Italo Calvino |
Appartenere a una civiltà
poligamica anziché monogamica cambia certamente molte cose. Almeno
nella struttura narrativa (unico campo in cui mi sento d’opinare)
s'aprono tante possibilità che l’Occidente ignora.
Per esempio, un motivo
molto diffuso nelle fiabe occidentali, l’eroe che vede un ritratto
della bella e istantaneamente s’innamora, lo ritroviamo anche in
Oriente, ma moltiplicato. In un poema persiano del XII secolo il re
Barham vede sette ritratti di sette principesse e s’innamora di
tutte e sette in una volta. Ciascuna d’esse è figlia d’un
sovrano d’uno dei sette continenti; Bahram le chiede in moglie una
per una e le sposa. Fa poi innalzare sette padiglioni, ognuno d’un
colore diverso e «costruiti secondo l’indole dei sette pianeti».
A ognuna delle principesse dei sette continenti corrisponderà un
padiglione, un colore, un pianeta e un giorno della settimana; il re
farà una visita settimanale a ognuna delle spose e ascolterà dalla
sua voce un racconto. I vestiti del re saranno del colore del pianeta
di quel giorno e le storie raccontate dalle spose saranno egualmente
intonate al colore e alle virtù del pianeta rispettivo.
Questi sette racconti
sono fiabe piene di meraviglie tipo le Mille e una notte, ma
hanno ognuno una finalità etica (anche se non sempre riconoscibile
sotto il manto simbolico) per cui il ciclo settimanale del re-sposo è
una ricognizione delle virtù morali come corrispettivo umano delle
proprietà del cosmo. (Poligamia carnale e spirituale dell’unico
maschio-re sulle molte spose-ancelle; nella tradizione il ruolo dei
sessi è irreversibile e su questo punto non c’è da aspettarsi
nessuna sorpresa). I sette racconti a loro volta comprendono vicende
amorose che si presentano in forma moltiplicata rispetto ai modelli
occidentali.
Per esempio, lo schema
tipico della fiaba d’iniziazione vuole che l’eroe passi
attraverso varie prove per meritarsi la mano della fanciulla amata e
un trono regale. In Occidente questo schema esige che le nozze siano
tenute in serbo per il finale, oppure, se avvengono nel corso del
racconto, precedono nuove vicissitudini, persecuzioni o incantesimi,
in cui la sposa (o lo sposo) viene prima perduta e poi ritrovata.
Invece qui leggiamo una fiaba in cui l’eroe a ogni prova che supera
si guadagna una nuova sposa, più altolocata della precedente; e
queste spose successive non si escludono a vicenda ma si sommano come
i tesori d’esperienza e saggezza accumulati durante la vita.
Sto parlando d’un
classico della letteratura persiana medievale, oggi accessibile in un
volumetto della Bur edito con cura encomiabile: Nezami, Le sette
principesse, introduzione e traduzione di Alessandro Bausani,
note di Alessandro Bausani e Giovanna Calasso, Rizzoli. Accostarci ai
capolavori della letteratura orientale per noi profani resta il più
delle volte un’esperienza approssimativa, perché è tanto se
attraverso le traduzioni e gli adattamenti ce ne arriva un lontano
profumo, e sempre arduo risulta situare un’opere in un contesto che
non conosciamo; questo poema in particolare è certo un testo quanto
mai complesso per fattura stilistica e implicazioni spirituali. Ma la
traduzione di Bausani (che appare minuziosamente aderente al fitto
tessuto di metafore e non si tira indietro nemmeno davanti ai giochi
di parole, riportando tra parentesi i vocaboli persiani), le copiose
note, l’introduzione (e anche l'essenziale corredo
d’illustrazioni) ci danno, io credo, qualcosa di più
dell’illusione di capire che cosa questo libro è, e d’assaporame
gli incanti poetici, almeno per quella parte che una traduzione in
prosa può trasmettere.
Abbiamo dunque la rara
fortuna d’annettere al nostro scaffale dei capolavori della
letteratura mondiale un’opera godibilissima e sostanziosa. Dico
rara fortuna perché quest’occasione è un privilegio di noi
italiani tra tutti i lettori occidentali, se è vero quanto dice la
bibliografia del volume: che l’unica traduzione inglese completa
del 1924 è scorretta, quella tedesca un parziale libero rifacimento
e di francesi non ne esistono. (Nella bibliografia non è invece
detto, ma è giusto sia ricordato, che questa stessa traduzione di
Bausani era già uscita anni fa per le edizioni «Leonardo da Vinci»
di Bari, sia pur con un corredo di note meno ricco.
Nezami |
Nezami (1141-1204), nato
e morto a Ganjè (nell’Azerbaigiàn ora sovietico; vissuto dunque
in un territorio in cui si fondono le stirpi iranica, curda e turca),
musulmano sunnita (a quell’epoca gli sciiti non avevano ancora
preso il sopravvento in Iran), racconta nelle Sette principesse
(Haft Peikar, letteralmente «le sette effigi», databile
intorno al 1200, uno dei cinque poemi da lui scritti) la storia d’un
sovrano del V secolo, Bahram V, della dinastia sasanide. Nezami
dunque rievoca in chiave di mistica islamica il passato della Persia
zoroastriana; il suo poema celebra insieme la volontà divina a cui
l’uomo deve rimettersi interamente e le varie potenzialità del
mondo terrestre, con risonanze pagane e gnostiche (e anche cristiane;
viene ricordato anche il grande taumaturgo Isu, ossia Gesù).
