Per costruire una pace duratura è
spesso utile dimenticare le ferite del passato
«Chi non conosce la
storia è condannato a ripeterla», sosteneva il celebre saggista
spagnolo George Santayana. Peccato che questa frase, ormai assurta a
verità generale, non regga a un esame empirico. Lo sostiene David
Rieff, giornalista, analista politico e saggista che nel libro In
Praise of Forgetting: Historical Memory and Its Ironies (Yale
University Press, 2016), etichetta l’affermazione come un mero
wishful thinking: «È un’idea attraente, ma indimostrata,
che quindi andrebbe abbandonata», chiarisce Rieff a pagina99, dalla
sua casa di New York. «Pensiamo all’Olocausto: dopo la sua
conclusione tutti eravamo convinti di aver imparato la lezione. “Mai
più” era il mantra generale. Ma questo ha forse impedito gli
stermini in Pakistan nel 1971, in Cambogia sotto gli Khmer rossi o in
Ruanda nel 1994?», chiede sconsolatamente.
Il giornalista si spinge
oltre: non solo la storia non ci insegna nulla, ma non è neanche
detto che ricordare i tempi antichi sia eticamente più nobile che
dimenticarli. «Non esiste una categoria assoluta o incondizionata in
base alla quale rammentare il passato è morale e l’oblio no. Io
credo sia necessario distinguere caso per caso. E anche valutare se
la venerazione per la memoria non abbia troppo spesso condotto alla
guerra invece che alla pace, al rancore e al risentimento anziché
alla riconciliazione, alla determinazione di una vendetta invece che
all’impegno per il difficile compito del perdono», scrive.
Almeno tre Paesi sembrano
avvalorare la sua teoria: la ex Jugoslavia, dove le contrapposizioni
etniche e religiose si sono trascinate per 500 anni, l’Irlanda del
Nord, segnata da plurisecolari dissidi religiosi, e Israele. «E in
tutti e tre i casi mi sembra che rievocare le ferite, i crimini, i
conflitti del passato abbia provocato un ulteriore spargimento di
sangue», afferma l’ex inviato.
Come controprova del suo
ragionamento, Rieff illustra come proprio la dimenticanza volontaria
della storia abbia talora consentito di costruire la pace; un
risultato, a suo vedere, desiderabile anche qualora comporti di
negoziare con leader spietati che non pagheranno mai per quanto hanno
fatto. «Molti paladini dei diritti civili insistono sul fatto che
non ci può essere una pace duratura senza giustizia», spiega. «Ma
non è vero. La storia è piena di esempi in cui si è potuto
ottenere la prima negando la seconda». Vengono in mente l’accordo
di Dayton del 1995, che ha risparmiato il presidente serbo Slobodan
Milosevic, ma pure evitato di prolungare la guerra civile in Bosnia
Erzegovina, e l’abbandono della presidenza del Cile da parte del
generale Augusto Pinochet, nel 1990.
Rieff narra che al
momento del suo ritiro, era chiaro a tutti che il dittatore se ne
andava impunito; eppure per i cileni la domanda di democrazia
prevaleva su quella di giustizia. Otto anni dopo, quando il giudice
spagnolo Baltasar Garzòn emise un mandato di arresto per il
militare, molti pensarono che l’atto giudiziario sarebbe dovuto
arrivare prima. Ma se così fosse stato e Pinochet non avesse avuto
la garanzia dell’immunità, non avrebbe mai lasciato il potere.
Oppure l’esercito, di cui nominalmente era rimasto a capo,
l’avrebbe difeso facendo blocco. Dunque nel 1990, quando Pinochet
era ancora al potere, sarebbe valsa la pena di difendere a ogni costo
la verità o la giustizia? Per Rieff la risposta è no.
Che dimenticare possa
essere una scelta virtuosa e più funzionale alla costruzione della
pace e dell’unità nazionale lo dimostra anche il cosiddetto Pacto
del Olvido (patto del dimenticare), un accordo bipartisan siglato
in Spagna nel 1975, dopo la morte di Francisco Franco. Per favorire
la graduale reintroduzione della democrazia ed evitare che le
polemiche sul recente passato mettessero a rischio la riconciliazione
nazionale, la miriade di viali e strade intitolata al Generalissimo e
ai suoi alleati venne rinominata, ricorrendo a nomi non di eroi e
martiri repubblicani, ma di reali del passato. Una successiva legge,
approvata dal parlamento nel 2007, istituzionalizzò la prassi della
dimenticanza storica stabilendo la completa rimozione di monumenti e
placche che «esaltavano la guerra civile o la repressione sotto la
dittatura», ossia tra il 1936 e il 1975.
