Zdanov |
Successe in agosto, io
ero in vacanza a Komarovo, dove molti scrittori avevano una dacia e
trascorrevano l'estate. Il quattordici o il sedici, non ricordo,
arrivarono dei pullman con l'ordine di portarci subito tutti a
Leningrado, all'Unione Scrittori. Non ci fu data altra spiegazione.
Quando giungemmo a destinazione, ci fu comunicato che nel pomeriggio
si sarebbe tenuta una riunione allo Smol'nyj alla quale dovevamo
partecipare tutti. Quando arrivammo là, vedemmo che c'erano soldati
all'ingresso e facevano entrare solo chi aveva il lasciapassare. Da
qualcuno avevo sentito dire che Zoscenko era in città, ma che non
sarebbe venuto, che per lui non c'era lasciapassare e che non c'era
neppure per Anna Achmatova. In quel momento ciò mi risultava ancora
incomprensibile, ma non vi prestai molta attenzione. All'interno del
palazzo c'era una folla enorme: in mezzo alla gente vidi una mia
conoscente, una vecchia comunista, scrittrice molto mediocre, ma
donna onesta, leale. Io sapevo che i comunisti avevano già tenuto
una riunione in precedenza, perciò mi avvicinai a lei e le domandai
perché eravamo stati convocati. "Ha parlato Zdanov", mi
rispose. "E che cosa ha detto?" "Sentirai",
rispose con espressione tetra, molto tetra. "Ma di cosa ha
parlato?" "Zoscenko e Achmatova". "E come ne ha
parlato?" "Male, molto male". E io, pensando di fare
una battuta, dissi scherzando: "Ne ha parlato così male che tu
non ti sederesti più accanto a Zoscenko?" E lei: "Sì, non
mi sederei". Ero sempre più sconcertato. Finalmente ci fecero
entrare in quella grande sala che contiene varie centinaia di
persone, e sul palco c'era una tribuna con lo stemma dell'Urss e un
tavolo dove sedevano burocrati del partito e dell'Unione Scrittori.
Poi comparve sul palco Zdanov, corpulento, sbarbato, con un abito
elegante, tenendo in mano una pila di libri dai quali spuntavano dei
segni, li gettò sulla tribuna e cominciò a parlare, senza leggere,
camminando su e giù con fare adirato. La sua relazione produsse su
di me un'impressione inimmaginabile, e non solo su di me. E non solo
e non tanto per la sua ignoranza letteraria: ciò che soprattutto mi
sconvolse era il suo lessico assolutamente da teppista: rozzo,
ripugnante, peggio che osceno, perché le parole oscene possono anche
non essere offensive, sono un modo per sfogare l'emotività. Lui,
invece, parlando di un intellettuale, di un grande scrittore come
Zoscenko, usava espressioni come "feccia", "nullità",
"teppista", insomma cercava di umiliarlo il più possibile.
E anche sul conto dell'Achmatova usava espressioni del genere. Io mi
guardavo intorno e mi domandavo che cosa stessero pensando coloro che
mi circondavano. Avevo la sensazione che qualcosa stesse
scricchiolando e si stesse spezzando; e non si poteva fare nulla,
solo stare fermi ad ascoltare. Non c'è nulla di più spaventoso
della furia impotente. Tutti sedevano immobili con volti muti. Non si
aveva diritto di reagire. E questo durò a lungo, molto a lungo.
Quando finalmente uscimmo e presi il treno per tornare a Komarovo,
come ho scritto nel Quinto angolo, mi guardavo intorno sul
treno e invidiavo quei viaggiatori, perché ancora non sapevano. E
poi... poi ebbe inizio quello spaventoso latrato: quando gli
scrittori diventano dei lacchè, sono più terribili di una persona
qualunque. Quando uno scrittore svolge il ruolo del lacchè e si
mette a scrivere, e sa scrivere, ciò che egli racconta esercita
un'influenza assai più forte del racconto udito per strada da una
persona qualsiasi.
Lei, anni dopo, fu
presente a un 'altra famosa riunione, al centro della quale c 'era di
nuovo Zoscenko. Che cosa accadde?
Lei si riferisce alla
riunione che si svolse qui a Leningrado nel 1954. dopo la morte di
quel carnefice, quando già si poteva fare, dire qualcosa, e nessuno
disse nulla.. In quell'occasione Zoscenko fu costretto a prendere la
parola, gli dissero che doveva pentirsi pubblicamente per le risposte
antisovietiche che aveva dato a degli studenti inglesi durante
un'intervista. Lui non era d'accordo sul fatto di doversi pentire, ma
poi prese la parola e pronunciò un discorso straziante.
Al termine del quale
lei fu l'unico in tutta la sala ad alzarsi e applaudire. È così?
Sì, è così. E adesso
anche da noi si parla di quel gesto come di un gesto di eroismo. Ma,
vede, non si trattò affatto di eroismo, per una semplicissima
ragione: quando mi misi ad applaudire, io ero convinto che tutta la
sala mi avrebbe assecondato. Ero assolutamente certo che sarebbe
stato così: Zoscenko era così amato, il suo discorso era stato così
accorato e sincero, e io me ne stavo lì in piedi e piangevo, ero
sicuro che tutti avrebbero applaudito insieme a me.
(dall'intervista con
Luciana Montagnani apparsa in appendice alla traduzione italiana di
Il quinto angolo, Einaudi 1991)
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