Prima e dopo le sette
fiabe narrate nei sette padiglioni, il poema illustra la vita del
principe, la sua educazione, le sue cacce (al leone, all’onagro, al
drago), le sue guerre contro i cinesi del Gran Khan, la costruzione
del castello, le sue feste ed ebbrezze, i suoi amori anche ancillari.
Il poema è dunque innanzitutto un ritratto del sovrano ideale, in
cui si fondono, come dice Bausani, l’antica tradizione iranica del
«re sacro» e quella islamica del pio sultano, sottomesso alla legge
divina.
Un sovrano ideale —
pensiamo noi — dovrebbe avere un regno prospero e sudditi felici.
Neanche per idea! Questi sono pregiudizi della nostra mentalità
terra terra. Che un re sia un prodigio di tutte le perfezioni non
esclude che il suo regno sia angariato dalle ingiustizie più
crudeli, in mano a ministri perfidi e avidi. Ma dato che il re gode
della grazia celeste, verrà il momento in cui la triste realtà del
suo regno si svelerà ai suoi occhi. Allora egli punirà il Vizir
infame e darà soddisfazione a chiunque venga a raccontargli le
ingiustizie subite: ecco dunque le «storie degli offesi» anch’esse
in numero di sette, ma certo meno attraenti che quelle altre.
Ristabilita la giustizia
nel regno, Bahram può riorganizzare l’esercito e sbaragliare il
Gran Khan della Cina. Adempiuto cosi il suo destino, non gli resta
che scomparire: difatti sparisce letteralmente in una caverna, dove
s’era spinto a cavallo per inseguire l’onagro che stava
cacciando. Il re insomma è, dice Bausani, «l’Uomo per
eccellenza»: quel che conta è l’armonia cosmica che in lui
s’incarna, armonia che in una certa misura si rifletterà anche sul
regno e i sudditi, ma che risiede sopratutto nella sua persona.
(Anche oggi, del resto, ci sono regimi che pretendono d’essere
lodevoli in sé e per sé, indipendentemente dal fatto che la gente
ci viva malissimo).
Le sette principesse
insomma fonde in sé due tipi di racconto «meraviglioso» orientale:
quello epico-celebrativo del Libro dei Re di Firdusi (il poeta
persiano del X secolo da cui Nezami prende le mosse) e quello
novellistico che dalle antiche raccolte indiane porterà alle Mille
e una notte. Certo il nostro piacere di lettori è più
gratificato da questa seconda vena (consigliamo perciò di cominciare
dalle sette fiabe e poi risalire alla cornice), ma anche la cornice è
ricca d’incanti fantastici e di finezze erotiche (molto pregiate,
per esempio, le carezze col piede: «Il piede del re nel fianco di
quella rubacuori s’insinuava tra la seta e il broccato»), così
come nelle fiabe il sentimento cosmico-religioso tocca punte molto
alte. (Si veda la storia del viaggio compiuto insieme da un uomo che
si rimette alla volontà di Dio e un uomo che vuole spiegare
razionalmente tutti i fenomeni: la caratterizzazione psicologica dei
due è così persuasiva che è impossibile non tenere per il primo,
il quale non perde di vista la complessità del tutto, mentre il
secondo è un saccente malevolo e meschino; la morale che possiamo
tirarne è che, più della posizione filosofica, conta 3 modo eli
vivere in armonia con la propria verità).
Separare comunque le
varie tradizioni che convergono nelle Sette principesse è
impossibile perché il vertiginoso linguaggio figurato di Nezami le
assorbe nel suo crogiolo, e stende su ogni pagina una lamina dorata
tempestata di metafore che s’incastonano le une nelle altre come
pietre preziose d’uno sfarzoso monile. Per cui l’unità
stilistica del libro appare uniforme, e s’estende anche alle partì
introduttive sapienziali e mistiche. (Ricorderò tra quest’ultime
la visione di Maometto che sale al cielo in sella a un cavallo
angelo, fino al punto in cui le tre dimensioni scompaiono e «il
Profeta vide Iddio senza spazio, udì parole senza labbra e senza
suono»).
Le fioriture di questo
arazzo verbale sono così lussureggianti che i nostri paralleli con
le letterature occidentali, al di là delle analogie delle tematiche
medievali, e attraversando la pienezza fantastica del Rinascimento
d’Ariosto e Shakespeare, vanno naturalmente al barocco più carico;
ma perfino l’Adone del Marino e il Pentamerone del Basile sembrano
duna laconica sobrietà, paragonati alla proliferazione di metafore
che ricopre fittamente il racconto di Nezami sviluppando un germoglio
di racconto in ogni immagine.
