Sandro Penna |
Forse giova ricordare che
Sandro Penna, di cui alcune interviste ed alcuni intellettuali amici
avevano rivelato la povertà che talora sconfinava nell'indigenza,
morì poco tempo dopo aver ricevuto questa amichevole lettera di
Giacinto Spagnoletti, critico letterario tra i più acuti, il 21
gennaio del 1977. (S.L.L.)
Giacinto Spagnoletti |
26 dicembre 1976
Caro Penna,
leggo il tuo ultimo
straordinario libro di poesie Stranezze (edito da Garzanti),
“stranezze” che mi paiono assolutamente omogenee all’universo
in cui vivi, e perciò del tutto normali, e dopo aver esultato
all'idea che nessuno meglio e più di te ha mantenuto per tanti anni
la medesima grazia e limpidezza di voce, vado a scorrere quasi
distrattamente il risvolto di copertina dove qualcuno ha creduto di
“raccontare” la tua vita. Come mai si commettono ancora di queste
imprudenze? E a vantaggio di chi, mi chiedo. Singolare è il modo - e
più di un tuo amico rimarrà costernato - in cui vengono descritte
le tue tribolazioni di uomo, dall’adolescenza in poi: “Di
famiglia borghese (il padre commerciante sfortunato; la madre un po'
nobile, un po' plebea), non sente fino alla maturità le ristrettezze
economiche che poi si faranno abbastanza vive, più per una sua
completa incapacità di adattamento sociale (addirittura psicologico)
che per reali disavventure. Oggi che il suo carattere sarebbe
divenuto più limpido, per conservare una sua libertà (ormai
obbligatoria) è ugualmente costretto a molte e strane occupazioni”.
Tutto il pezzullo risale a tre anni fa, quando uscì presso il
medesimo editore la tua raccolta di racconti, Un po’ di febbre,
ma allora la cosa passò inosservata. Io stesso recensii questo libro
e non me ne accorsi.
Facciamo finta dunque che
l’idea sia nata appena ieri e che si possa (ma si può?) dar sulla
voce a chi ha pensato di edulcorare in quelle poche righe la magia e
il dolore della tua esistenza. Quante cose rivela l’analisi del
linguaggio! In primo luogo l’anonimo estensore del risvolto ha
ritenuto di farti un piacere distribuendo fra borghesia, nobiltà e
pezzenteria la “condizione” tua e dei tuoi genitori. Come dire
che, per essere così “diverso” il contenuto della tua prosa (e
dei tuoi versi), meglio non far risaltare in modo netto le origini.
La cui chiarezza potrebbe eccitare a chissà quali discorsi
malintenzionati un critico marxista, proponendo insane equazioni. Ad
esempio, un poeta che osa dichiarare (da sempre) l’amore per i
fanciulli correrebbe un serio rischio, se fosse “un po’ plebeo”
come sua madre. Freud e Marx appena da qualche anno timidamente nel
nostro paese si tendono la mano, forse solo da quando Fromm è
intervenuto sul problema, vulgatim, e in economia. Resta il
fatto che lasciare a un poeta come te tutto intatto il sangue
borghese con un cucchiaino di aristocratico liquore ben sciolto
risponde meglio al canone tradizionale che si perde nella notte dei
secoli, sino ad Anacreonte e oltre. Da questi borghesi, che hanno una
madre “un po’ nobile”, c’è da aspettarsi di tutto. Difatti,
lo ricordavamo oggi Bassani ed io, di fronte a una società qual è
la nostra, il povero Pasolini si è vergognato sempre delle sue
propensioni sessuali; e la televisione italiana lo remunera da morto,
mostrando alle famiglie insonnolite delle ore ventitré poetiche
immagini del Friuli, interrogando quanti lo conobbero da ragazzo,
politici e non politici (chi ricordava però che fu cacciato dal P.C.
e dal suo paese?), e soprattutto leggendo lettere inedite, in cui il
poeta parla di ragazze, di feste campagnole, di stupendi balli al
tramonto, eccetera eccetera.
