Pietro Ingrao (terzo da destra) con i redattori dell'Unità |
Roma
«E pensare che giocavo
bene a tennis», dice il novantunenne Pietro Ingrao, mentre avanza
con passo lento nella sua frugale casa, dritto come un fuso e una
memoria che sfiora il prodigio. «Il battito asciutto della pallina
sul campo aveva per me un effetto terapeutico. Bastavano pochi colpi
per cancellare comitati centrali, riunioni di direzione,
interminabili segreterie...».
Di match point è
costellata anche la sua vita. È stato uno dei grandi capi del
comunismo italiano, ha attraversato la storia del Novecento quasi
sempre in prima linea - la cospirazione antifascista, la guerra,
l'Unità clandestina, poi le istituzioni repubblicane nel loro
sorgere tempestoso - , ha incontrato personaggi come Stalin, Mao e
Che Guevara, ma la sua esistenza appare segnata da una vena
d'inquietudine mai appagata. Volevo la luna è l' efficace
titolo dell'autobiografia che racconta con passione e severità il
romanzo d'una vita intensa e forse mai pienamente risolta (Einaudi,
in uscita il 12 settembre). Un feuilleton ottocentesco, nei primi
capitoli, con la storia degli avi garibaldini che cospirarono contro
i Borboni e quel romantico incesto tra nonno Francesco e la splendida
cugina Marianna da cui trae origine la progenie Ingrao.
Se c'è una trama
segreta, in Volevo la luna, va cercata nell'intima ribellione
che anima costantemente il protagonista. Sin da bambino, quando
figlio dei signori di Lenola, l'agiato ceto agrario del basso Lazio,
partecipa ai rituali borghesi però dolendosi della distanza del
mondo contadino. O da ragazzo, nei primi anni Trenta, lettore di
Joyce e Kafka contro le semplificazioni sommarie della cultura
ufficiale, e ancora studente dei Littoriali, ma con i primi germi del
dissenso antifascista. Più tardi la scelta di vita comunista, anche
questa segnata da dubbi, perplessità, insofferenza verso le formule
teologiche del credo sovietico. Fino al dissenso esplicito negli anni
Sessanta, con quell'epilogo da eretico verso gli stessi eretici: è
rimasto storico il voto con cui Ingrao radiò gli ingraiani dal suo
partito («La cosa più sbagliata ma anche la più assurda. Fu più
forte il richiamo della chiesa comunista»).
Da cosa nasce questa
inquietudine? «Fin da piccolo, ebbi l'abitudine di interrogarmi
sulle cose. Vivevo tra i contadini, ma ne avvertivo la distanza. Non
erano nostri pari. In certo modo lì ebbe origine la mia riflessione
sull'oppressione di classe e sul mondo diviso fra sfruttatori e
sfruttati». La sua critica verso Togliatti è molto nitida. Sono
descritte le sue durezze, i protratti silenzi, la lunga e
insopportabile soggezione a Mosca. Insomma, una resa dei conti senza
reticenze. «Sì, il suo percorso fu più complesso e contraddittorio
di quanto sia stato scritto, come di errori e contraddizioni è
disseminato il mio. Ma tra noi c'era anche un rapporto umano molto
forte, coltivato nei lunghi anni della mia direzione dell'Unità. Da
gran rompiscatole, non mancava di farmi avere continuamente i suoi
bigliettini, più o meno di questo tenore: "ma che cavolo volevi
dire?". Quando parlava alla Camera c'era un rito: dopo
l'intervento, veniva in redazione per rivedersi il testo, parola per
parola. Sudatissimo, c'era qualcuno che l' sciugava. E intanto lui
correggeva parole e virgole, secondo fissazioni bizzarre. Era
persuaso che si dicesse "arme", non "arma". Così
scriveva Missiroli, che a lui piaceva molto. Io storcevo il naso».
