Nel cosiddetto quint'anno
delle magistrali (il nome ufficiale era anno propedeutico
all'Università) non c'erano programmi rigidi da seguire, anzi la
gestione in comune dei corsi da parte del Provveditorato e da parte
dell'Ateneo incoraggiava la scelta monografica, purché centrata su
argomenti con vaste implicazioni e in grado di affinare il metodo di
studio.
Vi ho insegnato in alcuni anni Storia, in altri Italiano. Un
anno – addirittura – mi assegnarono Italiano in uno dei due corsi
e Storia nell'altro.
Erano gli anni Ottanta, per molti versi pessimi,
ma non si era ancora esaurita la spinta di rinnovamento culturale che
veniva dal nuovo femminismo e investiva molte discipline. Il fatto
che nel quint'anno gli studenti fossero soprattutto donne, giovani
maestre elementari, spingeva pertanto a scegliere temi in cui trovava
posto la “differenza di genere”.
Uno dei corsi ebbe come tema il rapporto
uomo-donna nel romanzo italiano fra Ottocento e Novecento. Scegliemmo
una quindicina di romanzi, uno per settimana. Rammento Il
marito di Elena di Verga, Amore
e ginnastica di De Amicis, Una
donna di Aleramo, Un
matrimonio in provincia della
Marchesa Colombi, Senilità di
Svevo, Canne al vento di
Deledda, L'esclusa e
Giustino Roncella... di
Pirandello, Con gli occhi chiusi di
Tozzi, Teresa di Neera
e La casa nel vicolo di
Maria Messina.
Imparai molto da quelle letture e da quelle ragazze. Ricordo
in particolare una analisi intelligente e rigorosa del libro della
Messina, da poco riscoperto e rieditato dalla signora Elvira Sellerio
nella prestigiosa collana blu diretta da Leonardo Sciascia. (S.L.L.)
Maria Messina |
Così la ricorda la
nipote, la scrittrice Annie Messina: “Una giovane donna minuta con
un visino pallido dai grandi occhi luminosi,incorniciato da una massa
di fini capelli castani. La sua fragilità celava una forza d’animo
non comune, la forza che le ci era voluta per denunciare, lei
signorina di buona famiglia che avrebbe dovuto ignorare certe
vergogne, quello che si celava dietro la facciata di case
rispettabili, in cui la donna era tenuta in uno stato di soggezione
prossimo alla schiavitù”.
Maria Messina fu una
grande scrittrice di cui, dopo la morte avvenuta nel 1944, si perse
il ricordo. La memoria letteraria è stata molto avara nei suoi
confronti, solo dopo la ristampa di alcune sue opere nel 1980 e
l’attenzione di Leonardo Sciascia, si aprì uno squarcio sul
silenzio che la circondava.
Era nata a Palermo il 14
Marzo del 1887 da Gaetano e Gaetana Valenza Traina. Nel 1903 si
trasferì con la famiglia a Mistretta e lì visse fino al 1909. La
maggior parte delle sue opere risentono delle atmosfere di quel
luogo, nel cuore dei Nebrodi, della provincia messinese. In seguito
si spostò in varie parti d’Italia per seguire il padre che era un
ispettore scolastico: in Umbria, nelle Marche, in Toscana e infine si
stabilì a Napoli.
A vent’anni fu colpita
dalla sclerosi multipla, malattia che la costrinse a condurre una
vita schiva, quasi sempre tra le pareti domestiche.
Intrattenne intensi
rapporti epistolari con Giovanni Verga ed Ada Negri. Quest’ultima
curò la prefazione ad una sua raccolta di novelle del 1918 Le
briciole del destino e pur non avendola mai incontrata le scrive:
“Mia piccola sorella Maria, non ti conosco fisicamente ma mi sembra
di conoscere bene la tua grande anima”.
Tra le sue raccolte di
novelle ricordiamo Pettini fini del 1909, Piccoli gorghi
del 1911 e Personcine e Ragazze siciliane del 1921.
Fu anche autrice di libri
per ragazzi e ragazze: Cenerella, I figli dell’uomo
sapiente, Il galletto rosso e blu e Il giardino dei
Grigoli.
Il suo primo romanzo Alla
deriva è del 1920 e da lì parte la sua cifra stilistica che
fotografa e racconta una società provinciale, perbenista, rassegnata
alle forme da rispettare e che fa emergere la donna come “una vinta
tra i vinti”, un essere passivo in una condizione di “muta e
drammatica subalternità”.
In un altro suo romanzo,
La casa nel vicolo, la scrittrice mette in risalto una donna
sottomessa alla famiglia patriarcale siciliana, a cui è negata ogni
autonomia e da cui ci si attende solo fedeltà ed obbedienza cieca.
Questa sua denuncia la troviamo in tutti i suoi romanzi, la donna
come “pupattola di cencio” che non ha voce per gridare i diritti
negati di libertà ma che si salva estraniandosi da sè e dalla
propria quotidianità.
Leggere le sue pagine
significa ritrovarsi all’interno di povere e misere case, nei
vicoli dove le donne si radunavano a cucire, nei balconcini dove
sbocciavano margherite, gerani e giunchiglie, e ancora panorami di
frumento, poggi e colline ondulate. E poi ci si immerge nelle trame
delle vite di nonne sagge, di padri despoti e duri, di madri
silenziose, di sorelle, cugine, amiche accomunate da destini scelti
da altri. Si entra, quasi in punta di piedi, nelle cucine con i
grandi focolari e il profumo del pane o dei dolci appena sfornati,
nelle stanze da letto con piccole culle che ondeggiano, in piccoli
viottoli freschi ed ombrosi punteggiati da edicole votive in onore di
santi e madonne. E in questi ambienti spesso si stagliano figure
femminili “pallide, magroline, vestite di nero” a cui a volte non
era neanche permesso studiare dalle monache, perché le fanciulle
andavano custodite e il padre “voleva formarle lui, a suo modo,
docili, semplici, ignoranti, senza desideri, come debbono essere le
donne”.
Per alcuni critici
letterari le opere di Maria Messina possono essere inserite nel
filone narrativo seguito da Verga, Capuana e Pirandello. In effetti
nei suoi primi scritti si rintraccia l’influenza verghiana ma in
seguito la sua arte narrativa assume un’identità autonoma, con un
verismo in cui gli avvenimenti impattano soprattutto l’animo
femminile.
Leonardo Sciascia la
definì invece una “Mansfield siciliana” per i suoi racconti
realistici e l’interesse verso la quotidianità.
Così le scrisse Ada
Negri dopo aver accettato di scrivere la prefazione de Le briciole
del destino: “le briciole del destino: avare e magre,
sprezzanti ed anonime, che la vita getta con distratto compatimento
agli Umili…tu hai voluto studiare questi cantucci di umanità che
sanno di vecchia polvere, di vecchi stracci abbandonati, di vecchie
ragnatele, di vecchie lacrime rancide: Tu vi sei riuscita piccola
sorella Maria. Come?…Non so”.
Maria Messina morì il 14
Marzo del 1944 a Masiano, una frazione a pochi chilometri da Pistoia,
in una casa di contadini dove si era rifugiata per sfuggire ai
bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Nel 2009 i suoi resti
mortali sono stati traslati dal cimitero di Pistoia a quello di
Mistretta, ove oggi riposa accanto alla sua amata madre.
Da “Enciclopedia delle
donne”
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