj, puzza terribilmente; la ninfa egeria del narratore,
Padma, ha il nome della dea del loto che è considerata anche la dea
dello sterco, materia quanto mai preziosa; e l'associazione del
sublime con l'infimo dà a Rushdie lo spunto per una divagazione
sulla sacralità dello sterco nella civiltà indiana.
Il protagonista-narratore
è caratterizzato da un enorme naso, che non aspira soltanto ma anche
cola, perché è perennemente raffreddato. I verbi della liquidità,
della secrezione ed escrezione dominano in tutto il libro, talora
prendendo sensi metaforici come l'infiltrarsi (leaking) d'una
storia o d'un'immagine nel destino d'una vita. Non per nulla la
sputacchiera, da raggiungersi con un colorato getto a distanza da
parte dei masticatori di betel, è l'onnipresente testimone di queste
vicende.
Questi aspetti sgradevoli
figurano nel libro sempre in primo piano, e verrei meno al mio dovere
d'informatore se non dessi loro il giusto rilievo; ma le sensazioni
che Rushdie trasmette non sono tutte di questo genere. Anche la
ghiottoneria per i sapori accesi della cucina indiana vi ha una parte
importante: il narratore si dichiara cuoco di professione, e
sapientissima gastronoma è sua nonna, custode delle antiche virtù;
la preparazione di piatti prelibati ha nel libro sviluppi stimolanti.
I codici del sapere
pratico indiano sono molti e I figli della mezzanotte tende a
farsi enciclopedia. All'edizione italiana va dato il merito di
spiegare al lettore i molti vocaboli indiani con note a piè di
pagina e con un glossario in appendice; apparato che l'edizione
inglese non possiede e che credo sarebbe molto utile anche per i
lettori inglesi non particolarmente iniziati ai segreti del loro ex
impero. Detto questo, bisogna subito aggiungere che il sapere
ancestrale non sarebbe sufficiente a far levitare il romanzo se
l'autore non fosse nutrito di letteratura moderna internazionale
(Rushdie è anche uno dei saggisti e critici più brillanti della
stampa letteraria inglese). I modelli che sono stati evocati più
spesso per questo romanzo sono Cento anni di solitudine di
Garca Mrquez e Il tamburo di latta di Gunter Grass: l'epopea
eroicomica fantasiosa e grottesca è un genere che figurerà nelle
future storie letterarie come caratteristico della narrativa della
seconda metà del nostro secolo su scala mondiale.
Opere come queste si
caratterizzano per la ricchezza della loro inventiva ma anche perché
il loro spirito si concentra in un' immagine in particolare. Qui si
tratta del memorabile episodio del "lenzuolo perforato".
Nel Kashmir, nel 1915, un giovane medico indiano appena tornato in
patria dopo aver ultimato i suoi studi in Germania (a quell' epoca
l'India sembra più sensibile all'egemonia culturale tedesca che a
quella inglese), viene chiamato da un ricco proprietario per visitare
sua figlia che ha mal di stomaco. Il dottore entra in una stanza in
cui due robuste donne tengono sospeso un lenzuolo con un buco. Il
Kashmir è un paese musulmano: una giovane donna non può lasciarsi
vedere nemmeno dal medico. Le domestiche spostano il lenzuolo in modo
da far coincidere il buco con la parte che il dottore deve visitare.
Guarita del mal di stomaco, la figlia del proprietario accusò una
storta alla caviglia destra, poi un'unghia incarnata all'alluce
sinistro, poi un ginocchio indolenzito... Il dottore veniva chiamato
continuamente e ogni volta il lenzuolo perforato incorniciava una
diversa limitata porzione di quel corpo femminile invisibile nel suo
complesso. Doveva essere un bravo medico, perché gli organi via via
visitati guarivano immediatamente, ma una nuova visita si rendeva
presto necessaria per un disturbo localizzato altrove. Così la
ragazza riuscì a far vedere il suo corpo pezzo a pezzo al giovane
medico, il quale, pezzo a pezzo, s'innamorò di lei fino a chiederla
in sposa per poter finalmente vederla senza lo schermo del lenzuolo.
