Il primo incarico di
Chateaubriand come ambasciatore a Londra fu di riferire al re, a un
ballo, che il duca di Coignv si scusava di non poter presenziare,
perché non aveva ancora pronta l’uniforme. Il re di Francia
sorrise: «Sabbie mobili a Calais. Eccellenza?», mormorò.
Chateaubriand rimase interdetto. Il riferimento era assai raffinato;
il sovrano citava il passo delle settecentesche Memorie e
avventure di un uomo di qualità dell’abate Prevost: si
trattava del passaggio in cui un damerino, a Calais, affidava al suo
valletto una somma ingente per procurargli il più bell’abito mai
visto: il valletto era tornato a mani vuote, dicendo che il vestito
gli era caduto nelle sabbie mobili.
«Sabbie mobili, a
Calais?». «Sì, Monsieur», era stata l’imperturbabile risposta.
E da quando, si chiese Chateaubriand, un monarca si preoccupa di
mostrare dello spirito, come un avventuriero, o un aristocratico da
salotto? Ma in realtà, già a Berlino gli era capitato che gli
facessero allusioni letterarie, con aria piena di sottintesi; tutti
si affannavano a citargli passi di Atala e di René di
cui lui non si ricordava; «vi confesserò che mi hanno fatto
arrossire», scriveva Chateaubriand alle sue amanti Récamier e
Duras, cui inviava ogni giorno lettere quasi uguali, e si dichiarava
soddisfatto perché, all’estero, «aver lavorato un po’ per
l'immortalità» non veniva considerato incompatibile con la
politica. I due brevi romanzi avevano vent’anni, e ancora
raccoglievano allori. La storia di Atala assiepava senza sosta le più
febbrili strategie del romanticismo; amore e morte, torture indiane,
affetti incestuosi, esotismi, il vecchio e il nuovo mondo, intere
tribù sterminate dai bianchi, voti di castità, mistici, gesuiti e
buoni selvaggi. Ma nel deserto ideologico del legittimismo la
ricchezza sentimentale restava senza oggetto: «abitiamo, con il
cuore gonfio, un mondo vuoto».
Le effusioni liriche in
Atala compongono un idillio immoto, dominato da un unico
movimento oratorio, l’immane, silenziosa bellezza della natura
nella Louisiana del Settecento. È in Atala la frase «la cima
indistinta delle foreste» per cui Stendhal sfidò a duello un
commilitone del sesto Dragoni, che la apprezzava infinitamente.
Stendhal, che amava l’energia, la trovava efferata; e odiava
talmente le descrizioni che decise di non scrivere mai romanzi; e per
vent’anni, tenne fede al proposito.
«Chateaubriand è
surrealista nell’esotismo», asseriva invece André Bretón nel
Manifesto del 1924, rinvenendo evidentemente nell’immensità
visionaria di quei paesaggi, nella natura mirifica e allucinata del
racconto, nell’assenza di ogni controllo della ragione e della
morale tracce di onnipotenza del sogno sufficienti a far ascrivere le
pagine di Atala tra le radici del surrealismo. Si sarebbe
fortemente stupito, l’operoso pari di Francia, a vedersi chiamato a
correo delle chiassose iniziative di letterati anarchici.
L’epopea del
surrealismo risuscita nella rievocazione che Bretón consegnò in
sedici conversazioni radiofoniche con André Parinaud nel 1952. Gli
Entretiens restaurano la Parigi della prima guerra mondiale,
quando Bretón, «bello come un arcangelo», osservava con
«l’assiduità immobile di un medium» (Adrienne Monnier, Rue de
l’Odèon) il grande Apollinaire, e trascorrono, pervase dallo
stesso sentimento dell’intollerabilità delle malattie del mondo,
fino agli incontri in Messico con Trotsky, che pescando rievocava le
cacce al lupo in Siberia, si infastidiva a sentir parlare di
letteratura, e con una parola rigenerava il mondo in un’improvvisa
visione rivoluzionaria; Bretón lo descrive mentre, circondato
dall’aura del suo prestigio politico, e da tante guardie del corpo,
scherzava sulla persecuzione che lo aveva colpito nei figli e nei
compagni, e che verosimilmente non era cessata. È assente,
nell’autobiografia di Bretón, qualsiasi traccia di nostalgia.