Questo universo
metaforico ha caratteristiche e costanti tutte sue. L’onagro, asino
selvatico dell’altipiano iranico — che a vederlo nelle
enciclopedie e, se ricordo bene, negli zoo, ha tutta l’aria d’un
modesto ciuchino — nei versi di Nezami riveste la dignità dei più
nobili animali araldici, e compare si può dire in ogni pagina. Nelle
cacce del principe Bahram gli onagri sono la preda più ambita e
difficile, citati spesso accanto ai leoni come avversari sui quali il
cacciatore misura la sua forza e destrezza. Nelle metafore poi
l’onagro è immagine di forza, anche di forza sessuale virile, ma
pure di preda amorosa (l'onagro preda del leone) e di bellezza
femminile e in genere di giovinezza. E poiché risulta anche avere
una carne prelibata, ecco che «fanciulle dagli occhi d’onagro
arrostivano al 'fuoco cosce d’onagro».
Altro elemento di
metafora polivalente è il cipresso: evocato a indicare robustezza
virile e naturalmente anche simbolo fallico, lo troviamo pure a
modello di bellezza femminile (la statura è sempre molto pregiata),
e associato alle chiome femminili, ma anche alle acque che scorrono e
pure al sole del mattino. Quasi tutte le funzioni metaforiche del
cipresso valgono poi anche per il cero acceso, più molte altre.
Insomma il delirio delle similitudini è tale che qualsiasi cosa può
voler dire qualsiasi cosa.
Come pezzi di bravura
fatti di metafore una dietro l’altra si ricordano una descrizione
dell’inverno, in cui a una serie d'immagini gelide («l’impeto
del freddo aveva fatto spada dell'acqua e acqua della spada»; la
nota spiega: le spade dei raggi solari diventano pioggia e la pioggia
diventa spade di lampi; e anche se la spiegazione non rosse vera,
resta sempre una bella immagine) succede un’apoteosi del fuoco, e
una simmetrica descrizione della primavera, tutta d’animazione
vegetale, tipo «la brezza si dette in pegno al basilico».
Catalizzatori di metafore
sono pure i colori, che dominano nelle sette fiabe. Come si fa a
narrare una storia tutta d’un colore? Il sistema più semplice è
far vestire di quel colore i personaggi, come nella fiaba nera in cui
si narra d’una signora che vestiva sempre di nero perché era stata
ancella d’un re che vestiva di nero perché aveva incontrato uno
straniero vestito di nero che gli aveva narrato d’un paese della
Cina tutto di nerovestiti...
Altrove il legame è solo
simbolico, basato sui significati attribuiti a ogni colore: il giallo
è il colore del sole e dunque dei re; dunque il racconto giallo
narrerà d’un re e culminerà in una seduzione, paragonata alla
forzatura d’uno scrigno che racchiude l’oro.
Il racconto bianco è
inaspettatamente il più erotico di tutti, immerso in una luce lattea
in cui vediamo muoversi «fanciulle dal seno di giacinto e dalle
gambe d’argento». Ma è anche il racconto della castità, come
cercherò di spiegare, per quanto nel riassunto tutto si perda. Un
giovane che tra i vari motivi di perfezione ha quello d’essere
casto, vede il suo giardino invaso da fanciulle bellissime che
danzano. Due di loro, dopo averlo fustigato credendolo un ladro (un
certo compiacimento masochista non è escluso), lo riconoscono come
padrone, gli baciano mani e piedi e lo invitano a scegliersi quella
di loro che più gli piace. Lui spia le ragazze mentre fanno il
bagno, fa la sua scelta e (sempre con l’aiuto delle due guardiane o
«poliziotte» che per tutto il racconto dirigeranno le sue mosse)
s’incontra da solo con la favorita. Ma in questo e negli incontri
seguenti succede sempre qualcosa al momento culminante per cui
l’amplesso va a monte: o crolla il pavimento della stanza, o un
gatto per acchiappare un uccellino piomba sui due amanti abbracciati,
o un topo rode il gambo d’una zucca su una pergola e il tonfo della
zucca che cade fa perdere al giovanotto l’ispirazione amorosa. Così
via fino alla conclusione edificante: il giovane comprende che prima
deve sposare la ragazza perché Allah non vuole che lui commetta
peccato.
Questo dell’amplesso
ripetutamente interrotto è un motivo diffuso anche nel racconto
popolare occidentale, ma sempre in chiave grottesca: in un cunto del
Basile gli imprevisti che si susseguono somigliano molto a quelli di
Nezami, ma ne vien fuori un quadro infernale di miseria umana,
sessuofobia e scatologia. Quello di Nezami invece è un mondo
visionario di tensione e trepidazione erotica insieme sublimato e
ricco di chiaroscuri psicologici, dove il sogno poligamico d’un
paradiso d'uri s’alterna alla realtà intima d’una coppia, e la
licenziosità scatenata del linguaggio figurato introduce ai
turbamenti dell’inesperienza giovanile.
“la Repubblica”,
ritaglio senza data, probabilmente 1982
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