Le boccate di
Sereni lunghe e meditate come i suoi versi, il fumo enigmatico di
Vittorini, l'endecasillabo di Pintor, le Macedonia di Bilenchi, le
dita gialle di Eugenio Montale...
“Scrivo fumando senza
tregua” è un endecasillabo bellissimo e l'ha scritto una volta sul
“manifesto” Luigi Pintor. Oggi ritenuto politicamente scorretto e
indifendibile, il fumo rimane tuttavia nella letteratura italiana
un'insegna del secolo che ci sta alle spalle. Fumava Giovanni Papini,
da matti, e affumicava insieme con le lenti a culo di bicchiere tante
pagine del proprio magistero reazionario, come fumavano, e sapevano
di fumo e nebbia i loro personaggi, gli scrittori anni Trenta della
fronda antifascista, ad esempio Pavese, che nel fumo incubava enigmi
esistenziali, anzi li ruminava in un silenzio spasmodico, e poi
l'Elio Vittorini di Uomini e no, le cui nazionali sapevano in
sogno d'arancia e limone, e infine Romano Bilenchi, un nostro
compagno che dietro al fumo delle Nazionali strizzava gli occhi per
pensare meglio, per alleviare ulteriormente la pagina, per indovinare
un interlocutore più fraterno.
Fumo e cenere, in
allegoria, stanno dentro i testi della grande tradizione poetica, da
Eugenio Montale che ne aveva le dita gialle e corrose, a Vittorio
Sereni le cui boccate prima che smettesse somigliavano ai suoi versi
lunghi e meditati, quasi sospirati.
Umberto Saba fumava la
pipa, volentieri morsicandola e peraltro inebriandosi di fumo altrui
nelle vecchie osterie, Giorgio Caproni tirò a lungo dalle vecchie
Macedonia ma nessuno forse ha fumato tante sigarette quante ne ha
fumate Edoardo Sanguineti nel tempo che passa tra i suoi libri
apicali, Laborintus ('56) e Postkarten ('78).
Due sono, comunque, e
antipodi, gli emblemi novecenteschi del fumo: da un lato quello
iscritto nel celeberrimo capitolo terzo della Coscienza di Zeno
('23) di Italo Svevo, sinonimo di coazione a ripetere e
inettitudine, mite schiavismo accettato alla stregua di una fatale
irresolutezza (perchè Zeno proclama di liberarsene nel momento in
cui più disarmatamene vi soccombe).
Dall'altro le sigarette
povere, carta e foglie le quali arrotolano tabacco grezzo, che fumano
i partigiani di Beppe Fenoglio, prima durante e dopo ogni loro
azione, vale a dire i Milton, i Nord, i Johnny: non c'è foto
superstite di Beppe Fenoglio in cui manchi la sigaretta al lato della
bocca, simbolo stesso del meditare e intarsiare la prosa (e lui
proprio di tale doppio accanimento morirà quarantenne) così come
non c'è sequenza del suo grande ciclo epico che non preveda il
fumare alla maniera di una cadenza esistenziale, e di una necessaria
introversione.
Nemmeno questo può
essere un caso, in definitiva: pochi rammentano infatti che il secolo
da noi si era aperto con un libro all'insegna del buffo, Il codice
di Perelà (1911), a firma Aldo Palazzeschi, dove appunto
folleggiava un nipote degenere di Zarathustra, l'omino fatto tutto
quanto di fumo. Perelà amava le domande dei semplici e odiava le
risposte dei filistei, era la leggerezza anarchica di contro alla
pesantezza dei poteri costituiti. Dunque rappresentava la mitezza
antipode della brutalità. Nel suo niente era tutto, ovvero (e sia
detto dopo il ben altro fumo di Auschwitz e Hiroshima) avrebbe potuto
esserlo sul serio.
il manifesto, 7 Luglio
2004
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