Con la fine dell’anno
2016, dopo la vittoria del No al referendum costituzionale, le
simulate dimissioni di Renzi e il varo del governo-ombra Gentiloni, è
il caso di fare il punto sugli indirizzi economici degli ultimi
tempi. Essi sono basati su alcuni palesi fallimenti, sia da un punto
di vista delle politiche economiche che di quelle del lavoro: il
salvataggio delle banche e l’istituzionalizzazione della precarietà
sono infatti esplicitazione di un fallimento ma anche paradossali e
sbandierati “successi” dell’era renziana.
I soldi non ci sono per
il welfare ma ci sono per il sistema creditizio e per le imprese,
favorite dalla svendita del fattore lavoro, una merce che per i
governi di “sinistra” sembra non valere niente
Fallimento # 1
Il primo fallimento di
cui voglio parlare è quello del Monte dei Paschi di Siena (MPS), la
più antica banca italiana, e ha origini lontane. Cominciamo con un
minimo di cronistoria.
Con delibera novembre
2007, l’allora CdA, sotto la guida di Antonio Mussari, delibera
l‘acquisizione di Antonveneta, la banca al centro (insieme alla
Popolare di Lodi) dello scandalo del 2005 (con la complicità
dell’allora Governatore di BdI Antonio Fazio), noto come lo
scandalo dei “furbetti del quartierino”. L’acquisizione diventa
operativa nel 2009 e nasce così il terzo polo bancario nazionale
(dopo Unicredit e Intesa-San Paolo). L’acquisizione costa 9
miliardi di euro, un prezzo esorbitante per una banca – Antonveneta
– che sino a pochi anni prima era sull’orlo del fallimento e che
era stata acquisita da ABN Ambro, a sua volta fallita e al centro di
scandali bancari, per poi essere di nuovo scalata dal consorzio
Royal Bank of Scotland – Banco Santander – Fortis, tutte banche
sull’orlo della bancarotta e salvate da aiuti di Stato: quegli
aiuti di Stato (bail out) che oggi, dopo gli accordi di
Basilea 4, non sono più possibili.
I 9 miliardi
dell’acquisizione verranno pagati cash, per il 50% con un
aumento di capitale aperto a tutti gli azionisti, confidando in
particolare sull’intervento dell’allora azionista di riferimento,
la Fondazione MPS, che deteneva la maggioranza del pacchetto
azionario del MPS. Il restante 50% viene raccolto tramite il ricorso
all’innovazione finanziaria di tipo speculativo che si chiama bond
Fresh, una sigla che sta per Floating rate equity-linked
subordinated hybrid preferred securities. Viene dato mandato alla
banca d’Affari JpMorgan (con l’appoggio “esterno” di Goldmann
Sachs e Deutche Bank, il gotha dell’oligarchia finanziaria globale)
di collocare tali bond che si presentano assai attrattivi (con
un rendimento del 4,25%). Oltre alla stessa Fondazione MPS vengono
coinvolti altri investitori istituzionali italiani e stranieri,
nonché attività economiche territoriali legate alla galassia delle
Coop e del Centro-Sinistra toscano. Ma quando il bilancio di fine
2011 evidenzia una perdita netta di oltre 4,69 miliardi di euro (a
causa soprattutto dell’incauta acquisizione di Antonveneta) e si
cominciano a registrare riduzione nel valore delle azioni, si
impronta un piano di ristrutturazione lacrime e sangue, sotto la
guida del nuovo Ad, Alessandro Profumo, appena esautorato da
Unicredit, a seguito delle pressione delle lobby leghiste del Nord
Italia. Il 27 giugno 2012 viene approvato il nuovo piano di riassetto
del gruppo Monte dei Paschi di Siena per il triennio 2012-2015,
fortemente improntato alla riduzione dei costi e alla
razionalizzazione.
