25.1.17

Gianni Brera racconta le Olimpiadi. Berlino 1936: Owens e Hitler

E Lanzi morse le nuvole correndo senza cervello
Uno dei più triti luoghi comuni concernenti una Olimpiade, risale alla edizione davvero kolossal di Berlino 1936. Pretende questo luogo comune che il Reichfhurer Adolf Hitler sia sempre squagliato dallo stadio al momento di stringere la mano al fenomenale negro Jesse Owens, trionfatore nelle due gare di scatto, nel salto in lungo e nella staffetta 4x100. E perché mai squagliava il folle dittatore? Perché proprio Owens smentiva le sue cervellotiche pretese circa la superiorità della razza ariana su tutte le altre famiglie umane.
Ora tutto questo è abbastanza grottesco. Non risulta che Hitler capisse molto di sport ma certo gli bastavano i risultati di mezzo secolo per convincersi che i negri di America conservavano doti primigenie ormai perdute dagli ariani europei e no. Intrigarlo in questi giochetti banali non è onesto: e tanto più fa specie la balla sull'avversione di Hitler per Owens, in quanto sapevano tutti che, fino a ieri, negli spogliatoi americani figuravano sempre due panchine, una delle quali riservata agli atleti di colore, e non per rendergli omaggio... Erano invece assai generosi gli spettatori tedeschi nei confronti del grande Jesse, risultato deludente nel solo salto in lungo. Azzeccò un volo al di là degli otto metri ma apparve casuale, in certo modo rimediato. La sua velocità era forse troppo alta per consentirgli una congrua rullata: molto più corretto ed elegante di lui in elevazione era il nostro esile Maffei, che purtroppo non era abbastanza veloce da protrarre l'inerzia anche in volo. Maffei costituiva il paradigma classico dello stile "tre passi e mezzo" predicato da Comstock. Owens arrivava sparato all' asticella in capo alla pedana e non sempre riusciva a trasformare l'inerzia in elevazione. I suoi frenetici passi in aria nuocevano spesso alla riuscita del salto: ma tant'è: Owens non aveva rivali nello sprintare e lanciarsi: quand'anche la rullata fosse minima, il suo volo riusciva imponente. Ed infatti vinse, pur saltando malaccio, e tolse la medaglia d'oro a un tedesco che aveva il nome in capo, Lang. Il poveretto aveva perfezionato uno stile efficace ed elegante: rullata, un solo passo e mezzo, riunione dei piedi in volo e slancio delle braccia appaiate verso l'alto. Purtroppo, non era che un povero ariano!
A dimostrare che l'atletica italiana aveva raggiunto livelli di imponenza continentale, intervenne anche Mario Lanzi sugli 800 metri, ma come e più di sempre si comportò da scapato. Era un atleta splendido, novarese di Borgoticino. La povertà e l' ignoranza lo avevano indotto a sprecarsi da ragazzo in campestri e traversate di paese (o tramagli). La sua struttura era del velocista puro. Non si fosse modificato organicamente, ciampicando per prode e carrareccio, chissà cosa avrebbero potuto dare i suoi muscoli tozzi e forti! Invece, tornò penosamente sulla velocità prolungata e sugli 800, allora considerati la disciplina più breve del mezzofondo. Nei 400 non seppe mai dare una giusta misura del suo valore. Negli 800 compì molte stranezze per una quasi totale mancanza di acume tattico. Nel 1904, ai primi Europei di Torino, credette di sapere che lo svedese Ny tirasse a stabilire il nuovo record del mondo in semifinale: così gli stette sempre dietro, a quell' altro stonato babbeo, e quando ormai era tramontato il record, saltò fuori per umiliarlo sullo spunto: il domani, incontrò il magiaro Zsabo in semifinale e morse le nuvole! A Berlino, lasciò che prendesse la testa il lungo Woodruff e conducesse la gara a piacimento; lui, intronato, tagliava il passo dietro agli ultimi. Quando si accorse che Woodruff non avrebbe desistito, saltò fuori di curva con uno scatto da ossesso: entusiasmò la folla, sorpresa da così tardiva resipiscenza, ma non inquietò minimamente Woodruff, che gli lanciò un' occhiatina di sguincio e si limitò ad abbreviare un poco la falcata, ancora sin troppo distesa e comoda: il funambolico negro finì in 1' 52"9, che è tempo da allievo moderno, e il fenomenale ma stolido Marion Lanzi ottenne 1' 53"3, e la medaglia d' argento. Due anni or sono, Sebastian Coe corse a Firenze in 1' 41"7 e proseguì sullo slancio per defatigarsi: non ansimava neppure... Lanzi battè la capa nel muro, come era solito, e deplorò di non aver capito che avrebbe dovuto attaccare un po' prima. Commentò Woodruff che anche lui avrebbe cambiato passo, nel caso che l' italiano lo avesse attaccato all' inizio del rettilineo. Naturalmente si deplorò Lanzi - secondo costume nazionale - ma si preferì credere a lui, alla sua classe potenziale, non meno grande della sua fessaggine. Lanzi ebbe sfortuna marcia nella sua lunga e distorta carriera. A Parigi, negli Europei 1938, trovò certo Harbig e ne fu tanto scosso che perdette anche il secondo posto, ad opera di un giovane sconosciuto francese. Esclamò dopo quella gara dissennata che avrebbe divorato un serpente. La sorte gli mise di fronte Harbig, che senza stritolarlo nelle sue