Edicola con la statua di Plinio il Giovane nella facciata della cattedrale di Como (XV secolo) |
Plinio il Giovane era
ricchissimo (un Berlusconi dell'epoca). Era nato nel 62 d.C. a Como -
città alla quale donò una biblioteca e una scuola - e possedeva
terreni e ville sul lago, in Toscana e presso Ostia; le descrive con
molto compiacimento nelle lettere (ed. Bur. trad. di Luigi Rusca,
introduzione e commento di Luciano Lenaz). Rivestì cariche
importanti sotto Domiziano, Nerva e Traiano ed esercitò con successo
la professione forense; ma la sua ambizione non era professionale né
politica, era letteraria: e su questo punto il giudizio dei critici è
generalmente severo. Le lettere infatti, certamente sottoposte a
un'attenta rielaborazione formale, non contengono alte meditazioni
come quelle di Seneca, o giudizi sulla situazione politica, come
quelle di Cicerone; altre non rivelano che un carattere amabile e una
ingenua vanità.
Al lettore moderno aprono
tuttavia spiragli interessanti su varii aspetti della vita romana -
elezioni, conferenze, processi, vita sociale, valori culturali:
quelle che Bufalino chiama "le pedate furtive della storia".
Nel I volume (768 pagg.) che contiene i primi nove libri di epistole,
si intravedono come in un flash uomini illustri in azione: Marziale
che non ha soldi per il viaggio, Tacito che pronuncia l'elogio
funebre d'un insigne personaggio di stampo antico (II.1) o sostiene
l'accusa contro un governatore che i provinciali hanno denunciato di
concussione - reato che comportava la condanna alla deportazione,
l'esproprio dei beni, e spesso induceva l'imputato a togliersi la
vita, senza che nessuno si sognasse di chiamare assassino il pubblico
ministero. Con una pennellata Plinio ci fa vedere Tacito in Senato,
togato, severo, voce profonda, gesti misurati, e ricorre a un
avverbio greco, semnòs per definire la sua eloquenza, la dote
più pregiata dell' uomo romano; in quell'occasione, com'era suo
costume, Tacito parlò in modo conciso, solenne. A Tacito, che
gliel'aveva chiesto, Plinio racconta la morte dello zio, Plinio il
Vecchio, famoso naturalista (ep. VI.10). Si trovava a Miseno come
comandante della flotta militare, quando avvistò la nube a forma di
fungo che si sprigionava dal Vesuvio; si imbarcò per mettere in
salvo amici in pericolo ma morì sulla spiaggia, soffocato dalla
cenere e dai vapori sulfurei. Fino all' ultimo momento, aveva
consegnato agli schiavi le tavolette di cera, via via che vi incideva
le sue osservazioni sul fenomeno in corso. In una seconda epistola
(VI.20), Plinio racconta la sua fuga con la madre sull'Appia gremita
di gente in preda al terrore, in un' oscurità densa di fumo e di
cenere, dopo una notte insonne nella casa ininterrottamente squassata
dal terremoto - notte che il giovinetto, almeno così dice, aveva
trascorsa leggendo Livio.
In un'altra lettera
riferisce tratti mirabili del carattere di Arria, una delle matrone
che furono compagne, nella vita e nella morte, degli oppositori
stoici condannati dagli imperatori: dopo essersi immersa il pugnale
nel petto, ella lo porse insanguinato al marito dicendogli "Pete,
non dolet", non fa male. Ancora una donna è la Vestale che
Domiziano volle che fosse sepolta viva, un uso arcaico e ormai in
disuso, per esser venuta meno al voto di castità. Il X libro (il
secondo volumetto) contiene il Panegirico rivolto a Traiano che, come
i successivi che ci sono pervenuti, da Diocleziano a Teodosio, è
un'esercitazione retorica, d'un'adulazione forsennata. Nello stesso
volume, le lettere, e le relative risposte, che Plinio inviò a
Traiano dalla Bitinia, in Asia Minore, dove fu inviato nel 111 d.C. e
dove forse morì nel 112, con il titolo di legato imperiale con
potere consolare.