L’operazione prevede la
soppressione di oltre 4.600 posti di lavoro con incorporazione delle
controllate, la chiusura di 400 filiali entro il 2015 e cessioni di
attività, svalutazione degli avviamenti (per una cifra da definire)
e la richiesta di liquidità allo Stato Italiano per 3,4 miliardi di
euro (per mezzo dei cosiddetti Monti bond). In tal modo, lo
Stato Italiano diventa il primo azionista di MPS, anche grazie a un
nuovo aumento di capitale sociale pari a 5 miliardi, a cui non
partecipa la Fondazione MPS, dissanguata dalle operazioni speculative
andate a male nel biennio precedente.
Nonostante tale aumento
di capitale, il 26 ottobre 2014 MPS è bocciata dagli stress test
della Banca Centrale Europea ed è costretta a varare un nuovo
aumento di capitale di 3 miliardi di euro, anch’esso molto diluito
(fino al 90%), che si tiene dal 25 maggio all’inizio di giugno
2015, appena un anno dopo il precedente. In Borsa, il titolo MPS
perde il 39,2% nelle ultime cinque sedute di ottobre 2014.
E veniamo finalmente ai
nostri giorni. Nel luglio 2016, nonostante l’immissione di ben due
aumenti capitali (per un totale di 8 miliardi di euro, comunque
riusciti), lo stato patrimoniale di MPS è ancora sotto pressione. La
causa principale sono i crediti inesigibili (Not Performng Loans),
per un valore che ammonta a 9,7 miliardi di euro. Non è chiaro a chi
siano stati dati tali crediti. Il sospetto è che essi siano stati
utilizzati per pagare i servizi delle oligarchie finanziarie
(JpMorgn, in testa), a restituire gli interessi sui Monti bond e i
“servigi” compiacenti in favore dell’economia locale. Fatto sta
che anche nel 2016, gli stress test della Bce non vengono superati e
si richiede un nuovo piano di ricapitalizzazione per ulteriori 5
miliardi. Viene cosi presentato un nuovo piano di ristrutturazione,
con un cambio di dirigenza, proposto dal nuovo Ad, con ancora il
supporto e l’appoggio di JpMorgan. Il piano prevede la raccolta di
fondi pari a tale cifra entro il 20 dicembre 2016. Gli investitori
istituzionali, tra cui il principale sponsor dovrebbe essere il Fondo
Sovrano di Investimento del Quatar, nicchiano. Sembra così che il
terzo aumento di capitale non riesca ad aver buon fine. Viene
chiesta, di conseguenza, una proroga dal 20 dicembre al 20 gennaio,
ma tale concessione viene negata dalla vigilanza BCE. I mass-media
raccontano la favola che l’indecisione dei nuovi possibili
investitori, destinati a definire il nuovo assetto proprietario, che
porterebbe il MPS in mani straniere, derivi dall’eccessiva
instabilità economica e politica, anche in seguito all’esito
referendario del 4 dicembre scorso, come anticipatamente illustrato
dal Financial Time.
A favorire la riuscita
dell’aumento di capitale dà una mano la Consob che autorizza la
conversione (volontaria) delle obbligazioni in possesso dei piccoli
azionisti (per un ammontare di circa 2,4 miliardi) in nuove azioni:
autorizzazione precedentemente negata perché le obbligazioni erano
in parte costituite dai Fresh.
L’autorizzazione viene
ora concessa perché il governo italiano si è dato disponibile a
fare da garante. Non stupisce quindi che il 20 dicembre il
neo-premier Gentiloni predisponga uno “scudo” di 20 miliardi di
euro da usare “a scopo precauzionale” a sostegno delle banche e a
salvare i risparmiatori e che il governo possa usare nel caso di
fallimento dell’aumento di capitale di Mps ma anche per rimpinguare
il Fondo Atlante, già ampiamente dissanguato dagli interventi per
ricapitalizzare la Banca Popolare di Vicenza e altre banche in crisi.
Ma il nuovo aumento di
capitale non ha successo, nonostanti tutti gli sforzi istituzionali e
non, a suo sostegno. Terminato così il tempo concesso dalla Bce per
la ricapitalizzazione, il 22 dicembre si quindi è reso necessario
l’intervento dello Stato per evitare il fallimento. Si profila così
un intervento diretto del Tesoro per un ammontare stimato in 6-7
miliardi, che dovrebbe garantire i risparmiatori individuali al 100%.
