Gandhi |
La discussione pro e
contro la «non violenza» e il «pacifismo integrale» ha tutto
l'aspetto del falso problema.
È ben noto che la
vicenda della liberazione umana è un costante intreccio di violenza
e non violenza, un dosaggio che risulta dal concreto equilibrio delle
forze e dalie situazioni politiche, militari, diplomatiche ecc. È
ingenuo separare la «vittoria» di Gandhi in India dalla crisi
dell'impero inglese, dovuta, tra l'altro, alla tremenda guerra
inflitta dal nazifascismo all'Inghilterra. (il che aiuta a capire la
insensibilità di Gandhi sul terreno dell'antifascismo)…
Difficilmente riusciremmo ad immaginarci - in alternativa a ciò che
è effettivamente accaduto - una liberazione «non violenta»
dell'Algeria dalla oppressione coloniale esercitata dalla Francia,
come sperabilmente qualcuno ancora ricorda, con lo «stato di
tortura» (governatore dell'Algeria era allora il socialista Lacost);
e non di meno è innegabile che l'ultima spallata (l'ultima, dopo
anni di durissima lotta armata) al dominio francese venne dalle
pacifiche e imponenti manifestazioni di piazza delle donne algerine,
che proseguirono nonostante le truppe francesi falciassero a
mitragliate i dimostranti: l'efficacia politica e morale di quelle
manifestazioni suicide fu un fattore non secondario nella decisione
gollista di chiudere la partita.
Gli esempi si potrebbero
moltiplicare e mostrerebbero che solo una visione unilaterale o
mitizzante dei fatti porta a dimenticare il necessario intreccio dei
due fattori, a dimenticare cioè che anche i «profeti disarmati» -
per usare la vecchia polarità del Machiavelli - furono in realtà,
in qualche misura, «armati» (quelli davvero disarmati purtroppo
immancabilmente «ruinorno» per dirla ancora col Machiavelli). Per
essere «armati» non c'è bisogno di avere sottomano in corpore
vili delle divisioni. La celebre battuta attribuita a Stalin
(«quante divisioni ha il Papa?») mirante a screditare il Papa come
interlocutore politico appunto in ragione della sua scarsezza di
«divisioni», è indegna di un politico accorto: non già perché
dia tanto peso alla forza militare ma perché mostra di non percepire
che un capo politico sui generis come il Papa dispone
comunque, per le alleanze che sapientemente instaura e per gli
interessi in pro dei quali si schiera, di una forza computabile anche
in «divisioni».
È dunque un po' ipocrita
l'atteggiamento dei «non violenti» puri nel momento in cui
essi mostrano di ignorare che la loro azione necessariamente si
inserisce in concreti e complicati contesti, dei quali diviene un
ingrediente, un fattore tra gli altri fattori, e soprattutto che essa
intanto risulta efficace in quanto riesca a trarre giovamento dai
rapporti delle forze e dalle tensioni e contrapposizioni esistenti
per così dire tra i «violenti» circostanti. «Violenti» a
proposito dei quali una precisazione mi pare necessaria. Contrapporre
categorialmente violenti e non violenti è molto fuorviante, direi
francamente intollerabile, in quanto mette allegramente nella prima
categoria, quella dei violenti, indiscriminatamente tutti insieme
oppressi e oppressori: segregazionisti sudafricani e combattenti
anti-apartheid, Gauleteir nazisti e rivoltosi del ghetto di
Varsavia, Ku-Klux-Klan e «pantere nere» e, più in generale,
diciamo la parola desueta, sfruttatori che opprimono e sfruttati che
si ribellano. Solo una grande ingenuità (quando non sia malafede)
può portare a classificare indiscriminatamente tutti costoro come
«violenti» magari alla fine «brigatisti» come dice Angiolo
Bandinelli con espressione demonizzante.
Io sono e resto del
parere che la polarità fondamentale non sia tra violenti e non
violenti ma tra oppressori ed oppressi e che perciò la questione sia
la liberazione dei secondi dal dominio dei primi. Per tale
liberazione tutti i metodi proficui, capaci di fornire risultati
durevoli, sono buoni: e la non violenza e la predicazione pacifistica
rientrano, e non da oggi, tra i mezzi di lotta che gli oppressi
adoperano contro i loro avversari. È perciò un po' buffo dire
(leggo la citazione nell'intervento di Folena) che «l'idea della non
violenza assume oggi un valore rivoluzionario».
In realtà l'ha sempre
avuto questo valore, non già come atto di fede astratta, ma come
attivo impegno antimilitarista, strumento tra gli altri strumenti
nella lotta degli oppressi. Contro la carneficina della prima guerra
mondiale il movimento operaio, nelle sue formazioni più consapevoli,
dichiarò «guerra alla guerra»: i socialisti italiani (diversamente
dai «maggioritari» tedeschi) furono in prima fila in quella «guerra
alla guerra», e perciò furono spesso trattati da traditori della
patria. Eroi del movimento operaio come Rosa Luxemburg predicarono
allora che «il nemico di ciascun popolo si trova nel suo proprio
paese», e si riferivano con ciò ai governanti che guidavano i
popoli al macello nella esultanza dei vari Marinetti (questo sia
detto a proposito delle «avanguardie» tanto care a Bandinelli).
