La vera moglie di
Mussolini fu Margherita Frassini coniugata Sarfatti. Donna Rachele,
invece, fu solo la sposa di Benito. Quando capitò il cortocircuito -
lui in ospedale, ferito in guerra - la signora Mussolini, al
capezzale, all’arrivo della Sarfatti si alzò e rovinò in un
ruggito: “Vado io a ricevere questa tua moglie”. È una che nasce
ogni mattina, Sarfatti, La regina dell’arte nell’Italia
fascista, come recita il titolo del saggio di Rachele Ferrario,
critica d’arte (edizioni Mondadori). Non ha la corona in testa, ha
l’allure. E in quel DUX - il best seller di Sarfatti,
pubblicato negli Usa, e che fece del Capo del Fascismo una celebrità
mondiale - non fu solo l’autrice ma la protagonista.
Le pagine del libro - un
successo ovunque, tradotto perfino in giapponese e in turco - sono
più l’autobiografia di lei che l’agiografia di lui. E la storia
d’amore che ne traspare, con gli occhi di oggi, diventa presagio di
tragedia e solitudine. Il destino proprio “degli esseri che si
concludono in un fallimento”. Lei è veneziana ed è ebrea. E la
più internazionale tra gli italiani e ama un uomo che così dice di
se stesso: “Sono in cerca del buon senso. E voglio ucciderlo”.
Lui - figlio del fabbro, dagli occhiacci rivoluzionari - ama una
donna la cui brama ultima, vergata nel testamento, è risolta in una
sola richiesta: un pugnale che possa, confermandola nella morte,
trafiggerle il cuore prima di essere sepolta.
Alta, sottile, collo di
cigno, abito azzurro chiaro e mantello di ermellino Margherita è
quella che Irene Brin - la più charmant tra le firme del
giornalismo - descrive nella “bellezza candida e dorata trionfante
sul finire del secolo scorso”. Lui - magro, contadino, testa calda
- per dirla con le parole di Anna Kuliscioff, anarchica e fondatrice
del partito socialista, “l’è un poetino che ha letto Nietzsche”.
Sarà Cesare Sarfatti, il
marito di lei, ad accorgersi della qualità speciale di quel
rivoluzionario di Predappio: “Segnati questo Mussolini”, scrive
in un biglietto a Margherita, “sarà il prossimo uomo”. Lui
diventerà Mussolini grazie a lei. Sarà, infatti, Margherita, il
pigmalione del fondatore del fascismo. Gli insegnerà il mondo,
l’arte e la disinvoltura in un’epoca dove il pappagallo sul pugno
della marchesa Luisa Casati, acconciata da Léon Bakst, va a
concludersi in trincea (non senza avere avuto, a modo di sipario, un
ventaglio di lunghe piume d’aquila).
Sarà lei, nel frattempo
che donna Rachele resterà socialista, ad accompagnarlo verso il
fascismo e sarà di certo lei - e Ferrario lo spiega bene in questo
libro - a imporre la novità ideologica nella fornace novecentesca.
Quel che per il comunismo è l’utopia - il compimento della
dittatura del proletariato - per il fascismo, come atto
rivoluzionario, è l’avanguardia.
Il “piccolo mondo
antico” (Antonio Fogazzaro è una figura centrale della formazione
di Margherita) diventa la “grande metropoli contemporanea” ed è
lei a essere presente quando il 31 ottobre 1932, a Roma, Guglielmo
Marconi, schiacciando un pulsante, accende di luce la gigantesca
statua del Cristo nella baia di Rio de Janeiro.
E sarà lei, ebrea, a
vivere per intero la tragedia della guerra. Perseguitata pure lei
quando ancora - separati dal loro stesso destino, “tutto passa” -
a lui dirà ancora: “Grazie, amore, di quella tristezza”.
Il Fatto quotidiano, 4 novembre 2015
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