Si tratta di circa 42.000 persone che detengono obbligazioni
subordinate del MPS per un controvalore di 4,4 miliardi (una media di
oltre 100.000 euro a testa). In tal modo si calcola che lo Stato
arriverà a detenere quasi il 60% dell’intero pacchetto azionario
del MPS.
Assistiamo così al primo
intervento di (parziale) nazionalizzazione di una banca privata dopo
molti decenni.
Due brevi annotazioni
conclusive. La crisi delle banche italiane non ha nulla a che vedere
con la crisi finanziaria dei subprime avviatasi nel 2008. Il
motivo è semplice. Il sistema del credito italiano era troppo
corporativo e poco internazionalizzato per subire i contraccolpi
dell’esplosione dei “titoli spazzatura”, in larga misura
presenti nei bilanci patrimoniali delle grande banche europee. Come è
ben dimostrato dal caso MPS, l’attuale crisi è prevalentemente
l’esito della gestione incompetente e spesso truffaldina del
proprio management. E il fatto che si mettano a disposizione ben 20
miliardi la dice lunga sulla natura di “classe” delle politiche
di austerity. Con una simile cifra, ben altri interventi si
sarebbero potuti intraprendere….
Secondo: la reazione
della troika è al riguardo tiepida e comunque appare consenziente,
nonostante che i 20 miliardi messi a disposizione non vengano coperti
da misure ad hoc ma vadano ad aumentare il debito pubblico italiano e
quindi un rapporto deficit/Pil che è già ora superiore ai vincoli
posti dal Patto di Stabilità: “La Commissione europea prende nota
dell’annuncio delle autorità italiane sulle varie misure a
proposito delle banche italiane”, ha commentato infatti il 23
dicembre in una dichiarazione un portavoce comunitario a Bruxelles.
“Siamo stati in questi ultimi tempi in continuo e costruttivo
contatto con le autorità italiane. Naturalmente, sosteniamo
pienamente gli obiettivi delle autorità italiane di rafforzare
ulteriormente il settore bancario italiano, in linea con le regole
europee”. E la BCE fa notare che per il salvataggio della banca
senese servirebbero ben 8,8 miliardi di euro, fcendo intendere che
non si disdegnerebbe un intervento in tal senso.
Una posizione differente
dalle decisioni dell’Eurogruppo di metà dicembre sul caso greco.
L’Eurogruppo ha deciso, infatti, di rimangiarsi la parola data il
5 dicembre 2016, quando era stato raggiunto l’accordo sul parziale
alleggerimento del debito greco, con l’allungamento delle scadenze
e tassi di interesse più bassi. Ora, questa decisione viene
congelata, praticamente per punire la Grecia e il governo di Alexis
Tsipras, che ha annunciato un aumento delle pensioni più basse. Due
pesi, due misure.
Fallimento # 2
Spostiamoci, adesso, sul
fronte delle politiche per il lavoro, non disconnesse dal quadro sin
qui descritto ma suo diretto corollario. Siamo in grado, a due anni
dal suo varo, di compiere una prima analisi dei risultati ottenuti
dal Jobs Act. Come per il caso MPS siamo, anche qui di fronte, a un
fallimento.
