Gianni Brera, inviato
nell'estate del 1984 alle Olimpiadi per “la Repubblica”, aprì la
serie dei suoi servizi da Los Angeles con il pezzo che segue, un vero
pezzo di bravura. Ma nella citazione di Orazio c'è più di un'imprecisione. A voi individuarle. (S.L.L.)
Dietro Pindaro
c'era già lo sponsor
Giorni di Olimpiade,
giorni sacri, almeno traverso i ricordi. Mentre si consumano immense
pile di retorica, si constata con lieto animo che la XXIII Olimpiade
moderna ricorre nello stesso periodo scelto per celebrare i Giochi
più illustri del mondo classico, fra mietitura e vendemmia. Forse
non sarà la luna piena di agosto ma caldo ne avremo tanto, e voglia
di esaltare noi stessi nei concittadini capaci di vittoria.
Nulla o quasi è mutato
sotto il sole. Dice che la primissima idea olimpica fu di Ifito, re
dell'Elide: si consigliò con Licurgo, re di Sparta, e con lui
addivenne ad un arcano trattato sulla pace, indispensabile per i
Giochi. Ma Pindaro - che per un'ode riscuoteva l'equivalente in
dracme di venti buoi - esalta la leggenda di Pelope, cui era toccata
la bella Ippodamia dopo una rapida e vittoriosa corsa al traguardo.
Pelope aveva piena coscienza del proprio valore e della necessità di
tramandarne la fama. Sotto il suo regno, si organizzarono stabilmente
a Olimpia feste atletiche alle quali si diede alto significato
sacrale. Giove ottimo massimo presiedeva a questa quadriennale
liturgia del muscolo e del coraggio. Una enorme statua del padre
degli dei era firmata da Fidia, che passava allora per lo scultore
greco più celebre, e certamente costava assai, ma la Polis di
Olimpia disponeva di ingenti capitali: la sua sagra mobilitava
l'intero mondo greco, dall'Asia Minore alla Spagna, e costituiva un
affare senza eguali. Gli atleti giungevano un mese prima al villaggio
olimpico e venivano nutriti a spese degli organizzatori. Dietisti non
insensibili alle convenienze raccomandavano fichi e formaggio. Reagì
Pitagora, per altro cadendo in sospetto di omosessualità, e dimostrò
che i suoi atleti compivano miracoli nutrendosi di carne.
Riunioni atletiche
importanti, secondo calendari prefissati, si svolgevano da tempo a
Delfi, Eleusi, Corinto e altrove, e sempre coincidevano con solenni
manifestazioni di culto, ma Olimpia superò ogni altra sede rivale.
Dal 776 avanti Cristo si prese a calcolare il tempo in base al
prestigioso quadriennio olimpico. Il vincitore incoronato a Olimpia
ricavava gloria maggiore che altrove: e Pindaro esaltava la sua
stirpe dopo essersi puntualmente accordato con il regolo o il tiranno
che reggeva la sua Polis. Era un'ode ragionevolmente sublimata da
voli, un minimo di tremila dracme, quando ne bastavano 150 per
acquistare un bue. Al campione olimpico, il dono di una casa in segno
di pubblica riconoscenza: e veniva abbattuto un tratto di mura perché
vi transitasse il suo cocchio trionfale.
Ai primi Giochi olimpici
erano ammessi i soli aristocratici di stirpe greca. Se ne deduce che
anche l' Olimpiade antica era un mezzo per esercitare il potere
politico. In tempo di armi bianche, era il puro muscolo a determinare
le gerarchie sociali: e gli aristocratici dimostravano anche in pace
di essere degni di governare proprio perchè più abili di tutti nel
mimare la guerra (giavellotto, peso, disco, salto, lotta, pugilato,
corsa breve e corsa lunga, guida del cocchio). Quando la civiltà fu
abbastanza progredita da assicurare il potere de lege, gli
aristocratici consentirono finalmente ai borghesi il privilegio di
sacrificarsi per la gloria della polis natia: e questi,
forzatamente meno esclusivi, cercarono gli elementi migliori anche
fra il popolo, ma il ciabattino Callistrato (o chi per lui) pretese
immediati indennizzi alla perdita di tempo quotidiana: così nacque
il professionismo.
