E Lanzi morse le
nuvole correndo senza cervello
Uno dei più triti luoghi
comuni concernenti una Olimpiade, risale alla edizione davvero
kolossal di Berlino 1936. Pretende questo luogo comune che il
Reichfhurer Adolf Hitler sia sempre squagliato dallo stadio al
momento di stringere la mano al fenomenale negro Jesse Owens,
trionfatore nelle due gare di scatto, nel salto in lungo e nella
staffetta 4x100. E perché mai squagliava il folle dittatore? Perché
proprio Owens smentiva le sue cervellotiche pretese circa la
superiorità della razza ariana su tutte le altre famiglie umane.
Ora tutto questo è
abbastanza grottesco. Non risulta che Hitler capisse molto di sport
ma certo gli bastavano i risultati di mezzo secolo per convincersi
che i negri di America conservavano doti primigenie ormai perdute
dagli ariani europei e no. Intrigarlo in questi giochetti banali non
è onesto: e tanto più fa specie la balla sull'avversione di Hitler
per Owens, in quanto sapevano tutti che, fino a ieri, negli
spogliatoi americani figuravano sempre due panchine, una delle quali
riservata agli atleti di colore, e non per rendergli omaggio... Erano
invece assai generosi gli spettatori tedeschi nei confronti del
grande Jesse, risultato deludente nel solo salto in lungo. Azzeccò
un volo al di là degli otto metri ma apparve casuale, in certo modo
rimediato. La sua velocità era forse troppo alta per consentirgli
una congrua rullata: molto più corretto ed elegante di lui in
elevazione era il nostro esile Maffei, che purtroppo non era
abbastanza veloce da protrarre l'inerzia anche in volo. Maffei
costituiva il paradigma classico dello stile "tre passi e mezzo"
predicato da Comstock. Owens arrivava sparato all' asticella in capo
alla pedana e non sempre riusciva a trasformare l'inerzia in
elevazione. I suoi frenetici passi in aria nuocevano spesso alla
riuscita del salto: ma tant'è: Owens non aveva rivali nello
sprintare e lanciarsi: quand'anche la rullata fosse minima, il suo
volo riusciva imponente. Ed infatti vinse, pur saltando malaccio, e
tolse la medaglia d'oro a un tedesco che aveva il nome in capo, Lang.
Il poveretto aveva perfezionato uno stile efficace ed elegante:
rullata, un solo passo e mezzo, riunione dei piedi in volo e slancio
delle braccia appaiate verso l'alto. Purtroppo, non era che un povero
ariano!
A dimostrare che
l'atletica italiana aveva raggiunto livelli di imponenza
continentale, intervenne anche Mario Lanzi sugli 800 metri, ma come e
più di sempre si comportò da scapato. Era un atleta splendido,
novarese di Borgoticino. La povertà e l' ignoranza lo avevano
indotto a sprecarsi da ragazzo in campestri e traversate di paese (o
tramagli). La sua struttura era del velocista puro. Non si fosse
modificato organicamente, ciampicando per prode e carrareccio, chissà
cosa avrebbero potuto dare i suoi muscoli tozzi e forti! Invece,
tornò penosamente sulla velocità prolungata e sugli 800, allora
considerati la disciplina più breve del mezzofondo. Nei 400 non
seppe mai dare una giusta misura del suo valore. Negli 800 compì
molte stranezze per una quasi totale mancanza di acume tattico. Nel
1904, ai primi Europei di Torino, credette di sapere che lo svedese
Ny tirasse a stabilire il nuovo record del mondo in semifinale: così
gli stette sempre dietro, a quell' altro stonato babbeo, e quando
ormai era tramontato il record, saltò fuori per umiliarlo sullo
spunto: il domani, incontrò il magiaro Zsabo in semifinale e morse
le nuvole! A Berlino, lasciò che prendesse la testa il lungo
Woodruff e conducesse la gara a piacimento; lui, intronato, tagliava
il passo dietro agli ultimi. Quando si accorse che Woodruff non
avrebbe desistito, saltò fuori di curva con uno scatto da ossesso:
entusiasmò la folla, sorpresa da così tardiva resipiscenza, ma non
inquietò minimamente Woodruff, che gli lanciò un' occhiatina di
sguincio e si limitò ad abbreviare un poco la falcata, ancora sin
troppo distesa e comoda: il funambolico negro finì in 1' 52"9,
che è tempo da allievo moderno, e il fenomenale ma stolido Marion
Lanzi ottenne 1' 53"3, e la medaglia d' argento. Due anni or
sono, Sebastian Coe corse a Firenze in 1' 41"7 e proseguì sullo
slancio per defatigarsi: non ansimava neppure... Lanzi battè la capa
nel muro, come era solito, e deplorò di non aver capito che avrebbe
dovuto attaccare un po' prima. Commentò Woodruff che anche lui
avrebbe cambiato passo, nel caso che l' italiano lo avesse attaccato
all' inizio del rettilineo. Naturalmente si deplorò Lanzi - secondo
costume nazionale - ma si preferì credere a lui, alla sua classe
potenziale, non meno grande della sua fessaggine. Lanzi ebbe sfortuna
marcia nella sua lunga e distorta carriera. A Parigi, negli Europei
1938, trovò certo Harbig e ne fu tanto scosso che perdette anche il
secondo posto, ad opera di un giovane sconosciuto francese. Esclamò
dopo quella gara dissennata che avrebbe divorato un serpente. La
sorte gli mise di fronte Harbig, che senza stritolarlo nelle sue
spire praticamente lo distrusse. Comstock ci insegnò per l'
occasione come si può sbagliare tutto nel preparare un ottocentista:
fece correre a Lanzi una 600 metri (mi pare in 1' 21") e con
solenne sicumera gli garantì il primato mondiale. Si correva a
Milano sui 500 metri dell' Arena. Lanzi era sicuro di sè e fece l'
andatura nell' ingenuo sogno di stroncare il tedesco sul passo.
