Giacomo Ciamician (1857 - 1922. Triestino di nascita e armeno di origine, Ciamician fu Professore di Chimica nelle Università di Padova e Bologna. |
Parafrasando Margaret
Thatcher che si riferiva alla società, agli uomini e alle donne, si
potrebbe affermare che non esiste una cosa chiamata «comunità
scientifica», ma solo ricercatori e ricercatrici. È questa
l’immagine restituita dalla lettura di due libri pubblicati da poco
e vicini anche per l’oggetto trattato. Il primo ha per titolo Al
servizio del Reich. Come la fisica vendette l’anima a Hitler e
lo ha scritto per Einaudi Philip Ball, uno dei più noti divulgatori
scientifici anglosassoni, grazie alla traduzione di Daniele A.
Gewurz. Il secondo è La scienza in trincea. Gli scienziati
italiani nella prima guerra mondiale, pubblicato dallo storico
della scienza Angelo Guerraggio per l’editore Raffaello Cortina.
Come il lettore avrà
capito, entrambi gli autori analizzano come gli scienziati se la
siano cavata in due momenti storici piuttosto problematici, in cui il
concetto di «comunità» è stato messo duramente alla prova. Nel
farlo, ci costringono a riconsiderare alcuni luoghi comuni piuttosto
radicati sulla ricerca e sui ricercatori.
La rete che
ingabbia
Per esempio, secondo
un’opinione diffusa gli scienziati sarebbero immuni dai
particolarismi che agitano le esistenze di noialtri incompetenti.
Eppure, nella prima metà del Novecento il nazionalismo obnubilò
anche le menti più brillanti, dividendo studiosi abituati fin lì a
collaborare. Cervelli visionari capaci di vertiginose rivoluzioni
scientifiche, infatti, non mostrarono anticorpi efficaci contro la
propaganda di governo.
Lo testimonia l’adesione
dei numerosi premi Nobel al manifesto Fulda (dal nome del suo
estensore), con cui 93 intellettuali tedeschi difesero l’invasione
del Belgio del 1914 negando atrocità già ammesse dagli stessi
militari. Spiccò per la sua assenza la firma di Albert Einstein
mentre un altro gigante, Max Planck, non fece mancare la sua (poi se
la rimangiò). Sulla sponda opposta, l’interventismo anti-tedesco
coinvolse matematici, fisici e chimici italiani, che in pochissimi
mesi seppero convertirsi all’ideologia della «guerra giusta»
(concetto più vecchio di quanto si pensi, osserva Guerraggio) contro
una nazione alleata. Il più influente fu il matematico Vito
Volterra, uno degli studiosi italiani più noti all’estero, che
rinnegò in pochi mesi il suo neutralismo e le sue collaborazioni
internazionali per arruolarsi all’istituto militare di aeronautica,
dove poté mettere a frutto le sue conoscenze fisiche e matematiche.
Uomo fin lì moderato, Volterra usò toni da scontro di civiltà
contro i tedeschi, «i nuovi barbari la cui condotta ricorda le
invasioni di altri tempi».
Insieme a lui si
arruolarono scienziati di ogni orientamento politico. Picone, Severi,
Fubini, Garbasso diedero un importante contributo alle scienze
balistiche nel campo dell’artiglieria; Pesci, Ciamician e Paternò
si dedicarono ai gas asfissianti e alle loro contro-misure; Molinari
e Corbino lavorarono al settore esplosivi.
Il nazionalismo
conformista della prima guerra mondiale non è un caso isolato. Due
decenni dopo, scrive Ball, gli eccellenti fisici tedesci furono
altrettanto diligenti nell’applicare le leggi razziali ai danni di
colleghi ebrei. Tra le vittime delle leggi naziste figurarono anche
Fulda e Fritz Haber, il mago delle armi chimiche durante la Grande
Guerra. Il decreto di espulsione di Albert Einstein dall’Accademia
delle Scienze tedesca fu firmato da Max Planck, una volta ancora
incapace di sottrarsi alle richieste del potere politico.
Un altro mito da sfatare
riguarda il rapporto tra la ricerca e la guerra. Si è portati a
credere che in un paese in conflitto rimanga poco spazio per la
ricerca scientifica priva di un’immediata applicazione militare.
Che scienza e guerra, cioè, non vadano d’accordo.
L’esperienza delle
guerre mondiali contraddice questa opinione diffusa. Gli scienziati
seppero trarre vantaggio dallo stato di eccezione provocato dai
conflitti e sfruttarono gli eventi per ottenere finanziamenti o dar
vita a organizzazioni scientifiche nazionali. Durante il nazismo, i
fisici riuscirono a sviluppare ricerche che con le armi avevano poco
a che fare, convincendo i gerarchi che, grazie a quelle scoperte, la
Germania avrebbe potuto vincere la guerra.
I finanziamenti destinati
alla Kaiser Wilhelm Gesellshaft (KWG, la principale organizzazione
scientifica tedesca) salirono così da 5 a 14 milioni di marchi tra
il 1932 e il 1944. Le parole di Peter Debye, direttore della sezione
di Fisica della KWG durante il nazismo, sono eloquenti: «Lo slogan
ufficiale del governo era 'dobbiamo utilizzare la fisica per la
guerra'. Noi lo rovesciammo in 'dobbiamo sfruttare la guerra per la
fisica'».