Dopo un primo anno
euforico (2015), che ha visto il ricorso al nuovo contratto a tutele
crescente (erroneamente definito a tempo indeterminato, visto che, a
prescindere delle possibilità di licenziamento, diventa tale solo
dopo i primi tre anni) per un ammontare complessivo di 764.000
persone (Osservatorio sulla precarietà, INPS), una volta venuti meno
gli incentivi fiscali, la bolla delle assunzioni è fragorosamente
scoppiata. In primo luogo, occorre, infatti, tener conto che per
ogni assunzione a tutele crescenti, lo Stato abbonava circa 8.000
euro di contributi fiscali e consentiva la totale libertà di
licenziamento per i primi tre anni (anche senza gusta causa con buona
pace dell’art. 18) dietro un rimborso che poteva andare da 2
mensilità (I anno) sino a 6 mesi (III anno). Di conseguenza, per il
padrone il risparmio fiscale era superiore al costo del
licenziamento. In secondo luogo, i dati si riferiscono a tutti i
rapporti di lavoro attivati nel periodo, anche quelli in capo ad uno
stesso lavoratore, con riguardo a tutte le tipologie di lavoro
subordinato, incluso il lavoro somministrato e il lavoro
intermittente. Non si parla quindi di persone occupate ma di
prestazioni lavorative, che possono essere anche più di una per
lavoratore/trice, soprattutto nel caso di lavoro intermittente e
somministrato. Non si fa riferimento neanche alle ULA (unità di
lavoro equivalenti), cioè il posto di lavoro standard full time (40
ore settimanali).
Ciò significa che nella
realtà le oltre 700.000 assunzioni a tempo cd. indeterminato non
corrispondono nel 2015 ad una pari effettiva crescita della domanda
di lavoro da parte delle imprese, ma più ad un effetto sostituzione
tra vecchie tipologie contrattuali e le nuove posizioni
economicamente più vantaggiose (primo fra tutte, il contratto di
lavoro a tutele crescenti) oltre al turn-over tradizionale. Tale dato
è confermato anche dal fatto che la dinamica del Pil, pur migliore
ma di poco nel 2015 rispetto al 2014, non giustifica un effettivo e
reale incremento del fabbisogno di lavoro, visto anche la stagnazione
degli investimenti e dei consumi finali.
Infine, il boom dei
contratti di lavoro formalmente considerati stabili (come quello a
tutele crescente) appare piccola cosa se confrontato con la crescita
esponenziale dei buoni lavoro (voucher), che consentono
l’utilizzo di un lavoro usa e getta su base oraria. Nel 2015
risultavano venduti 114.921.574 voucher destinati al pagamento
delle prestazioni di lavoro accessorio, del valore nominale di 10
euro, con un incremento medio nazionale, rispetto al corrispondente
periodo del 2014 (69.172.879), pari al 66%. In presenza di un
utilizzo corretto dello strumento, se ad ogni voucher corrisponde
effettivamente un’ora di lavoro, il volume di ore remunerate dai
voucher venduti nel 2015 corrispondeva a circa 57.000 unità
di lavoro equivalenti.
Analizziamo ora i dato
relativi ai primi 9 mesi del 2016. Come ricorda Roberto Ciccarelli su
“il manifesto” dello scorso 17 dicembre: “Secondo i dati Inps,
rielaborati dalla fondazione Di Vittorio, nei primi 9 mesi di
quest’anno le assunzioni a tempo indeterminato (926 mila) sono
inferiori non solo a quelle dei primi 9 mesi del 2015 (con una
differenza di -443 mila, -32,3%), ma anche a quelle dei
corrispondenti periodi del 2014 (-65 mila) e del 2013 (-85 mila). Ciò
che davvero aumenta sono le 2,7 milioni assunzioni a termine, con una
variazione rispetto al 2015 di +91 mila unità, di +154 mila rispetto
al 2014 ed una ancora più cospicua rispetto al 2013 (+325 mila). Non
solo il Jobs Act non produce più occupazione, ma ne produce molto di
meno rispetto al periodo in cui non c’era Renzi (2014)”.
Tali dati sono anche il
risultato della riduzioni di 2/3 degli incentivi fiscali, a partire
dal 1 gennaio 2016: incentivi fiscali, che scompariranno del tutto
dall’inizio del 2017, con l’esclusione delle regioni del Sud
Italia. È facile prevedere, che finita la “droga” degli
incentivi, anche le già decrescenti assunzioni subiranno
un’ulteriore drastica riduzione.
Ciò che invece appare
confermato è l’aumento dei licenziamenti, una volta che sono
stati del tutto liberalizzati. Per l’Inps da gennaio ad agosto 2016
i licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo,
sono aumentati del 28%. In otto mesi sono passati da 36.048 a 46.255.