Neppure l’oblio di
Stato però è sempre la scelta migliore. E Rieff ci tiene a operare
ulteriori distinguo. Per tragedie ancora non del tutto analizzate o
riconosciute, come il genocidio armeno, le azioni delle forze inglesi
e francesi durante il periodo coloniale o il destino dei musulmani
uccisi a Srebrenica è giusto acclarare la verità. Idem se le
vittime e i colpevoli di simili atrocità sono ancora in vita. Ma il
compito richiede che gli storici facciano il loro dovere senza
curarsi degli esiti, potenzialmente devastanti, delle loro ricerche;
i politici devono prenderne atto e metterlo in conto. E non tutti i
leader hanno la tempra adatta.
Inoltre, prima di
decidere sull’opportunità di approfondire i decenni andati, va
considerato che «mentre l’oblio fa un torto al passato, la memoria
può fare un’ingiustizia al presente». «La memoria collettiva è
un’astrazione», argomenta Rieff al telefono. «È una metafora,
una narrativa sui secoli precedenti, il modo in cui l’oggi legge il
prima che impariamo a scuola, dove ci facciamo un’idea del passato
che non è vera, o non lo è sempre o non del tutto. E qui sta la
differenza con la storia: quest’ultima è una lettura critica della
realtà, mentre la prima nel migliore dei casi è una sua
semplificazione; nel peggiore, una sua perversione, anche se spesso
avanzata con le migliori intenzioni». Rispetto all’obiezione che
ridefinire il passato di una Nazione possa minarne l’identità, il
giornalista dissente: «Non facciamo del passato un feticcio o la
verità: è solo la forma in cui il presente riformula i fatti. Una
narrativa può essere più corretta di un’altra, ma non è mai
completamente accurata e completa».
E soprattutto ogni
ricostruzione viene propugnata per fini precisi: favorire l’unità
nazionale, rafforzare l’autorità del potere costituito, contenere
preoccupazioni contingenti. A seconda delle circostanze, dunque, ogni
accadimento o figura storica possono essere reinterpretati, talora
anche in senso opposto. Emblematico, a questo proposito, il
personaggio di Giovanna d’Arco. Nel secolo 19mo per la destra
francese incarnava la determinazione nazionale contro gli eserciti
stranieri. Poi la sinistra anticlericale ne fece il simbolo
dell’oscurantismo della Chiesa che l’aveva condannata al rogo.
Finché, dopo la canonizzazione, ritornò a essere la figura di
riferimento per la destra estrema, prima l’Action Francaise o oggi
il Front National.
In conclusione del suo
saggio, Rieff evidenzia un postulato difficile da smentire: qualunque
evento a un certo punto è destinato a diventare remoto e a perdere
senso per i viventi. «Quindi, da un lato occorre capire fino a
quanti anni prima ha senso spingersi: è giusto ricordare un fatto
per 10, 100 o 1.000 anni?», si interroga. «Dall’altro, si tratta
di valutare in quali casi accelerare il naturale decadimento degli
eventi. Prendiamo l’Olocausto: nel 2050 sul pianeta non vi sarà
più nessun superstite dei Konzentrationslager. E allora, di fronte a
questa atrocità epocale, si possono assumere due atteggiamenti
antitetici: quello del filosofo israeliano Avishai Margalit, autore
di The Ethics of Memory (Harvard University Press, 2002) per
il quale ciò non toglie l’obbligo per i viventi di proteggere il
ricordo che il male radicale cerca di minare. O quello dello storico
inglese Tony Judt, secondo cui le gite delle scolaresche nei campi di
sterminio segnalano che è finito il tempo di dolersi e inizia quello
dell’oblio».
Rieff evidenzia come dal
1945 in poi la Shoah sia stata usata strumentalmente per giustificare
l’agenda politica di Israele, a cominciare dal comportamento
riguardo alle minoranze arabe. «Non dico che non andrebbe ricordato
l’Olocausto. Ma forse occorrerebbe trovare un modo diverso di
farlo», riassume. La volontà di preservare i ricordi del passato
riflette, in parte, il desiderio umano di vivere oltre il proprio
tempo. Ma la fase del lutto, pure essenziale, alla fine deve
concludersi, il ricordo del male sfumare e la vita andare avanti.
Rieff ci invita a relativizzare l’imprescindibilità di eventi che
sono rilevanti solo rispetto all’oggi. La storia è una
costruzione, non una maestra di vita ed è inutile leggere gli
avvenimenti remoti come se evitandone il ripetersi potessimo
prevedere lo svolgimento dei fatti futuri. Purtroppo non è così: al
contrario, come riassumeva il politico britannico Enoch Powell, la
storia è cosparsa di guerre che tutti sapevano che non sarebbero mai
accadute.
Pagina 99, 12 agosto 2016
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