Nel mio dialetto nativo
(Campobello di Licata) “scattïari” è
un verbo derivato da “scattari” (schiattare,
esplodere). L'aggiunta della i allungata
dalla dieresi equivale al suffisso -eggi della
lingua italiana (“passari”
= passare; “passïari”
= passeggiare), intensivo e/o
iterativo. “Scattïari” può essere usato transitivamente e, più
di rado, intransitivamente. In tutti e due i casi quel che il verbo
sottolinea è l'estrema rapidità dell'azione. Per esempio il
significato dell'espressione “scattïà comu un furgaru”
può essere, a seconda del contesto, “scattò veloce come un
mortaretto” (per indicare un uomo, un sorcio o un altro animale che
scappa via a tutta velocità) o “esplose come una folgore” (a
segnalare un irrefrenabile scatto d'ira). Più spesso il verbo è
usato transitivamente: “scattïari 'na timpulata”
equivale a “mollare un ceffone di scatto”. C'è in questo uso una
sfumatura di significato rispetto a “cafuddrari”,
che fa riferimento alla forza d'urto e talora implica la preparazione
del colpo. Un “cazzuottu
cafuddratu” può
essere molto più doloroso di uno “scattïatu”.
“Scattïari” ha
peraltro una curiosa funzione eufemistica. Nel turpiloquio paesano
(un tempo il turpiloquio era linguaggio da taverna, cortile o
ballatoio, non da tv o da “social”) c'erano diverse gradazioni.
Per mandare qualcuno davvero al diavolo al blando “vafanculu”
si preferiva un feroce Va
fattilla ficcari 'nculu, con
quel riferimento all'organo sessuale maschile che in Sicilia era più
spesso designato con nome femminile. Ma si poteva all'occorrenza
usare un'espressione egualmente pittoresca, ma meno oscena, “Va
fattilla scattïari 'nsacchetta”:
la “sacchetta”
(saccoccia, tasca) non è il retto e il rapido “scattïari”
non produce le lacerazioni della penetrazione.
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