Da questo matrimonio prende origine una genealogia che si ramifica in
vari territori, compresi poi negli Stati indipendenti dell' India e
del Pakistan; la saga familiare s'intreccia con la storia di queste
nazioni.
Il "lenzuolo
perforato" è un' immagine-chiave: il metodo del "pezzo a
pezzo" riappare più volte e si rivela un motivo strutturale del
libro: è dall'accumularsi di dettagli e frammenti e immagini che i
personaggi ricavano i loro destini. Un altro motivo ricorrente è
quello degli oggetti attraverso i quali si attuano i rapporti umani.
Uno dei personaggi è un regista che per aggirare l'interdizione
islamica di filmare coppie che si baciano ha l'idea di far baciare
oggetti: una mela, o una tazza da tè, o una spada. "Pia baciava
una mela, sensualmente, con tutta la ricca carnosità delle sua
labbra dipinte; poi l'offriva a Nayyar, il quale conficcava nella
faccia opposta del frutto una bocca virilmente appassionata. Era
l'inizio di quello che sarebbe stato chiamato il bacio indiretto -
una concezione infinitamente più raffinata di tutto ciò che vediamo
nel cinema d'oggi; e realmente carica di desiderio e di erotismo!".
"Midnight Children",
figli della mezzanotte, sono i bambini nati in India il 15 agosto
1947 allo scoccare della mezzanotte, momento in cui l'India ottiene
la sua indipendenza. Il ticchettio degli orologi che scandiscono
l'avvicinarsi della nascita e del momento scelto da Lord Mountbatten
per cedere i poteri al nuovo Stato domina la prima parte del romanzo;
e c'è chi ha rilevato in questa narrazione che s'attarda sui
preliminari d' una nascita (e sul ruolo che vi ha l'orologio) un'eco
e un omaggio a Tristram Shandy. Chi nasce in quel preciso secondo
sarà dotato di poteri straordinari e s'identificherà con la neonata
nazione: questa la credenza che non so se circolasse effettivamente
allora o se sia stata inventata per l'occasione da Rushdie (il quale
è anche lui coetaneo della nazione, sia pur con due mesi d'anticipo,
essendo nato a Bombay nel giugno 1947). Il protagonista e io narrante
del romanzo, Saleem Sinai, essendo nato a mezzanotte in punto di
quella fatidica notte d'agosto, ha il dono soprannaturale di
penetrare il pensiero del prossimo vicino e lontano, sopratutto
quello degli altri "figli della mezzanotte", che formano
come un'unica entità plurindividuale, sparsa in tutta l'India.
Questi "figli della mezzanotte" comprendono due gemelle
bruttissime di cui tutti s'innamorano, una bambina la cui bellezza è
tale da accecare tutti quelli che la vedono, un bambino che entra e
esce attraverso gli specchi, un'altra creatura che immergendosi
nell'acqua può cambiare di sesso, una bambina le cui parole tagliano
come coltelli, insomma una lunga serie di fenomeni viventi. I poteri
di divinazione del pensiero di Saleem lo fanno partecipare non solo
alla vita di costoro, ma di tutta l'India, dalle pescatrici di Capo
Comorin ai montanari dell' Himalaya. Siamo in una affabulazione
corale e plurima, in cui ogni episodio si dilata, si ramifica,
prolifera, si moltiplica in un continuo processo di metamorfosi e
teratomorfosi, come sulla facciata d' un tempio indù. Il meglio
della sua capacità di trasfigurazione visionaria, Rushdie lo dà in
pagine come quella sul quartiere degli intoccabili a Dehli. Ma sempre
la sua immaginazione è gremita di figure contorte e aggrovigliate
come il mondo visuale della mitologia bramanica.