Harbig lo seguì fino all' ultima curva, dalla quale balzò fuori con
falcate di incredibile foga e bellezza. Lanzi si piantò allora come
quei brocchi ai quali non bastano i paraocchi per risparmiarsi l'
umiliazione del sorpasso: poveretto, non doveva credere ai propri
occhi: Harbig terminò ingobbito ma trionfante nel tempo, allora
incredibile di 1' 46"6. Lanzi finì sullo slancio in 1' 49",
che resistette per anni come record italiano. In tutto il mondo si
fecero smorfie alla notizia di quel mirabolante primato di Harbig:
nessuno voleva crederci: per fortuna, all' Arena era venuto il mio
amico Gaston Meyer, francese, dunque insospettabile di amore per i
tedeschi. Gaston prese i suoi bravi tempi e scrisse come gli dettava
l' ammirazione, non il dispetto dell' askenazy. Nei giochi di Berlino
1936 toccò all' Italia un solo titolo nell' atletica: lo vinse
Ondina Valla sugli 80 ostacoli. E quarta fu Claudia Testoni in
fotografia. Ondina è un generoso dono della Lomellina pavese a
Bologna la dotta. Il suo nome vero è Trebisonda, che contrasta
buffamente con la sua natia bellezza di donna e di atleta. A
Frascarolo Po se la ricordano piccolina in casa della nonna paterna.
Suo padre lavorava in ferrovia. A Bologna l' hanno subito impostata
sui salti e poi sugli ostacoli, che ha praticato con entusiasmo non
inferiore ai mezzi. Era più veloce di lei la bolognese verace
Claudia Testoni ma, proprio quel giorno, a Berlino, le successe
qualcosa di molto intimo che non poteva giovare alla sua prestazione.
Le ragazze della finale giunsero gomito a gomito. La fotografia
premiò Ondina che certo si meritava tanta gloria. Claudia, lei si
rifece in seguito stabilendo il nuovo primato del mondo, brava
figlia. Ma a Berlino ebbero modo entrambe di sperare in un trionfo: e
fu durante la staffetta 4x100: ma perdettero banalmente il
testimone... Molto meglio delle ragazze fecero i maschi della
staffetta di scatto: furono i soli a non perdere la testa nel
vorticare degli americani e conquistarono la medaglia d' argento con
un prestigioso 41"2 (gli americani, quelli erano scesi sotto i
40": ma il più brocco valeva 10"4). Gli staffettisti si
chiamavano Ragni, Gonnelli, Caldana e Mariani. Boyd Comstock venne
molto complimentato per questa prodezza. Fu onesto nel riconoscere
che i ragazzi erano ben preparati ma certo non valevano gli altri
sopracciò della scatto europeo... Ancora più onesto sarebbe stato
se avesse ricordato ai suoi interlocutori che la scuola della
staffetta veloce non era già da compiangere in Italia: a Los
Angeles, quattro anni prima, Castelli, Maregatti, Salviati e Toetti
avevano bravamente conquistato il bronzo. Imperversando in Germania e
altrove le vezzose teorie sulle razze degli uomini, agli italianuzzi
si continuava a guardare come a poveri cani da pagliaio... però alla
classifica ufficiosa dei Giochi di Berlino, questo si nota: che prima
viene la Germania, secondi gli Usa, terza l' Italietta di sempre.
Segno che qualcosa stava mutando anche da noi. Americani, inglesi,
francesi e scandinavi fecero gli scandalizzati commentando il
rabbioso impegno dei tedeschi: e che altro dovevano fare, perdere per
far piacere a loro? La verità è che recedere da certe posizioni è
sempre spiacevole. I tedeschi avevano imparato da noi il
dilettantismo di Stato: poi, sarebbero venuti i sovietici ed i loro
alleati: nè gli invidiosi avrebbero cessato di far malevolenza...
Una vittoria scandalosa venne considerata quella italiana nel calcio.
Vittorio Pozzo aveva avuto una pensata sottile, gabellando per
studenti quelli che erano ormai professionisti della più bell'
acqua. Vero è però che pedatando studiavano. Pozzo impostò una
squadretta di astuti italianisti con due liberi in area (il non
ancora trapassato W). I favoriti svedesi si avventarono ai piccoletti
del Giappone e poco onorando il WM inglese ne presero tre (a zero) in
contropiede. Poi i giapponesi si avventarono agli azzurri, sempre
legati al loro chiotto W, e in contropiede ne beccarono nove! Alla
finale pervenne con l' Italia un' altra mittleuropea impostata
difensivisticamente a W: l' Austria. Sempre giocando umile a difesa,
l' Italietta mise due pappine con Nibal Frossi alle spalle del
portiere austriaco. Gli alleati tedeschi facevano un tifo d' inferno
per i fratelli austriaci e qualche ingenuo italianuzzo di fede
fascista prese cappello. "Il finale - racconta Emilio De Martino
- fu emozionantissimo. Agli austriaci toccò sul 2-1 di battere una
punizione dal limite. Noi tutti con il fiato sospeso. Ma finalmente
il famoso Tognin Vergessen tirò fuori il fallo". Amen.
“la Repubblica”, 27
luglio 1984
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