L’insubordinazione, ancora nel 1952, è sempre all’ordine del
giorno; la poesia e la libertà sono guerre allegre e senza
armistizi; il tempo non trascolora e non addolcisce il nemico.
Forse questa
imperturbabile bellicosità, che in qualche modo disconosce la pietà
del tempo, è sorretta da un assenso interiore a un’idea
immutabile, platonica e artigianale, e sicuramente molto letteraria,
della bellezza. La natura sublime del suo stile e delle sue immagini,
anche di quelle automatiche, gli è stata rimproverata, qualche
volta. Ora che Marguerite Bonnet cura in Francia un’edizione
esemplare delle sue opere complete, la grandezza di Bretón assume
contorni quasi classici. Mezzo secolo prima, i sogni trascritti da
Verlaine utilizzando la lezione del poema in prosa di Baudelaire sono
quasi indistinguibili, nella tensione sentimentale e stilistica,
dalle prove automatiche di Bretón. «Spalle d'ombra sorreggono i
quartieri di frangi sanguinolenta e pesante» - scriveva Bretón in
un abbozzo poi rielaborato nei Vasi comunicanti; «le
bancarelle del lungosenna, piene di farfalle, emettono appena un
lieve stridore, perché la luce del giorno, lungo il fiume, porta
innanzi con competenza le sue forbici che avanzano dritto». «Vedo
spesso Parigi mai come è», confidava cinquant’anni prima Verlaine
in uno dei testi autobiografici in prosa, le Memorie di un vedovo.
«È una citta sconosciuta, assurda. La cingo di un fiume stretto ben
incassato tra due file di alberi qualsiasi. Tetti rossi brillano tra
prati verdissimi» (...)
Gli scritti di Verlaine,
incantati medaglioni di giovinetti, o straziate nostalgie di
un’impossibile saggezza, rendono immediata l’eco del maledettismo
che aureolava la vita del «principe dei poeti». La rivolta contro
l’epoca materialista Verlaine la esprimeva in due modi separati:
una violentissima angoscia del vivere, manifestata nelle forme
leggendarie della vita «maledetta», e in poesia nella nebulosa
grazia di un versificare smorzato, nella «chanson grise»,
grigia e un po’ ebbra, nelle «romanze senza parole» - la fine del
linguaggio per uscire nel più delicato dei modi dal mondo.
Senza le risorse della
musicalità indefinita che dissolve il senso, in prosa Verlaine mette
in scena i miseri, laceranti pezzi della sua vita. I Goncourt, nel
diario, insistono impietosi sugli episodi più atroci della biografia
di Verlaine, e descrivono ad esempio l’apocalittico funerale della
madre; gli amici e i becchini ubriachi fradici che sbattevano la bara
giù per le scale strettissime, e il figlio che non poteva neanche
alzarsi dal letto. Nella scrittura autobiografica di Verlaine, quello
che più ferisce è un lieve tono apologetico. Verlaine ha l’aria
di chiedere scusa per le sue orribili sofferenze e le sue povere
gioie, ammiccante e incerto come un ubriaco; questa sfiduciata
richiesta di indulgenza è per il lettore un dolore non piccolo.
Francois-René de
Chateaubriand, Atala, René, a cura di Bruno Nacci,
Garzanti
André Breton,
Entretiens, a cura di Marie-José Hoyet, Lucarini
Paul Verlaine, Memorie
di un vedovo, a cura di Giuseppe Grasso, Lucarini
L'articolo è tratto da “la talpa giovedì”, il supplemento libri
del “manifesto”. Il ritaglio onde l'ho ripreso è senza data, ma
visto che l'autrice commenta e collega libri pubblicati nel 1989,
l'anno dev'essere quello.
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