Platone fa dire orribili
cose a Socrate, dichiarato nemico dei rozzi muscolati a pagamento:
era anch'egli un aristocratico e disprezzava chi dalla proprio
eccellenza fisica pretendeva guadagni materiali; così Aristofane,
che certo non scriveva per suo vantaggio esclusivo. Era questo, a
pensarci, un modo abbastanza ipocrita di ignorare la realtà delle
cose. L'Olimpiade costituiva un affare ingente, e assicurava gloria a
chi ne dilatava la fama con degne imprese agonistiche. Intorno allo
stadio e all'ippodromo sorgevano alberghi di lusso e tendopoli
riservate a turisti agiati di tutto il mondo mediterraneo.
Le donne non erano
ammesse fra gli spettatori ma attendevano i loro uomini dove era
subito possibile rifarsi di ogni desiderio represso. Curiosa gente i
greci!: non volevano che gli imponenti atleti, gareggiando del tutto
nudi, li facessero scomparire agli occhi delle loro donne ma poi
consentivano alle Polis di eternare con statue l' immagine dei
migliori campioni. O forse era sancito de jure che neanche le
statue umiliassero al paragone? Esercitare l'eros non costituiva
peccato nella fortunata Grecia degli dèi olimpici, però è vero che
la pars genitalis di atleti e guerrieri scolpiti nel marmo o
plasmati nel bronzo non mortificava nessuno (e così testimoniano
ancora oggi i microfallici guerrieri di Riace).
A quali livelli tecnici
si gareggiasse negli stadi di Olimpia non possiamo onestamente sapere
nè valutare oggi. È pensabile che l'etnos greco non esprimesse
fenomeni lontanamente paragonabili a quelli odierni. Il gigantesco
Milone di Crotone sollevava ogni giorno una vacca per allenarsi, ma
si sa (ora) che la forza non significa potenza se non in ragione
della velocità del gesto con cui la si esprime. Per contro, torna
spontaneo ammirare i guidatori di cocchio. Li ricorda Orazio nella
dedica delle Odi a Mecenate (sunt quos curriculo pulverem
olympicam - collegisse juvat, metaque fervidis vitata rotis: c' è
qualcuno cui piace aver raccolto polvere olimpica, ed evitata la meta
con ruote infuocate...). Non si capisce quindi il disprezzo di cui
venne coperto Nerone per aver gareggiato all'Olimpiade. Anche i suoi
assalti venivano sollecitati al calor bianco, anche la sua fragile
biga poteva rovesciarsi: evidentemente, il gesto atletico era andato
perdendo gloria con l'avvento del Cristianesimo: il corpo, nobilmente
esaltato dagli ideali callistenici dei greci, diventava la volgare
prigione dell'anima: però, un imperatore che rischia la vita per un
serto di olivo selvatico meriterebbe maggiore stima! Qualcosa sfugge
sempre all' esame della storia.
Aveva ragione il povero
Vittorio G. Rossi: a petto di certe fandonie seriosamente diffuse
oggi a livello politico acquista fondamento plausibile l'unione del
dio Marte con l'ingenua Rea Silvia, che al suo seduttore immortale
diede i gemelli Romolo e Remo. Le pile di retorica bruciata sui
ruderi sublimi di Olimpia invitano a non minore scetticismo.
