8.1.17

Un groviglio irrisolto di pathos e speranza. Le “Cronache” di Pratolini (Claudia Bertoni)

Una immagine dal film di Carlo Lizzani, "Cronache di poveri amanti" (1954)
Tra i nostri vari autori ormai relegati in una sorta di canone secondario, ancora noti ma pacificamente ostracizzati dalla critica, Vasco Pratolini è un caso da manuale: sempre familiare al pubblico (anche grazie a film peraltro per lo più non all’altezza né dei libri né dei registi), ma ritenuto indegno di ridiscussione, senz’altro classificato – sulla scia di giudizi ripresi alla svelta – come esempio di articolazione populista e melensa dell’ideologia comunista. Un’etichetta che, oltre a offuscare l’eterogeneità della sua produzione (passata dall’autobiografismo intimista agli attraversamenti lungo fasce sociali e tecniche compositive disparate dello Scialo e di Allegoria e derisione), ne misconosce l’interesse: come può ora indurre a verificare la ripubblicazione, per la Bur «Scrittori contemporanei», di tre suoi romanzi: Cronache di poveri amanti, Le ragazze di Sanfrediano e Metello, introdotti rispettivamente da Walter Siti, Francesco Piccolo e Antonio Pennacchi.
Le ragazze di Sanfrediano è una messinscena graffiante di giochi di seduzione che celano aspri rapporti di forza e di ossessioni divistiche rifluite nella quotidianità che quasi precorrono i reality show, ma non va oltre il bozzetto circoscritto; Metello, spunto di una famosa polemica tra Salinari e Muscetta e di un controverso ripensamento della politica culturale del Pci e del concetto di realismo, è un Bildungsroman ravvivato da caratterizzazioni efficaci ma imbrigliato in una didascalica corrispondenza tra maturazione politica e maturazione affettiva (un commento a parte meriterebbe poi la prefazione di Pennacchi, che difende dalle obiezioni di Muscetta e Fortini non il libro ma un protagonista risolutamente umanizzato, nel seguente modo: «’sto cristiano […]si ritrova a dover fare il capo e il sobillatore, ci va pure in galera, che altro deve fare di più? Deve uscire dalle pagine e ti deve dare una bastonata in testa?»); a sollecitare di più la riflessione è il testo che cronologicamente viene prima, Cronache di poveri amanti (1947), storia corale di un microcosmo fiorentino, Via del Corno, all’epoca dell’irrigidimento della dittatura fascista.
Si tratta di un’opera di semplicità ingannevole: lo stile apparentemente piano nasce, come indica la densissima prefazione di Siti, da un laborioso impasto di influssi, intreccia sonorità epiche e ritmi teatrali, riproduce il parlato collettivo con un indiretto libero modellato sui Malavoglia ma punteggiato da metafore e composti che riecheggiano le sperimentazioni novecentesche; e la narrazione destabilizza surrettiziamente le attese, perché la monodia delle sue linee portanti, il quadro di costume e l’engagement politico, passano in effetti per sbalzi e dissonanze, rivelano una polifonia sotterranea.
Per quanto tenero e nostalgico, indugiante su vecchie usanze (le «scampanate» burlesche, le fiere quaresimali) e fitto di stereotipi sedimentati (lo strozzino sordido, il pregiudicato gaglioffo), il quadro di costume non stinge in immagine oleografica, soprattutto perché distribuisce irregolarmente luci e ombre: il più simpatico degli eroi giovani, Mario, appare chiuso in una morale rigida che gli preclude la comprensione umana; la più fosca delle figure negative, la Signora, ex cortigiana che domina Via del Corno manipolando gli uomini e seducendo le ragazze, risulta mossa da una tormentata esigenza di rivalsa (che anticipa quella di un’altra «vecchia signora», la protagonista di un noto dramma di Dürrenmatt, decisa a trasformare in bordello il mondo che l’ha trasformata in prostituta). E le differenze si innestano su un’affinità di fondo, un’impossibilità di evasione dalla strada che è impossibilità di evasione da un destino asfittico, le cui forme vanno dall’endogamia spontanea (i consuoceri che rimasti vedovi si scoprono innamorati) alla dipendenza dai fantasmi dell’inconscio (il giovane che si ribella alla tirannia del padre per ricalcarne poi irresistibilmente le orme).
