“La mia vita vorrei
scriverla cantando; ma ho la chitarra scordate e la voce catarrosa”.
Così inizia la breve e intensa scrittura autobiografica che apre La
paglia bruciata, uno dei più
bei libri di Ignazio Buttitta (1899 - 1997), il poeta di Bagheria,
forse il maggiore del Novecento nella lingua siciliana. Vi si
raccontano soprattutto frammenti di adolescenza e di giovinezza, del
tempo in cui Buttitta aiutava il padre al banco della salumeria: la
scoperta del sesso e l'amore per le donne, l'esperienza della
ingiustizia sociale e della guerra. Ne riprendo qui le pagine
conclusive. (S.L.L.)
IGNAZIO BUTTITTA, IL POETA IN PIAZZA |
Le prime scoperte le feci
da fanciullo senza scuole e senza insegnamenti. Non criticavo, non
approfondivo, ma restavano a maturare nella mia mente. Quando mio
padre mi diceva: chi ha pietà degli altri dà le proprie carni ai
cani, io non capivo il significato di quelle parole. Diceva pure:
sono rimasto orfano e nessuno mi diede mai un pezzo di pane. Mi
cresceva con il fiato mia madre. Era analfabeta mio padre; ed io ho
capito dopo, che il patimento distorce i sentimenti ed abbrutisce
l'uomo.
L'ingiustizia la scoprivo
nelle facce dei poveri, nei piedi nudi dei bambini, nelle condizioni
dei braccianti che partivano all'alba con una cipolla e un pezzo di
pane, e tornavano a sera strascinando i piedi. Ricordo: entrò in
bottega un uomo e mi chiese una cassetta vuota. Non lo guardai in
faccia: me ne sarei accorto; lo vidi poi passare con la cassetta in
testa, portava al cimitero una bambina. Il padre era lui: un morto
che accompagnava una morta.
Fu cosi che cominciai ad
amare chi soffre, ma non era ancora il socialismo.
La guerra la feci senza
capirne il significato. Sul Piave, giocavo, lanciavo pietre sul
fiume: le facevo rimbalzare sul filo dell'acqua. Sul Piave, ho
sparato. Ho qui sul tavolo i ricordi di un nemico ucciso: la
fotografia e le lettere della madre. Glieli tolsi dalla tasca senza
rimorso e con odio. Era piccolo come me, mi somigliava; col tempo
somigliò ai miei figli; ora ai miei nipoti. Lo vedo disteso
sull'argine del Piave preciso come prima. Più bello di prima! Io
sono diventato vecchio, lui no.
Scrivo con amarezza, e
non vorrei aprire le mani per non perdere la speranza. Andrò più
tardi a trovare i miei amici, uno è Mario, il pazzo deluso per
amore. È li nella piazza ad aspettarmi, seduto al bar, con il
berretto sugli occhi. L'altro amico è un cane. Lo chiamano il cane
dei morti. Gira il paese da un punto all'altro in cerca di pane
muffito e di avanzi di cucina; ma se sente le campane suonare il
mortorio, lascia l'osso da spolpare e corre ad accompagnare il morto.
Segue il funerale a testa bassa, addolorato, e piange come piangono i
cani. Lo stesso fa Mario, il pazzo deluso per amore. E se manca
all'accompagnamento un figlio o una figlia del morto, si fa figlio e
figlia, e li chiama, accorato, mutando voce ed accento: padre, madre,
per ingannare il morto.
Da
La paglia bruciata,
Feltrinelli, 1968
Nessun commento:
Posta un commento