Quando gli sforzi pacifisti si palesarono vani, si affermò e fu
vincente la strategia di Lenin di trasformare la guerra in
rivoluzione. E mentre la scelta di Kerenski era stata quella di
continuare a compartecipare all'inutile carneficina, il primo atto
del governo sovietico fu l'appello «al mondo» per la pace
immediata, seguito immediatamente da un atto concreto e duro a
compiersi quale la terribile pace di Brest Litovsk. Ragione per cui
al faro bolscevico guardarono allora con entusiasmo quei socialisti
che in tutta Europa avevano condotto in condizioni aspre e perdenti
la «guerra alla guerra»: dalla Luxemburg in Germania all'allora
direttore dell’“Avanti!”, Giacinto Menotti Serrati. Ecco un
caso concreto macroscopico di intreccio tra violenza, giusta
necessaria violenza, e pacifismo,
Sarebbe però
profondamente antistorico credere di ravvisare in quella memorabile
vicenda un modello eterno, una stabile ricetta. Se l'esperienza delle
due guerre mondiali poteva aver indotto qualcuno alla schematica
deduzione secondo cui la guerra è il terreno di cultura più
favorevole alla rivoluzione, questa idea è stata rimossa ben presto
con l'aprirsi dell'era atomica…
Per lo meno a partire dal
discorso che Togliatti pronunciò a Bergamo nel marzo del 1963 (Il
destino dell'uomo) è divenuto senso comune per i comunisti
italiani il convincimento che «la guerra sia diventata ormai cosa
diversa da ciò che mai sia stata»; che la lotta per la liberazione
degli oppressi cioè per il socialismo, deve essere dunque ora più
che mai lotta alla guerra, a quella terrificante guerra-olocausto che
le armi atomiche rendono purtroppo possibile. Orbene, questa
proclamazione, presa per sé, rischia di apparire oggi fin troppo
ovvia, se non la si integra con alcune considerazioni: 1) che intanto
è possibile una guerra alla guerra perché l'imperialismo non domina
più incontrastato sul pianeta ed esiste al contrario un equilibrio
di forze tra differenti e ben differenziati schieramenti; 2) che la
guerra generale si è forse allontanata e funziona politicamente come
minaccia anziché come evento, ma le guerre cosiddette
locali si moltiplicano e non sono neanche più formalmente
distinguibili dalle altre forme di violenza.
Contro queste guerre che
si svolgono quotidianamente sotto i nostri occhi, e contro cui non
c'è Onu che tenga, non basta la predicazione non violenta, la quale
rischia - se assolutizzata - di diventare un comodo alibi per gli
intellettuali che discettano nel giardino dell'impero.
E vi è infine una
considerazione che vorrei porre a conclusione di questo intervento.
Si tratta di una distinzione che a me pare necessaria tra l'uso per
così dire «del senso comune» e l'uso concettualmente più rigoroso
della nozione di violenza. La confusione tra i due usi introduce una
notevole e ormai tradizionale incomprensione nel dibattito politico:
incomprensione che rischia di inchiodare ciascuno ad un suo proprio
stereotipo, i marxisti nella parte dei predicatori di violenza ed i
«non violenti integrali» come loro illuminati ma purtroppo
inascoltati pedagoghi. Alla base c'è, tra l'altro, il deleterio uso
delle citazioni aforistiche: onde, ad esempio, il fatto che il
Manifesto dei comunisti si concluda con la celebre
affermazione secondo cui i comunisti «dichiarano apertamente che i
loro fini possono essere raggiunti soltanto col rovesciamento
violento di tutto l'ordine sociale finora esistente» fa sì che
l'immagine storica dei comunisti resti comunque quella di un partito
intrinsecamente manesco quand'anche si camuffi più o meno
perbenisticamente a seconda delle opportunità. È questo un tipico
caso di prevalenza del pensiero volgare (o del benedetto senso
comune) sul rigore concettuale. Giacché «violenza» è in realtà
sul terreno dell'ordine sociale, e soprattutto dal punto di vista di
chi quell'ordine difende, ogni modificazione o proposito o tentativo
di modificazione dell'ordine vigente. Ordinamento che a sua volta
viene difeso con la violenza attraverso la compagine statale
qualunque forma essa abbia, essendo lo Stato - come insegna Bobbio -
«per sua natura, quale che sia il suo regime, organizzazione della
forza monopolizzata, e dunque non già eliminazione della violenza ma
sua istituzionalizzazione» (Il problema della guerra 1979).
Ciò significa che violenza è, dal punto di vista dell'ordine
costituito, anche la non violenza se abbia come fine (ed è il caso
che qui ci interessa), la modificazione appunto di tale ordine.
Ragione per cui nel lungo e non facile ma esaltante processo storico
apertosi con il Manifesto dei comunisti e tutt'ora in pieno
sviluppo, si può dire che violenza e non violenza hanno finito non
solo con l'intrecciarsi (come dicevo in principio) ma addirittura col
coincidere.
«Credo - è sempre
Bobbio che parla - che parte della diffidenza che esiste fra
movimenti marxisti e movimenti non violenti dipenda dal fatto che i
marxisti vedono nei movimenti non violenti soltanto gli aspetti di
rivolta individuale e parziale, mentre da parte non violenta una
certa diffidenza nei riguardi del marxismo è fondata sulla
convinzione che per il marxismo la dottrina della violenza collettiva
sia irrinunciabile, mentre non viene presa in considerazione l'enorme
capacità che hanno dimostrato i movimenti che si ispirano al
marxismo di promuovere manifestazioni non violente di massa».
Postilla
Il
ritaglio onde ho ripreso il brano è perso. La fonte è probabilmente“l'Unità” e l'epoca sono gli anni 80 del Novecento.
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