Qualche volta però lei
scelse di non interpellare il segretario. «Fu all'indomani del XX
Congresso, al principio del 1956, dopo le rivelazioni di Krusciov sui
crimini di Stalin. Togliatti aveva il testo del rapporto segreto, ma
al rientro da Mosca non ne fece parola: né con noi né con i
giornalisti che l'attendevano all'aeroporto. E sulle denunce dello
stalinismo tacque anche al Comitato Centrale di marzo, dove ebbe solo
accenti apologetici per l'Urss. E noi dell'Unità costretti a stare
zitti, mentre nel mondo si scatenava la bufera. Quando sulla stampa
americana comparve il misterioso rapporto, mi feci coraggio e, senza
interpellarlo, pubblicai un resoconto». E Togliatti? «Laconico,
come sempre. "Hai visto?", gli domandai trepido. "Ho
visto", fu la risposta». Finì lì? «No, l'evento più pesante
fu a Livorno, nell'aprile successivo, durante l'assemblea generale in
vista delle elezioni comunali. Nella relazione Togliatti non fece
nessun accenno al tema dello stalinismo. La nostra protesta assunse
forme diverse. Al momento dell'applauso, Pajetta e Amendola stesero
le mani sul panchetto per sottolineare che non applaudivano. Nel
discorso conclusivo, Togliatti fu ancora muto sul "rapporto
segreto". Aggiunse solo alcune brevi amarissime parole sulle
tempeste che aveva attraversato».
Avevate un rapporto
confidenziale. Si è mai lasciato andare sulle nefandezze di Mosca?
«No, mai. Aveva avuto una vita tragica, se ne avvertiva l'eco anche
nei silenzi. Solo una volta lo vidi esplodere corrucciato. Fu durante
un incontro con D'Onofrio, che si doleva col segretario per un
trasferimento non desiderato. Lo gelò: "E allora cosa avrei
dovuto fare io quando diceste sì a Stalin che non voleva farmi
tornare in Italia?"». Anche Nilde Iotti era reticente? «No,
con Nilde si parlava più serenamente. Mi confessò una volta il
sospiro di sollievo che lei e Palmiro avevano tratto sul treno che li
allontanava dalla frontiera sovietica. Stalin era ancora vivo». Nel
1961 la leadership di Togliatti sembra sbandare. Lei racconta di
un'aspra riunione del Comitato Centrale, che però lasciò una
traccia scritta mitigata. «I suoi ripetuti silenzi sullo stalinismo
lasciarono molti di noi amareggiati. L'attacco partì da Amendola,
seguito da Natoli, Chiaromonte, Alicata, Salinari, io stesso.
Togliatti replicò con toni ancor più brucianti. S'accomiatò con
una minaccia: se volete farmi la lotta, sono pronto».
Era stato Franco Fortini,
incontrato casualmente nel 1940, a parlarle per primo delle purghe
staliniane? «No. Sapevamo già da tempo. Ma ci fu un colpevole
silenzio. Il mito di Stalin scavalcava tutto. L'evento che sconvolse
il nostro gracile gruppo romano fu nel 1939 lo sciagurato patto
Ribbentrop-Molotov. Antonio Amendola, Lucio Lombardo Radice e io
stesso fummo duramente critici. Aldo Natoli esitò: e fu strano
perché Aldo era tra i più rigorosi e i più maturi fra di noi».
Della cospirazione antifascista, lei dà un ritratto assai poco
eroico, restituendone anche fragilità e cedimenti. «Eravamo esseri
umani che imparavano - passo a passo - la lotta sociale in un momento
molto difficile. Nel nostro piccolo vivevamo anche vicende
amarissime. Antonio Amendola fu colpito da un grave disturbo
psichico. Fummo costretti - per ragioni di sicurezza - ad
interrompere i rapporti con lui. Fu una storia dolorosa: io da
Antonio avevo appreso quasi tutto». Con Amendola aveva partecipato
anche ai Littoriali. «E per questo Antonio s'era beccato una
condanna furente dal fratello Giorgio, confinato a Ponza, che solo
dopo avrebbe compreso l'importanza di quei nostri incontri: furono
per noi occasione di maturazioni preziose, laboratori di coscienza
antifascista. Senza i Littoriali sarei rimasto un pischelletto di
provincia. Eppure nell'immediato dopoguerra subii un processo dalla
stampa di destra: ma come, hai scritto un inno fascista a Littoria e
ora fai il comunista? Fu Togliatti a dirmi di fregarmene di quegli
"scocciatori reazionari"». Sessant' anni dopo, più o meno
si parla delle stesse cose. Ma ripensando a quella stagione, cosa la
mosse a partecipare ai Littoriali? «Il desiderio di stare nel
clamore. Ho amato troppo l'applauso». Quanto ancora ha contato
l'amore dell'applauso nella sua vita successiva? «Ahimé, sempre.
