Sylvia Plath, Boston 1932 - Londra 1963
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Dalla cenere io
rinvengo, e con le mie rosse chiome,
divoro uomini come aria di
vento.
Una casa sull’oceano,
un padre professore di cui è la preferita, una madre devota al
proprio ruolo, un fratello che ha poco spazio nel suo triangolo
edipico, questo il teatro dell’auto-mitologia della poetessa e
scrittrice americana.
«Il paesaggio della mia
infanzia non fu la terra, bensì la fine della terra, le fredde,
salate, fluenti colline dell’Atlantico. A volte, penso che la mia
immagine del mare sia la cosa più chiara che possiedo… E in un
flusso di ricordi, i colori si fanno più profondi e brillanti, il
mondo di allora respira».
È la madre che fa
scoprire ai due bambini la gioia selvaggia della poesia, ma sarà
solo il padre, morto precocemente quando Sylvia ha otto anni, l’unico
destinatario delle poesie. Alla madre Sylvia scriverà per tutta la
vita lettere minuziose che raccontano la vita brillante, l’eccellenza
negli studi, i riconoscimenti al precoce talento letterario, i
numerosi corteggiatori. Ma il lato solare della giovane donna
perfetta, incarnazione del sogno americano, vaga nell’ombra della
depressione che oscura tutte le pagine del diario, anche quelle della
grande felicità trovata nella relazione con Ted Hughes, futuro poeta
laureato d’Inghilterra, il colosso che riporterà in vita il padre
morto e che perseguiterà la poetessa sino all’esito finale di un
suicidio che è ingiusto scegliere come chiave di lettura dell’intera
opera poetica.
Un crollo nervoso seguito
dal primo tentativo di suicidio, a vent’anni, non le impedirà di
concludere gli studi allo Smith College e di vincere una borsa di
studio per Cambridge. Sylvia e Ted si conoscono a una festa, si
piacciono, si saggiano con un bacio feroce che diventa un morso sulla
guancia di lui. A una donna ossessionata dall’eccellenza poteva
piacere solo un genio e lui, per lei, lo era. Sylvia non ebbe mai
dubbi sulla loro vita insieme: avrebbero scritto, si sarebbero
sostenuti, avrebbero creato la famiglia perfetta, lei sarebbe stata
una grande poetessa e scrittrice, lui il più grande poeta di lingua
inglese del mondo.
La vita quotidiana si
gioca sempre sul filo della competizione e dell’invidia. Tanto
Hughes attinge a piene mani dai sogni per scrivere, tanto per lei la
scrittura sarà una lotta con un demone contrario, che sempre le
sibila all’orecchio l’inadeguatezza delle sue parole. Ma Sylvia
studia con accanimento, si esercita, legge e confronta i propri versi
con quelli dei poeti che più ama. Durante un soggiorno annuale a
Boston, mentre cerca di far scoprire agli americani la poesia del
marito, frequenta i corsi di scrittura creativa del poeta
confessional Lowell e conosce l’altra grande poetessa Anne Sexton.
Più che amiche furono rivali, condividevano bevute di martini e
racconti dei tentati suicidi ogni settimana dopo le lezioni. Solo nel
diario la Plath si lasciava andare a commenti acidi e all’invidia
nei confronti dell’altra che, al contrario di lei, scriveva con
estrema facilità. Alla morte della Plath, Anne scrisse nel suo
diario che anche in quell’occasione Sylvia l’aveva preceduta.
Un soggiorno nella
colonia artistica di Yaddo vede Sylvia e Ted in attesa del
primogenito, lei intenta nella composizione di quello che sarà il
primo libro, Il Colosso. La figlia Frieda e il libro vedono la luce a
breve distanza uno dall’altra, a Londra, nel 1960. Fu però il
Devon, dove gli Hughes acquistarono una fattoria, lo scenario del
penultimo atto di questa grande tragedia. Ogni fatto della vita,
quotidiana, intima o sociale, trova uno specchio e un esito nella
poesia e nella narrativa della Plath. L’unico romanzo La campana di
vetro, pubblicato sotto pseudonimo per non ferire i famigliari, ebbe
un discreto riscontro nel 1961. Ma neanche questo bastava al demone
per placarsi. Mentre Ted andava sempre più spesso a Londra per
partecipare a presentazione e reading radiofonici, Sylvia viveva la
vita della casalinga di campagna che le andava sempre più stretta.
Un giorno in preda alla gelosia più feroce, arrivò a distruggere il
manoscritto delle poesie e la copia annotata dei sonetti di
Shakespeare del marito, che tardava a tornare dalla città. Neanche
la nascita del secondo figlio Nicholas Farrar, morto anch’egli
suicida nel 2009, poté rinsaldare la coppia. Ted si invaghì di
Assia Wevill, che si suiciderà con la figlia avuta dal poeta qualche
anno più tardi. Sylvia lo cacciò di casa.
Durante l’ultima
vacanza insieme in Irlanda, un amico consiglia a Sylvia di non
divorziare per una storia che non sarebbe durata ma lei è
inferocita. Una febbre altissima la pervade e la porta, tra la fine
di settembre e i primi di dicembre, a scrivere le quaranta poesie di
Ariel. Il demone infine le permette di coincidere con l’immagine
della grande poetessa alla quale pensava forse sin da ragazzina. Così
scrive a un’amica: «Vivo come una spartana, scrivo in preda a una
febbre e produco quello che per anni avevo chiuso a chiave dentro di
me. Mi sento stordita e molto fortunata. Continuavo a dirmi che ero
il tipo che riusciva solo a scrivere quando era tranquilla e in pace,
ma non è vero, la musa è venuta qui, adesso che Ted se n’è
andato». Il ritorno a Londra coincide con una nuova fase maniacale,
l’inverno più freddo del secolo fa gelare l’acqua nelle
tubature, i conti con i genitori sono stati regolati nelle poesie
Daddy e Medusa, a gennaio del 1963 il fuoco si spegne, niente più la
tiene legata a questa vita. L’11 febbraio, lo stesso giorno del
futuro suicidio di Amelia Rosselli, altra grande poetessa e sua
traduttrice, dopo avere messo al riparo i figli nella loro cameretta,
con la finestra socchiusa e pane e latte vicino, la bambina che
voleva essere Dio si inginocchia davanti al forno, poggia il capo sul
piano e muore da sola. La porta per l’aldilà, quella scrivania
dove ha scritto le sue migliori poesie e che Ted le aveva costruito,
si chiude e diventa la sua lapide.
Da “Enciclopedia delle
Donne”
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