Veniamo ora alla parte
sostanziale del pezzullo. C’è scritto che tu non hai sentito sino
alla maturità (parola vaga che non vuol indicare un’età precisa,
se Rimbaud a sedici anni era perfettamente maturo) “le ristrettezze
economiche che poi si faranno abbastanza vive”. Benedetto Iddio,
adesso cominciamo a ragionare, sono in ballo le ristrettezze; e chi
ti conosce sa di che si tratta; ma un po’ di dolce in bocca a chi
compra il libro (ignaro) occorre pur lasciarlo, ed ecco
quell’“abbastanza”, capolavoro di finezza editoriale, perché
anche i più scalcinati linguisti non ignorano che “abbastanza”
preposto a “vive” toglie invece di aggiungere. Tutto sommato,
insinua il nostro bravo estensore, è naturale che un poeta, giacché
ha avuto in sorte un padre “commerciante sfortunato”, debba
soffrire sino alla maturità (?) di qualche ristrettezza. Anche a
Svevo, anche al Belli capitò quella sorte, e a chissà quanti
altri... Però, attenzione, qui si desidera andare più a fondo: un
po’ di colpa possiamo darla alla famiglia, ma la cosa non sarebbe
stata così grave se il poeta non si fosse dimostrato così
disadattato. Adesso bisogna rivelare di quale disadattamento
soffrisse. Ci risiamo con Marx e Freud. Disadattamento sociale o
psicologico? Il nostro editorialista ha qualche esitazione, infine,
che male c’è, si risolve per tutti e due. Solo che aggiunge un
“addirittura”, che francamente, tu mi intendi, caro Penna, è
inspiegabile. Perché “addirittura”? Se fossi in te, vorrei avere
ragione di questo sopruso. Un linguista lo giudicherebbe un lapsus
semantico, un sottile, esilissimo insulto di chi è incapace di
offendere. Un giudice forse deciderebbe per un’escussione di testi,
come usa. E di teste in teste, risalirebbe alla fonte dei tuoi guai,
che la poesia svela ma che la giustizia non capirà mai.
Alla fine, l’affanno
dell’estensore sembra sciogliersi. Tant’è dir le cose come
stanno: Penna vere e proprie disavventure non ne ha mai avute. Quelle
“ristrettezze” sono passate come acqua sulla sua pelle. Di che
cosa lamentarsi nelle sue interviste? (cfr. “Tempo”, 28 novembre
’76). E c’è di più: “Oggi che il suo carattere sarebbe
divenuto più limpido (altre sfumature, altre ambiguità
editoriali..., badate a quel condizionale, chi lo sa, forse i critici
pensano il contrario, e difatti Garboli, eccezionale critico di
Penna, è proprio su questa linea), per conservare una sua
libertà...”. Occorre interrompersi un momento, ora siamo di fronte
al vero ostacolo: dunque, per conservare una sua libertà...
l’estensore della nota ha dei dubbi, deve pur uscirne, di quale
libertà si tratta?, politica, morale, religiosa, sessuale, ah troppo
troppo difficile scavare nell’animo di un poeta, e allora... altro
casus ahimè gravissimo, richiudo in parentesi e ci metto “ormai
obbligatoria’’, tanto chi andrà a investigare fra libertà e
libertà, basterà che sia... obbligatoria, e siamo già alla follia,
lo riconosco, ma ormai è fatta, bisogna dire altro. Soprattutto
bisogna aggiungere che il poeta è “ugualmente costretto a molte
strane occupazioni”.
Carissimo Penna, poeta
fra i rarissimi da stimare oggi sul nostro pianeta, hai davvero
ragione di lamentarti: ma non tanto di ciò che affermi nelle tue
interviste, bensì di quello che ti fanno a tua insaputa. Sono
convinto che pochi resisterebbero a certe insinuazioni. Che cosa ti
tiene tanto stranamente occupato, notte e giorno? I mali di cui
soffri, l’ingratitudine umana, la poesia, il ricordo del passato,
il nero vuoto spirituale che ci avviluppa, i quadri che vorresti
vendere, le telefonate a cui non sai rinunciare, la notte che è più
brutta del giorno, il giorno che è più orrendo della notte? Questi
interrogativi si riferiscono a qualcosa, ma non sono “strane”
occupazioni: appartengono a te, al tuo dolcissimo selvaggio amor
della vita. “Il mondo mi pareva un chiaro sogno, / la vita d’ogni
giorno una leggenda”. Appunto. Scusami questa tiritera, e ricevi un
affettuoso saluto dal tuo
Giacinto Spagnoletti
“Poesia”,
Anno XIII n.138, Aprile 2000
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