Eh, la vanità... Però con una riserva costante: l'interesse e il
rispetto per il dubbio. In fondo questa mia autobiografia è un libro
sulla possibilità di dubitare, negata per troppo tempo nel Pci.
Credo che la grande tragedia del comunismo e la ragione della sua
sconfitta abbia origine anche in questo: nel monolitismo,
nell'unanimismo forzato, in un'idea imbalsamata di classe,
nell'adesione acritica al catechismo di Lenin e Stalin».
Lei ricorda con disagio
il discorso pronunziato da Mao a Mosca nell'autunno del 1957. «Sì,
è come se lo rivedessi ora: un omone imponente, che ci accolse con
grandi pacche sulle spalle. Profetizzò un radioso avvenire a prezzo
di milioni di vite uccise. Nessuno ebbe il coraggio di obiettare. A
peggiorare le cose, provvide il compagno francese Duclos, con una
pesante filippica contro di noi. Chiesi a Togliatti se era il caso di
replicare. Rispose con un "no" rabbioso. Poi in macchina
proruppe in invettive da trivio, come mai l'avevo sentito». Nel
libro ci si imbatte in parole proibite come "frazionismo".
«Sì, il frazionismo allora era un termine maledetto, ma invece
sarebbe stato necessario e vivificante. L'avessi sostenuto all'epoca,
sarei finito nel rogo». Però negli anni Sessanta lei dà avvio a
una sorta di frazione. Per poi decidere insieme al Partito a favore
dell'espulsione dei suoi stessi fratelli. «Non so dire altro che
uscii di senno. Io pure avevo assorbito un fondo chiesastico che mi
indusse all'errore fratricida. Uno sbaglio grave, non solo per il
tradimento verso quei compagni, ma anche perché annullava il
principio del dissenso: un nodo che per me divenne vitale per la
costruzione di un soggetto rivoluzionario articolato e molteplice».
La sua autobiografia è
anche una toccante dichiarazione d' amore per sua moglie Laura
Lombardo Radice, un misto di rigore e dolcezza. «Sì, siamo stati
molto uniti nella vita. E io ho avuto un dono enorme da lei. Anche
quando con grazia ironica usava tirarmi le orecchie, per aprirmi gli
occhi. Ricordo quando le feci leggere la Dichiarazione
programmatica che Togliatti mi aveva sollecitato per il congresso
del partito, nel dicembre del 1956. "Mi sembra il rosario della
Madonna di Pompei". Avvampai di rabbia, ma aveva ragione lei».
Sfilano nel racconto tanti volti femminili. Perfino Alida Valli, la
più amata della vostra generazione. «La incontrai al Centro
sperimentale di cinematografia, che frequentai alla metà degli anni
Trenta. Era bellissima, ma fredda e un po' altera». A un certo punto
lei confessa che era "quasi innamorato" di Marcella
Ferrara, allora segretaria di Rinascita. «Non rimasi insensibile al
fascino di Marcella, donna di gran temperamento. In quegli anni - ma
non vorrà scrivere anche questo? - le richieste sentimentali non mi
mancavano. Il nostro non era un partito né di freddi né di casti».
Se c'è un'immagine che
si staglia nel libro, è la grande scalinata che conduce allo studio
di Togliatti. Cos'è che non le piaceva di quella scala? «La
vastità, lo sterminato numero di gradini. Era una delle cose assurde
di Botteghe Oscure. Quando, circa alla metà degli anni Cinquanta,
fui chiamato in Segreteria - posto nevralgico di potere - mi perdevo
nel saliscendi dell'immenso palazzo, tra ampi corridoi e riunioni
interminabili. Non ero tagliato per quella vita. Tra lo stupore di
molti, decisi di lasciare».
“la Repubblica”, 8
settembre 2006
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