Una immagine dal film di Carlo Lizzani, "Cronache di poveri amanti" (1954) |
Tra i nostri vari autori
ormai relegati in una sorta di canone secondario, ancora noti ma
pacificamente ostracizzati dalla critica, Vasco Pratolini è un caso
da manuale: sempre familiare al pubblico (anche grazie a film
peraltro per lo più non all’altezza né dei libri né dei
registi), ma ritenuto indegno di ridiscussione, senz’altro
classificato – sulla scia di giudizi ripresi alla svelta – come
esempio di articolazione populista e melensa dell’ideologia
comunista. Un’etichetta che, oltre a offuscare l’eterogeneità
della sua produzione (passata dall’autobiografismo intimista agli
attraversamenti lungo fasce sociali e tecniche compositive disparate
dello Scialo e di Allegoria e derisione), ne misconosce
l’interesse: come può ora indurre a verificare la ripubblicazione,
per la Bur «Scrittori contemporanei», di tre suoi romanzi: Cronache
di poveri amanti, Le ragazze di Sanfrediano e Metello,
introdotti rispettivamente da Walter Siti, Francesco Piccolo e
Antonio Pennacchi.
Le ragazze di
Sanfrediano è una messinscena graffiante di giochi di seduzione
che celano aspri rapporti di forza e di ossessioni divistiche
rifluite nella quotidianità che quasi precorrono i reality show, ma
non va oltre il bozzetto circoscritto; Metello, spunto di una famosa
polemica tra Salinari e Muscetta e di un controverso ripensamento
della politica culturale del Pci e del concetto di realismo, è un
Bildungsroman ravvivato da caratterizzazioni efficaci ma
imbrigliato in una didascalica corrispondenza tra maturazione
politica e maturazione affettiva (un commento a parte meriterebbe poi
la prefazione di Pennacchi, che difende dalle obiezioni di Muscetta e
Fortini non il libro ma un protagonista risolutamente umanizzato, nel
seguente modo: «’sto cristiano […]si ritrova a dover fare il
capo e il sobillatore, ci va pure in galera, che altro deve fare di
più? Deve uscire dalle pagine e ti deve dare una bastonata in
testa?»); a sollecitare di più la riflessione è il testo che
cronologicamente viene prima, Cronache di poveri amanti
(1947), storia corale di un microcosmo fiorentino, Via del Corno,
all’epoca dell’irrigidimento della dittatura fascista.
Si tratta di un’opera
di semplicità ingannevole: lo stile apparentemente piano nasce, come
indica la densissima prefazione di Siti, da un laborioso impasto di
influssi, intreccia sonorità epiche e ritmi teatrali, riproduce il
parlato collettivo con un indiretto libero modellato sui Malavoglia
ma punteggiato da metafore e composti che riecheggiano le
sperimentazioni novecentesche; e la narrazione destabilizza
surrettiziamente le attese, perché la monodia delle sue linee
portanti, il quadro di costume e l’engagement politico,
passano in effetti per sbalzi e dissonanze, rivelano una polifonia
sotterranea.
Per quanto tenero e
nostalgico, indugiante su vecchie usanze (le «scampanate»
burlesche, le fiere quaresimali) e fitto di stereotipi sedimentati
(lo strozzino sordido, il pregiudicato gaglioffo), il quadro di
costume non stinge in immagine oleografica, soprattutto perché
distribuisce irregolarmente luci e ombre: il più simpatico degli
eroi giovani, Mario, appare chiuso in una morale rigida che gli
preclude la comprensione umana; la più fosca delle figure negative,
la Signora, ex cortigiana che domina Via del Corno manipolando gli
uomini e seducendo le ragazze, risulta mossa da una tormentata
esigenza di rivalsa (che anticipa quella di un’altra «vecchia
signora», la protagonista di un noto dramma di Dürrenmatt, decisa a
trasformare in bordello il mondo che l’ha trasformata in
prostituta). E le differenze si innestano su un’affinità di fondo,
un’impossibilità di evasione dalla strada che è impossibilità di
evasione da un destino asfittico, le cui forme vanno dall’endogamia
spontanea (i consuoceri che rimasti vedovi si scoprono innamorati)
alla dipendenza dai fantasmi dell’inconscio (il giovane che si
ribella alla tirannia del padre per ricalcarne poi irresistibilmente
le orme).
