Tempi difficili, ma anche
stimolanti per chi si incarica di trasmettere la memoria.
Storici, scrittori,
artisti e soprattutto architetti devono rispondere a diverse e spesso
opposte sollecitazioni. Fra queste forse la più pericolosa è la
tentazione di sottrarre la memoria dal più largo contesto storico di
provenienza e dal presente con il quale la memoria stessa dovrebbe
interagire. Dagli anni ottanta, con l’emergere sempre più
prepotente nell’opinione pubblica dei popoli e delle culture che
hanno avuto ruolo di vittime nella storia è stata forte la
tentazione di fare tabula rasa intorno a essi prescindendo
dalla possibilità di fare paragoni e attribuire così all’opera
architettonica incaricata di elaborare la loro memoria un’aura di
unicità che si impone senza mediazioni e spesso si offre soltanto
alla contemplazione vittimistica.
Alla monumentalizzazione
del vittimismo si deve poi aggiungere il fenomeno del protagonismo
artistico che una parte dell’architettura degli ultimi trent’anni
ha perseguito con la realizzazione di progetti il cui criterio
principale è stato quello di far spiccare l’opera architettonica a
tal punto da prescindere da ogni interazione urbanistica. Come se il
fatto di progettare pensando al contesto ostacolasse la
riconoscibilità dello stile dell’architetto o non valorizzasse a
sufficienza l’opera.
Al di fuori di questa
tendenza architettonica si sono orientati i lavori di Luca Zevi
responsabile, fra le altre opere, del Memoriale alle vittime del
bombardamento del quartiere San Lorenzo e progettista del Museo
della Shoah a Roma, oltre che autore del recente libro Conservazione
dell’avvenire Il progetto oltre gli abusi di identità e memoria
(Quodlibet, 2011). Nell’indovinato paradosso del titolo sta già la
chiave d’accesso agli argomenti del libro, che vanno dalla lezione
di apertura che l’ebraismo può offrire alla cultura
architettonica, al bilanciamento fra sviluppo della città e campagna
nella pianificazione del territorio in Cina, alla commistione di
chiusura e tolleranza nelle strutture urbane di Teheran Beirut e Tel
Aviv, alla considerazione del rapporto tra usi e abusi dell’identità
nei progetti dei musei e memoriali della Shoah e di Ground Zero.
A Zevi preme mostrare che
per stabilire un rapporto duraturo e istruttivo con il passato
occorre non monumentalizzarne il ricordo, ma creare degli spazi
pubblici nei quali la memoria si racconti rivolgendosi ad altre
memorie nella convinzione che soltanto la comparazione può tenere
vivo il ricordo e proiettarlo nel futuro. A tal riguardo, nella parte
finale del suo libro, Zevi espone quello che è il suo progetto più
ambizioso, quello di un museo delle intolleranze e degli stermini:
«non monumento, né memoriale e neppure edificio-contenitore di un
itinerario di conoscenza a senso unico. Il MIS sarà luogo di
itinerari, scelta fra diverse opzioni di approfondimento e risalita
lungo la storia». Un museo nel quale anche la memoria della Shoah
saprà forse raccontarsi senza la continua paura di confondersi fra
gli altri genocidi dell’umanità.
“alias” 16 luglio
2011
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