spire praticamente lo distrusse. Comstock ci insegnò per l' occasione come si può sbagliare tutto nel preparare un ottocentista: fece correre a Lanzi una 600 metri (mi pare in 1' 21") e con solenne sicumera gli garantì il primato mondiale. Si correva a Milano sui 500 metri dell' Arena. Lanzi era sicuro di sè e fece l' andatura nell' ingenuo sogno di stroncare il tedesco sul passo. Harbig lo seguì fino all' ultima curva, dalla quale balzò fuori con falcate di incredibile foga e bellezza. Lanzi si piantò allora come quei brocchi ai quali non bastano i paraocchi per risparmiarsi l' umiliazione del sorpasso: poveretto, non doveva credere ai propri occhi: Harbig terminò ingobbito ma trionfante nel tempo, allora incredibile di 1' 46"6. Lanzi finì sullo slancio in 1' 49", che resistette per anni come record italiano. In tutto il mondo si fecero smorfie alla notizia di quel mirabolante primato di Harbig: nessuno voleva crederci: per fortuna, all' Arena era venuto il mio amico Gaston Meyer, francese, dunque insospettabile di amore per i tedeschi. Gaston prese i suoi bravi tempi e scrisse come gli dettava l' ammirazione, non il dispetto dell' askenazy. Nei giochi di Berlino 1936 toccò all' Italia un solo titolo nell' atletica: lo vinse Ondina Valla sugli 80 ostacoli. E quarta fu Claudia Testoni in fotografia. Ondina è un generoso dono della Lomellina pavese a Bologna la dotta. Il suo nome vero è Trebisonda, che contrasta buffamente con la sua natia bellezza di donna e di atleta. A Frascarolo Po se la ricordano piccolina in casa della nonna paterna. Suo padre lavorava in ferrovia. A Bologna l' hanno subito impostata sui salti e poi sugli ostacoli, che ha praticato con entusiasmo non inferiore ai mezzi. Era più veloce di lei la bolognese verace Claudia Testoni ma, proprio quel giorno, a Berlino, le successe qualcosa di molto intimo che non poteva giovare alla sua prestazione. Le ragazze della finale giunsero gomito a gomito. La fotografia premiò Ondina che certo si meritava tanta gloria. Claudia, lei si rifece in seguito stabilendo il nuovo primato del mondo, brava figlia. Ma a Berlino ebbero modo entrambe di sperare in un trionfo: e fu durante la staffetta 4x100: ma perdettero banalmente il testimone... Molto meglio delle ragazze fecero i maschi della staffetta di scatto: furono i soli a non perdere la testa nel vorticare degli americani e conquistarono la medaglia d' argento con un prestigioso 41"2 (gli americani, quelli erano scesi sotto i 40": ma il più brocco valeva 10"4). Gli staffettisti si chiamavano Ragni, Gonnelli, Caldana e Mariani. Boyd Comstock venne molto complimentato per questa prodezza. Fu onesto nel riconoscere che i ragazzi erano ben preparati ma certo non valevano gli altri sopracciò della scatto europeo... Ancora più onesto sarebbe stato se avesse ricordato ai suoi interlocutori che la scuola della staffetta veloce non era già da compiangere in Italia: a Los Angeles, quattro anni prima, Castelli, Maregatti, Salviati e Toetti avevano bravamente conquistato il bronzo. Imperversando in Germania e altrove le vezzose teorie sulle razze degli uomini, agli italianuzzi si continuava a guardare come a poveri cani da pagliaio... però alla classifica ufficiosa dei Giochi di Berlino, questo si nota: che prima viene la Germania, secondi gli Usa, terza l' Italietta di sempre. Segno che qualcosa stava mutando anche da noi. Americani, inglesi, francesi e scandinavi fecero gli scandalizzati commentando il rabbioso impegno dei tedeschi: e che altro dovevano fare, perdere per far piacere a loro? La verità è che recedere da certe posizioni è sempre spiacevole. I tedeschi avevano imparato da noi il dilettantismo di Stato: poi, sarebbero venuti i sovietici ed i loro alleati: nè gli invidiosi avrebbero cessato di far malevolenza... Una vittoria scandalosa venne considerata quella italiana nel calcio. Vittorio Pozzo aveva avuto una pensata sottile, gabellando per studenti quelli che erano ormai professionisti della più bell' acqua. Vero è però che pedatando studiavano. Pozzo impostò una squadretta di astuti italianisti con due liberi in area (il non ancora trapassato W). I favoriti svedesi si avventarono ai piccoletti del Giappone e poco onorando il WM inglese ne presero tre (a zero) in contropiede. Poi i giapponesi si avventarono agli azzurri, sempre legati al loro chiotto W, e in contropiede ne beccarono nove! Alla finale pervenne con l' Italia un' altra mittleuropea impostata difensivisticamente a W: l' Austria. Sempre giocando umile a difesa, l' Italietta mise due pappine con Nibal Frossi alle spalle del portiere austriaco. Gli alleati tedeschi facevano un tifo d' inferno per i fratelli austriaci e qualche ingenuo italianuzzo di fede fascista prese cappello. "Il finale - racconta Emilio De Martino - fu emozionantissimo. Agli austriaci toccò sul 2-1 di battere una punizione dal limite. Noi tutti con il fiato sospeso. Ma finalmente il famoso Tognin Vergessen tirò fuori il fallo". Amen.


“la Repubblica”, 27 luglio 1984  

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