La comune oppressione
ispira una solidarietà per nulla idillica, il cui centro aggregante
è il gusto crudele del pettegolezzo, l’esplosione continua di
scandali domestici, innocue storielle di corna o scoperte di segreti
torbidi, verità che le dicerie distorcono o dicerie che (come la
voce su una donna irreprensibile fabbricata a scopo di
intrattenimento dal «ciaba-gazzettiere», il ciabattino Staderini)
trovano inatteso fondamento: la costante tematica diviene risorsa
compositiva, il testo, inanellando storie che sono già per i
personaggi piacere narrativo, le rifrange in diverse prospettive, ne
mostra i diversi versanti.
Se la raffigurazione di
questo soffocamento acronico non si appiattisce quindi in elegia
uniforme, anche l’evocazione della sterzata che l’attraversa, il
consolidamento del regime, non prende un taglio monocorde, segue una
prospettiva impegnata nitida ma non banalmente edificante.
L’orizzonte ideologico è saldo, messo nettamente in luce dalla
contrapposizione tra i fascisti Carlino e Osvaldo (uno freddamente
deciso alla propria scelta, l’altro trascinatovi da una smania
frustrata di azione), e i comunisti Corrado e Ugo (uno di integrità
morale all’altezza del vigore fisico che lo ha fatto soprannominare
Maciste, l’altro passato dalla deviazione al ravvedimento, entrambi
insomma eroi positivi degni degli auspici di Alicata); ma le
convinzioni non si distendono in parabole esemplari, si inarcano
piuttosto in un groviglio irrisolto di pathos e speranza. La sfida
della commozione è affrontata senza remore, ma anche senza tonfi
retorici, da due scene in cui la deflagrazione della violenza ha come
unico riscontro un dolore senza riscatto o una dolorosa
inadeguatezza: la morte eroica di Maciste, confortata non da messaggi
o commenti (la virata enfatica, nutrita di rimandi epici e biblici,
che la precede, si dilegua davanti alla drammatica evidenza degli
eventi), ma solo da un cordoglio privo di espressione («Mario e
Milena s’azzardarono fuori […]Maciste ebbe due amici che lo
vegliarono, nelle prime ore del suo lungo sonno»); e la morte in
sordina del bottegaio Alfredo, accompagnata da una presa di coscienza
disarmata e incerta («Ora capisco che al mondo non esiste soltanto
la bottega, tuttavia non sono più in tempo per ricominciare. E
chissà se non ricomincerei aprendo una pizzicheria!»). D’altra
parte, gli spiragli sul futuro non si dilatano, le sorti dei
personaggi sfuggiti alla chiusura della strada e del destino non si
determinano, la fuga della coppia più giovane si interrompe, seppur
provvisoriamente, nell’ultima delle albe che costellano il
racconto, momento che segna insieme la rigenerazione dei sentimenti e
l’angoscia del distacco (Fortini osserva che Pratolini è sì «un
crepuscolare; ma dell’alba», tipica situazione di incrocio tra
stati contrastanti); la ribellione consapevole non si precisa, è su
uno sprazzo di ribellione istintiva e precaria, l’esasperazione del
ciabattino conformista, che la vicenda si ferma. Filtrata ma non
attutita da squarci lirici e tocchi pittoreschi, disseminata in una
pluralità di fallimenti, compromessi e dubbi, la rappresentazione
dell’ingiustizia resta dunque aperta, inquieta, non riconciliata.
Varrebbe la pena di
riconsiderarla, specie in un’epoca di nuove epopee e ritorni al
realismo, che, non più compressi ma neanche più alimentati da
utopie e ideali politici, si risolvono spesso in esaltazioni di
eroismi fine a se stessi e in realismi non meno ingenui perché
conditi con frettolose salse di citazioni; ma questo è un altro
discorso.
Alias il manifesto, 28
maggio 2011
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