Queste lettere
costituiscono certamente una documentazione impareggiabile sulla vita
d'una provincia dell'impero; ma ci lasciano stupefatti soprattutto
per il fatto che Traiano, un rude soldato, il quale, a giudicare
dalle guerre vinte (la conquista della Dacia), i trionfi celebrati,
le opere monumentali ideate e costruite (i Mercati, il Foro, le
Biblioteche, la colonna) aveva un concetto altissimo della sua carica
e della potenza romana, avesse il tempo e la pazienza di dar retta a
quel super-coscienzioso funzionario. Il quale non si limitava a
informarlo di tutto ciò che accadeva nel paese, a sottoporgli
quesiti di ordine amministrativo, giudiziario, finanziario, ma non si
faceva scrupolo di raccomandargli uno per una promozione, un altro
per una carica, un terzo per la cittadinanza. Tutti sanno l'aneddoto
della vecchietta alla quale Traiano, alla sua richiesta di parlargli,
rispose che non aveva tempo; "allora - ribatté la donna - non
hai tempo di regnare". Traiano doveva avere le giornate di
quarantotto ore, a giudicare dall'attenzione che prestava a quel
seccatore di Plinio; e se si considera che l'impero si stendeva dall'
Atlantico all' Eufrate, dal Mare del Nord al Nilo, se tutti i
proconsoli, i legati, i governatori scrivevano altrettanto c'è da
credere che fare l'imperatore fosse una fatica insostenibile.
Tra le consultazioni che
l'inesorabile funzionario infliggeva al sovrano, la più
straordinaria e la più famosa è la lettera riguardante i cristiani
(epp. X. 96-97). Il documento è talmente eccezionale per l'epoca da
giustificare il sospetto - autorevolmente affacciato da molti
studiosi - che si tratti d' un apocrifo; ma la conosceva già
Tertulliano cent'anni dopo. Plinio dice di non aver mai partecipato a
indagini concernenti i cristiani; e perciò non sa come regolarsi:
chiede se ci sono differenze nel giudizio a seconda se si tratta di
adulti o di bambini, se meritano la pena per il solo fatto d'esser
cristiani, a prescindere dai "reati inerenti al nome". Dice
d'aver condannato a morte solo quelli che, all'interrogatorio, davano
prova d'una "ostinazione inflessibile"; ma d'aver assolto
quelli che si dichiaravano pentiti e disposti a bestemmiare Cristo e
fare atto di adorazione di fronte alle statue degli dèi e
dell'imperatore. Era questo infatti che distingueva i cristiani dalle
altre comunità tollerate a Roma, i fedeli di Iside, di Mitra, di
Cibele e gli stessi Giudei, il rifiuto di compiere un atto di
adorazione che, per loro, era idolatria. Non sembrano pericolosi,
asserisce Plinio. Dicono che non fanno altro che riunirsi a giorno
fisso all'alba per cantare un inno a Cristo "come a un dio";
d'aver giurato di non commettere né furto, né adulterio, né di
pronunciare falsa testimonianza: questa superstizione s'è diffusa
come in contagio; e, quel che è peggio, questi ostinati sono
innumerevoli. "Tuttavia" dice Plinio "ritengo che sia
possibile arrestare questo contagio e farli rinsavire".
Da questo scritto, che
rivela l'impossibilità dei contemporanei di valutare l'entità d'un
fenomeno religioso o sociale, scaturiscono molti interrogativi: non
esisteva nel codice una serie di disposizioni riguardanti i
cristiani? in base a quale condanna furono arsi vivi nel circo
(l'attuale piazza s. Pietro) quelli condannati da Nerone? era ancora
valida la sua ordinanza, ai tempi di Traiano? Dubbi e problemi che da
secoli affaticano gli studiosi. Resta, fermo, autorevole, sobrio il
responso di Traiano: Hai fatto bene, dice a Plinio, a consultarmi.
"Poiché non è possibile stabilire una regola generale, che
abbia valore di norma fissa. Non devono essere perseguiti d'
ufficio". Vada assolto chi si pente e sacrifica agli dèi.
"Quanto alle denunce anonime, non devono avere alcun valore in
qualsiasi accusa, perché sono un esempio detestabile e non degno del
nostro tempo".
“la Repubblica”, 3
novembre 1994
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