Si tratta dell’ovvia conseguenza di avere abolito la tutela nei
confronti del licenziamento. Il Jobs Act funziona e lo pagano i
lavoratori che hanno un contratto stabilmente precario.
Ma non basta. Se
prendiamo in considerazione gli effetti dell’ulteriore
liberalizzazione del contratto a tempo determinato introdotta dal
Ministro del lavoro Poletti (che ha modificato, a poco meno di due
anni dalla riforma Fornero, il limite dei rinnovi contrattuali per un
lavoratore a termine: dai 12 a 36 mesi con un massimo di cinque
proroghe, all’interno delle quali è possibile rinnovare il
contratto infinite volte, anche una al giorno), i dati citati in
precedenza confermano che è in atto un dispositivo composto tra
“tutele crescenti” e”tempo determinato”.
Ma non basta per la
seconda volta. A dimostrazione che il Jobs Act non è altro che
l’istituzionalizzazione della condizione di precarietà e della
trappola della precarietà, assistiamo al boom del lavoro tramite i
famigerati voucher, emblema del lavoro cd. “accessorio”,
più prosaicamente, il lavoro “usa e getta”. La ricerca Inps “Il
lavoro accessorio dal 2008 al 2015” di Bruno Anastasia, Saverio
Bombelli e Stefania Maschio, ha dimostrato che i buoni da 10 euro
destinati al pagamento orario delle prestazioni occasionali sono un
“iceberg” del lavoro sommerso e segnalano che il “nero” è in
gran parte rimasto sott’acqua. Il voucher è una prestazione
associata molto spesso al lavoro part-time. Un altro strumento per
governare le vite precarie. Il milione e 380 mila voucheristi (nel
2015) sono il futuro del lavoro in Italia: senza tutele, né
contratto, ma a prestazione.
1 + 1 fa 3
I due fallimenti
ricordati non sono altro che la punta dell’iceberg della politica
economica del governo. Una politica economica, che trova attuazione
nella legge di stabilità, caratterizzate da oramai troppi anni da
misure unicamente a sostegno dell’offerta, quindi a vantaggio del
sistema delle imprese. Fatta passare come politica di sostegno alla
crescita, nel corso del 2015, il governo Renzi ha stanziato 6,1
miliardi di Euro a favore delle imprese (pari a 3,4 miliardi di euro
lordi per il costo della decontribuzione, più 2,7 miliardi derivanti
dalle deduzioni sull’Irap). Nel corso del 2016, è stata decisa per
il 2017 la riduzione dell’aliquota Ires dal 27,5% al 24% per un
costo di circa 3 miliardi di euro. Solo queste misure sono costate al
contribuente italiano poco meno di 10 miliardi, compensate da
fittizie politiche di sostegno alla domanda una tantum, tipo gli 80
euro.
Se i dati e le storie
precedentemente ricordati ci inducono a parlare di fallimento, in
realtà, se li analizziamo con la visuale della struttura di potere,
dovremmo parlare di successo, non in senso ironico ma seriamente. I
veri obiettivi del governo sono stati infatti pienamente raggiunti.
Da un lato, proteggere il settore bancario dalle pressioni derivanti
dalle nuove regole di valutazione e monitoraggio imposte dalla Bce,
al fine di garantire comunque il “divenire rendita” del
plusvalore generato dall’economia italiana, dall’altro,
confermare in modo definitivo e strutturale, almeno nel medio
periodo, il mercato del lavoro come ambito privilegiato del processo
di costante aggiustamento dell’instabilità strutturale generata
dalle oligarchie finanziarie.
Grazie infatti al caso
MPS, il governo ha potuto intervenire a sostegno dell’intero
comparto bancario, mettendolo “in sicurezza” e garantendo in tal
modo la continuità del processo di controllo politico e economico di
molte realtà locali. Grazie al Jobs Act, la precarietà si è
istituzionalizzata come condizione strutturale di ricattabilità del
lavoro a sostegno degli interessi padronali.
Due risultati ottenuti,
per il momento, senza che sia maturata una qualche forma di
opposizione politica e sociale. Ma di questo parleremo in un’altra
occasione.
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