Il basamento con l'epigrafe del perduto monumento bronzeo a Cornelia nel Foro |
Per secoli, la storia
delle donne romane è stata raccontata dagli uomini, la loro immagine
disegnata senza mezzi termini: la Vestale o Messalina; modelli
consacrati dalla tradizione, legati alla struttura del gruppo. Le
eroine di cui abbiamo sentito parlare già alle elementari erano
campioni di virtù tipologiche, proiettate in un passato
favoleggiato; la prima di queste virtù è la castità: la patrizia
Lucrezia si toglie la vita per non sopravvivere all' onta dello
stupro subìto, la plebea Virginia la uccide il padre per sottrarla
alle brame del decemviro Appio Claudio - due morti che scatenarono in
tutti e due i casi una rivoluzione sociale. La donna è custode del
focolare domestico, come le Vestali di quello di Roma, e vergine come
loro, vigile, insonne, responsabile non solo della casa, ma anche del
patrimonio spirituale e religioso della famiglia; se è matrona, la
iscrizione funeraria che ne tramanda il ricordo su una lapide la
definisce sempre pudica, "univira" (vale a dire, d' un uomo
solo).
La storia di Roma è
costellata di figure esemplari, in versioni talvolta divergenti:
quando, in un momento difficile delle guerre Puniche, fu portata a
Roma dall' Asia Minore l'immagine della dèa Cibele - il meteorite di
Pessinunte - all'entrata del Tevere dal mare la nave si incagliò
(succede ancora). Dalla folla accorsa per onorare la divinità
straniera uscì una donna (una Vestale, secondo alcuni, una matrona
di cattiva fama, secondo altri). Supplicò la dea di testimoniare a
suo favore e far tacere le cattive lingue; poi, allacciò la sua
cintura alla prua della nave e questa riprese senza intoppi il suo
percorso verso Roma. La seconda qualità femminile altamente pregiata
perché utile al nucleo famigliare e alla comunità è la parsimonia.
Non c'è madre di famiglia che nella iscrizione funeraria incisa sul
suo sepolcro non sia definita frugale, operosa, "lanifica",
e cioè intenta al telaio, il tipo che non le sfugge niente, fa rigar
dritto gli schiavi, tiene le chiavi legate alla cintura e non ha
grilli per la testa: ed ecco pronto l'esemplare ampiamente celebrato,
Cornelia, madre dei Gracchi; austera, feconda (ebbe dodici figli)
certo non aveva il tempo di fermarsi a guardare le vetrine di
Bulgari; gli storici parlano dei suoi interessi culturali, dell'élite
di intellettuali che frequentavano il suo salotto; ma la battuta che
la rende famosa è quella che, dicono, pronunciò quando una matrona
amica sua andò a farle visita, tutta fiera dei suoi vistosi monili
ed ella, indicando i suoi ragazzi, disse "ecco i miei gioielli".
Eppure, sul piedistallo della statua di questa donna, singolare per
il carattere e l'ingegno, il suo nome è riferito agli uomini:
"Figlia di Scipione Africano - c' è scritto - Madre dei
Gracchi". Oggi, nessuno si sognerebbe di fare altrettanto con
Madame Curie o Rita Levi Montalcini.
Rivelatori del
pregiudizio inconscio sedimentato nella coscienza degli uomini, anche
eccelsi, sono gli epiteti che affibbiano a donne passionali,
volitive, capaci di esercitare un' influenza nefasta su i loro uomini
e, attraverso loro, su la società: "insana" "furens",
così Virgilio definisce Didone, che trattiene Enea dal proseguire il
viaggio e quindi adempiere alla sua missione (e forse nella "regina"
africana ha voluto adombrare Cleopatra, che Orazio a sua volta chiama
"fatale monstrum") benché non manchi nell' uno e nell'
altro poeta una vena di pietà e di rispetto per le due donne
innamorate, entrambe suicide. La tradizione è così forte, la
soggezione ai "mores" così imperiosa che diventa un
atteggiamento di classe: Livia, la sposa di Augusta, mentre dietro le
quinte tesse una sottile tela politica, ostenta una condotta da
matrona d'età repubblicana: la lana con la quale si confeziona la
toga dell'imperatore è tessuta al telaio da lei; ancora nell'età di
Adriano si legge in un epitaffio di una donna la lode antica: "restò
a casa, filò la lana".
Come osserva Emanuela
Prinzivalli, una degli autori che ha collaborato al bel libro Roma
al femminile (Laterza, a cura di Augusto Fraschetti, pagg. 285,
lire 30.000), bisogna arrivare alla fine del II secolo per trovare
una donna che si sottrae all'autorità del padre, ai suoi doveri di
madre, all'imperativo etico della società alla quale apparteneva per
proclamare la sua verità: la martire cartaginese Perpetua, che ha
lasciato un suo diario dei giorni trascorsi in carcere prima d'essere
esposta alle belve nel circo. Una donna parla, espone il suo
pensiero, ha acquistato con il cristianesimo una dignità pari a
quella dell'uomo; la nuova religione abolisce le differenze di sesso
(la fedeltà coniugale è imposta anche ai mariti) e di classe,
esalta la forza interiore della donna: una schiava, Blandina, muore
tra i tormenti a Lione negli stessi anni, dopo aver fatto coraggio ai
suoi compagni di fede; le patrizie romane, nel IV secolo, portatrici
di nomi illustri, Fabiola, Paula, Melania, convertite da S. Girolamo
si trasferiscono in Terrasanta per vivere nel paese dove Cristo è
morto. Una sola grande pagana, erede della Fermezza morale delle
compagne degli oppositori stoici di Nerone e di Domiziano;
l'astronoma e filosofa Ipazia, insegnante di dottrina neo-platonica,
morì ad Alessandria d'Egitto, massacrata da fanatici cristiani,
mossi forse, scrive nel suo bel saggio Silvia Ronchey, da moventi
politici più che religiosi.
“la Repubblica”, 11
dicembre 1994
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