La comune oppressione ispira una solidarietà per nulla idillica, il cui centro aggregante è il gusto crudele del pettegolezzo, l’esplosione continua di scandali domestici, innocue storielle di corna o scoperte di segreti torbidi, verità che le dicerie distorcono o dicerie che (come la voce su una donna irreprensibile fabbricata a scopo di intrattenimento dal «ciaba-gazzettiere», il ciabattino Staderini) trovano inatteso fondamento: la costante tematica diviene risorsa compositiva, il testo, inanellando storie che sono già per i personaggi piacere narrativo, le rifrange in diverse prospettive, ne mostra i diversi versanti.
Se la raffigurazione di questo soffocamento acronico non si appiattisce quindi in elegia uniforme, anche l’evocazione della sterzata che l’attraversa, il consolidamento del regime, non prende un taglio monocorde, segue una prospettiva impegnata nitida ma non banalmente edificante. L’orizzonte ideologico è saldo, messo nettamente in luce dalla contrapposizione tra i fascisti Carlino e Osvaldo (uno freddamente deciso alla propria scelta, l’altro trascinatovi da una smania frustrata di azione), e i comunisti Corrado e Ugo (uno di integrità morale all’altezza del vigore fisico che lo ha fatto soprannominare Maciste, l’altro passato dalla deviazione al ravvedimento, entrambi insomma eroi positivi degni degli auspici di Alicata); ma le convinzioni non si distendono in parabole esemplari, si inarcano piuttosto in un groviglio irrisolto di pathos e speranza. La sfida della commozione è affrontata senza remore, ma anche senza tonfi retorici, da due scene in cui la deflagrazione della violenza ha come unico riscontro un dolore senza riscatto o una dolorosa inadeguatezza: la morte eroica di Maciste, confortata non da messaggi o commenti (la virata enfatica, nutrita di rimandi epici e biblici, che la precede, si dilegua davanti alla drammatica evidenza degli eventi), ma solo da un cordoglio privo di espressione («Mario e Milena s’azzardarono fuori […]Maciste ebbe due amici che lo vegliarono, nelle prime ore del suo lungo sonno»); e la morte in sordina del bottegaio Alfredo, accompagnata da una presa di coscienza disarmata e incerta («Ora capisco che al mondo non esiste soltanto la bottega, tuttavia non sono più in tempo per ricominciare. E chissà se non ricomincerei aprendo una pizzicheria!»). D’altra parte, gli spiragli sul futuro non si dilatano, le sorti dei personaggi sfuggiti alla chiusura della strada e del destino non si determinano, la fuga della coppia più giovane si interrompe, seppur provvisoriamente, nell’ultima delle albe che costellano il racconto, momento che segna insieme la rigenerazione dei sentimenti e l’angoscia del distacco (Fortini osserva che Pratolini è sì «un crepuscolare; ma dell’alba», tipica situazione di incrocio tra stati contrastanti); la ribellione consapevole non si precisa, è su uno sprazzo di ribellione istintiva e precaria, l’esasperazione del ciabattino conformista, che la vicenda si ferma. Filtrata ma non attutita da squarci lirici e tocchi pittoreschi, disseminata in una pluralità di fallimenti, compromessi e dubbi, la rappresentazione dell’ingiustizia resta dunque aperta, inquieta, non riconciliata.
Varrebbe la pena di riconsiderarla, specie in un’epoca di nuove epopee e ritorni al realismo, che, non più compressi ma neanche più alimentati da utopie e ideali politici, si risolvono spesso in esaltazioni di eroismi fine a se stessi e in realismi non meno ingenui perché conditi con frettolose salse di citazioni; ma questo è un altro discorso.


Alias il manifesto, 28 maggio 2011

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