Non fu molto diversa la
strategia con cui Vito Volterra riuscì a far nascere il Consiglio
Nazionale delle Ricerche (Cnr). Dall’esperienza bellica erano già
nate istituzioni come il National Research Council statunitense e il
Department of Scientific and Industrial Research inglese (entrambi
fondati nel 1916), e Volterra capì che il momento era propizio anche
per dare alla ricerca italiana un’organizzazione nazionale.
Con un paradosso solo
apparente, la pace rallentò i suoi progetti, che tuttavia furono
realizzati non appena la situazione politica si fece di nuovo
«eccezionale»: la fondazione del Cnr fu promulgata dal governo
Mussolini nel 1923, e dal 1924 Volterra ne divenne presidente.
Guerraggio conclude che tra militari e scienziati il rapporto sia
circolare: «La scienza aiuta i militari a vincere le guerre, ma è
vero anche il contrario. L’esperienza vissuta tra il 1914 e il 1918
ha aiutato la scienza a trovare forme organizzative più adeguate».
Coscienza ed
esplosivi
Altra balla: il compito
dello scienziato è far progredire la conoscenza, e solo di questo
può essere giudicato responsabile; mescolare giudizi di valore ai
giudizi di fatto non rende un buon servizio alla scienza. Con questo
luogo comune in testa, ad esempio, i chimici italiani non videro
contraddizione tra il pacifismo delle opinioni e l’impegno
militare. Ettore Molinari, anarchico e membro fondatore della II
Internazionale, finì per lavorare alla Sipe di Cengio, l’azienda
che produceva la metà degli esplosivi usati in guerra.
Nel frattempo, scriveva
articoli contro un capitalismo che «per risolvere delle volgari
contese economiche, non ha saputo escogitare altro sistema che quello
della guerra». Secondo Guerraggio, «la risposta suggerita
dall’atteggiamento è che si possono mantenere idee molto critiche
nei riguardi della guerra ma queste non possono arrivare a
coinvolgere l’aspetto professionale, come se i due ambiti fossero
separati da un fossato».
Analoga fu
l’autoassoluzione di molti fisici tedeschi per la passività nei
confronti del Reich: Heisenberg e camerati dopo la guerra si
dichiararono «apolitici», ritenendo che non fosse loro compito
schierarsi pro o contro un regime politico. «Secondo Heisenberg, i
fisici che aderirono con più entusiasmo al programma
nazionalsocialista furono quelli meno competenti» scrive Ball,
dimostrando come essi tentassero di scaricare sui colleghi meno
brillanti le colpe del disastro. In realtà, fu proprio questa
ostentata distanza dalle cose del mondo a rendere i migliori fisici
tedeschi perfettamente funzionali ai progetti nazisti: un bravo
scienziato nazista non doveva necessariamente sostenere il partito,
ma rinunciava al diritto di criticarlo, come invece fece Einstein.
Una tesi simile fu
avanzata anche nel campo statunitense per difendere l’operato dei
fisici nucleari dopo Hiroshima: «è necessario che gli scienziati
siano liberati dai vincoli morali o sociali», scrisse Percy Bridgman
nel 1948 sul Bulletin of the Atomic Scientists. Ball vi
intravede una tendenza generale: «il comportamento dei fisici
tedeschi sotto il nazismo non fu un’aberrazione dovuta a
circostanze estreme ma un esempio tipico di come scienza e politica
interagiscono».
L’ultimo luogo comune è
proprio che quanto accadde nelle guerre mondiali sia irripetibile. In
effetti molto è cambiato, ma il rapporto tra scienziati e potere
politico permane stretto. Lo dimostra il fatto che sviluppo
scientifico e apparato militare in molti paesi occidentali (Stati
Uniti e Israele su tutti) vadano a braccetto. Anzi, la
globalizzazione economica e le politiche di austerity in
qualche caso hanno rafforzato questa alleanza, in quanto la sicurezza
nazionale rappresenta un grimaldello per sbloccare fondi per la
ricerca di base nel campo dell’informatica, della climatologia e
persino della biologia. Ad esempio, sono bastate pochissime bustine
di antrace per convincere il governo statunitense a finanziare il
programma «Bioshield» (scudo biologico) nel 2004 per
rafforzare le difese contro il bioterrorismo.
I sei miliardi di dollari
investiti, in realtà, sono serviti anche a rilanciare la ricerca nel
campo dei vaccini delle aziende farmaceutiche, il cui tasso di
innovazione negli ultimi decenni è stato frenato da strategie
imprenditoriali più attente al marketing e alla Borsa che
all’efficacia terapeutica. Le astuzie raccontate da Heisenberg e
Debye, quindi, sono state promosse a politiche industriali nazionali
e il mercato si è inserito tra scienza e potere. La gara a chi è
più furbo è appena iniziata.
“il manifesto”, 7
luglio 2015
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