Carletto Uboldi, il maratoneta rifiutato |
Gli inglesi avevano
appena reinventato lo sport quando un pedagogista francese a nome
Pierre de Coubertin propose astrusamente di rendere vana per sempre
la insopportabile tracotanza dei vincitori di guerre (era appena
caduto Napoleone III a Sèdan). La sua riesumazione di Olimpia era
patetica molto ma i perfidi inglesi vi si risentirono. I francesi
umiliati, e quanto rudemente!, gli stavano ancora bene: e i prussiani
erano alleati in omaggio al comune sangue sassone e al balance of
power. Non solo: ma lo sport moderno doveva considerarsi tipica
ed esclusiva invenzione inglese, come il telaio meccanico, la nave di
ferro, la vaporiera, il treno, il preservativo ed il francobollo
postale. Che un pappagallo di pedagogista francioso vagheggiasse così
capziose conseguenze per una semplice riunione di sport agonistico
era a dir poco madornale. Il resto del mondo non fu comunque
insensibile al ripristino dell'idea olimpica e gli inglesi vi si
dovettero acconciare a proprio dispetto.
Era perfino rappresentata
l'Italia, quella povera, triste Italia, nel primissimo Comitato
Olimpico: vi figuravano infatti due personaggi così nobili da far
pensare che sentissero puzza sotto il naso. E non peraltro
rimandarono a casa da Atene il solo atleta italiano intenzionato a
gareggiare nella prima Olimpiade moderna (1896): si chiamava Carletto
Uboldi, era un tipografo milanese: arrivò di corsa in Ellade per
allenarsi alla maratona - via Trieste, Ragusa, Skopje - ma gli
incorrotti ellanodici italioti gli rinfacciarono subito di avere
vergognosamente intascato 2 lire - diconsi 2 lire - dopo la
vittoriosa traversata podistica di Corsico. Contaminato in modo così
irreparabile, altro non poteva il Carletto che rientrare: e lo fece
da quel poveraccio che era, ma non trovò un cane in Italia che
osasse criticare simile insulsa fiammata di perbenismo olimpico. La
maratona dedicata a Filippide fu poi vinta da un coraggioso
pastorello greco; il lancio del disco toccò a un americano che fece
scompisciare tutti nel vano tentativo di adeguarsi alle impossibili
mosse eternate da Mirone.
L'Olimpiade emigrò
subito dopo a Parigi (1900) e infine a Saint Louis (1904) dove toccò
abissali vertici di grottesco. Pierre de Coubertin ne fu tanto
sdegnato da implorare che Roma desse nuova sacralità ai riti
malamente profanati in Usa. Perfino Vittorio Emanuele III,
famosissimo avaro, cacciò 50 mila lire per la bisogna: ma il
senatore Angelo Mosso richiamò il paese a una più realistica
visione della propria situazione sociale e culturale. Se la lontana e
aclassica Saint Louis aveva inteso celebrare il grottesco,
sicuramente Roma avrebbe celebrato l'amara velleità del comico
involontario. A Roma si mungevano ancora le capre sotto i portoni
delle case civili. In tutta Italia ci si nutriva ai limiti della
sopravvivenza. Cinque milioni di noi erano arcadi immondi:
trentacinque milioni, analfabeti puri. Il plus-calore e lo sport non
si accordavano ancora: e senza tale accordo il muscolo bruto non
avrebbe avuto un senso neppure davanti al rinnovato altare di Fidia.
Angelo Mosso aveva scritto libri sulla fatica tradotti in tutto il
mondo: sapeva aprire gli occhi sull'Italia e vedere quanto era giusto
vedesse un medico degno di questo nome.
La terza fiamma olimpica
venne accesa a Londra, prestigiosa culla del nuovo sport agonistico,
nell'anno di scarsa grazia 1908. A Roma, la avrebbe alimentata il
gasolio dopo qualcosa come cinquantadue anni (1960). Nuovi colossei
sarebbero stati costruiti per l' occasione. Un fondista inglese
malamente battuto sui 10.000 nella afosa Roma di settembre avrebbe
esclamato con subdola insolenza: "Avrete mie notizie quando ci
rivedremo in Europa!". Né vuol essere meglio a Los Angeles
sotto la greve luna di agosto: ma importa che ancor oggi gli uomini
sognino di vincere senza spargere sangue. La cosa, del tutto
impossibile in sé, nobilita il nostro mal comune, la vita.
“la Repubblica”,18
luglio 1984
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