Questa fantasia grottesca
sembra sfrenata ma risponde a un disegno: l'epopea comica dei Figli
della mezzanotte è in realtà una dolente meditazione su un
trentennio di storia indiana, dal punto di vista - sconfitto in
partenza - dei sostenitori dell' unità dell'India al di là delle
divisioni religiose, secondo l'insegnamento di Gandhi. La secessione
del Pakistan, l'intolleranza da una parte e dall'altra che obbliga
prima o poi tutti i musulmani a trasferirsi nello Stato islamico,
anche quelli che erano decisi a continuare a vivere nelle loro città,
le guerre fratricide tra i due Stati, sono la ferita che questo
romanzo non cessa di lamentare, pur attraverso il suo rituale di
gags, sberleffi, capriole. E non è questa la sola spinta
disgregatrice che Rushdie rappresenta: le lotte tra i vari gruppi
linguistici per l'affermazione della propria lingua sono anche
oggetto della sua esacerbata caricatura. Se pensiamo che i conflitti
più implacabili che insanguinano oggi il mondo si richiamano a
regressive contrapposizioni religiose o linguistiche, possiamo dire
che il tema dei Figli della mezzanotte non è solo il seguito
di delusioni dell'indipendenza indiana, ma il fallimento universale
del secolo ventesimo.
Il nonno capostipite
della famiglia (quello del lenzuolo) è un musulmano liberale e
laico, aderente a una tendenza minoritaria messa subito fuori gioco:
la "Free Islam Convocation" che si batte contro la
spartizione sostenuta dalla Lega Musulmana. Questa sfortunata
aspirazione politica assume nell'affabulazione di Rushdie la figura
d'un profeta grasso e timido che s'esprime canticchiando melodie
sconnesse e inintelliggibili: un ronzio vibrante sempre più acuto,
per cui viene chiamato Humming Bird, uccello ronzante ossia colibrì.
Gli ultrasuoni emessi dall'inerme profeta della tolleranza islamica
hanno poteri magici tali da provocare in chi li ascolta reazioni
fisiologiche variabili tra il mal di denti e l'erezione sessuale;
risultano comunque insopportabili ai fanatici della Lega, e il
profeta Colibrì finisce accoltellato. L'unica difesa che la vittima
sa opporre ai suoi carnefici è il magico ronzio; tutti i cani nel
raggio di molti chilometri lo sentono e accorrono a sbranare gli
assassini. Non è il solo episodio in cui Rushsie fa intervenire
spettacolarmente il mondo degli animali nella storia umana: vediamo
anche le scimmie che popolano le rovine d'un'antica fortezza mongola
disperdere al vento le banconote estorte ai commercianti musulmani da
una banda di fanatici induisti che minacciava d'incendiare i loro
beni. Le invenzioni narrative sono molte, forse troppe, ognuna
preannunciata in anticipo, ricordata e commentata in seguito; questa
eccessiva abbondanza è il difetto del libro; ne risulta
un'impressione di sovraccarico, di verboso, di congestionato,
accentuata dal fatto che la stilizzazione grottesca tende a fissare
il laido e il repellente come qualità stabili e uniformi dell'
universo umano. Si sente il bisogno d'un'orchestrazione che inglobi
anche movimenti come l'andante, l'adagio, il largo, momenti di
respiro, spazi di scrittura e d'immaginazione meno densa, più
rarefatta.
Anche questi ci sono, sia
pur in proporzione ridotta rispetto alla lunghezza del testo, e sono
le pagine dedicate alle descrizioni di città: Dehli, Bombay,
Karachi. Le città dell'India, la loro immagine e la
caratterizzazione del loro spirito, sono ciò che io preferisco nei
Figli di mezzanotte, i veri personaggi di questo libro
brulicante di figure umane. Vediamo per esempio Karachi (p. 341):
"Era, a quei tempi, una città di miraggi; intagliata nel
deserto, non era ancora riuscita a distruggere completamente i poteri
del deserto. Oasi luccicavano nel macadam di Elphinston Street,
caravanserragli brillavano tra i tuguri intorno al Ponte nero, al
Kala Pul. In questa città senza pioggia, il deserto nascosto
conserva gli antichi poteri di suscitare apparizioni, e il risultato
era che i karachiti avevano un rapporto molto incerto con la realtà,
ed erano quindi pronti a rivolgersi ai loro capi per sapere che cosa
era reale e cosa no. Circondati da illusorie dune di sabbia e dagli
spettri di antichi re, nonché dalla consapevolezza che il nome della
fede su cui poggiava la città significava "sottomissione",
i miei nuovi concittadini emanavano gli scialbi odori di bollito
dell' acquiescenza, assai deprimenti per un naso che aveva fiutato lo
stuzzicante nonconformismo di Bombay".
“la Repubblica”, 8
maggio 1984
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