28.1.17

Luigi Pintor: “Senso del pudore” (Quando Berlusconi abolì la tassa di successione)

Mantenendo una delle promesse agli italiani firmate a “Porta a porta”, nel giugno del 2001, rientrato a palazzo Chigi, Berlusconi eliminò la tassa di successione, un'antica misura, tipica dei governi liberali, tesa a ridurre l'inuguaglianza delle opportunità nella competizione economica e sociale. Si trattava in verità già allora di poca cosa (il 4% solo per la parte di eredità eccedente il valore di 300 milioni di lire o di un miliardo di lire nel caso di eredi con gravi handicap o malattie), ma Berlusconi andò avanti come un rullo compressore. Quando il centro-sinistra tornò al governo nel 2006 si guardò bene dal reintrodurre la tassa “liberale” antiprivilegio, anzi fu montata una campagna di criminalizzazione nei confronti di Bertinotti, colpevole di averne parlato in campagna elettorale, facendo perdere all'alleanza dell'Unione non si sa quanti milioni di voti. È tipico di questa ormai lunga epoca di neoliberismo una specie di comandamento: non mettere ostacoli alla crescita delle grandi ricchezze. L'argomento che si usa è che l'aumento delle disuguaglianze è compensato dalla crescita dei beni disponibili, per cui – nonostante l'allargarsi della forbice, anche i redditi bassi crescono e anche i poveri stanno un po' meglio. La crisi del 2008 e i suoi effetti nel tempo hanno reso evidente che così non è: che anzi la crescita abnorme della ricchezza di pochissimi fa crescere disgregazione e povertà. Se non si toglie ai ricchissimi e ai ricchi e non si distribuisce ai ceti di reddito basso e medio-basso non si rilanceranno mai i consumi e i capitali non si sposteranno dall'area della rendita speculativa (che prevede l'impoverimento di massa anche attraverso l'uso ricattatorio degli indebitamenti statali) alla produzione di beni e di servizi.
Di tutto ciò – ovviamente – non c'è (né potrebbe esserci) traccia nell'editoriale di Pintor che invece illustra il tema, a partire dal conflitto di interessi del capo del governo del tempo, Silvio Berlusconi. (S.L.L.)

Forse non ho capito bene questa faccenda della tassa di successione che Silvio Berlusconi ha deciso di abolire nel primo dei primi cento giorni di vita del suo governo. Se ho capito bene, il capo del governo ha deciso all’istante di detassare il suo patrimonio, come ogni altro patrimonio miliardario, affinché i suoi familiari e discendenti possano di generazione in generazione ereditarlo intonso. I ragazzi non potranno dire che è un frutto del sudore della loro fronte, ma questo sarà un titolo di merito in più.
Non c’è nessun conflitto di interessi in una misura legislativa così candida. C’è una coincidenza di interessi perfetta e assoluta. Supponendo che il presidente del consiglio disponga di un patrimonio di diecimila miliardi (non riesco a immaginare una cifra più alta), e supponendo che la tassa di successione sia da noi al 28% come in America (ma l’ineffabile sinistra di governo l’ha già ridotta a un ticket del 4%), il capo del governo regala a sé e ai suoi cari 2.800 miliardi: una grande opera. In più, alienando così vantaggiosamente il suo patrimonio, diventa povero e risolve il conflitto di interessi. Se poi moltiplicate l’operazione per tutti i multimiliardari d’Italia, la somma sottratta all’erario basterebbe a sistemare l’intero sistema idrofognario (per restare in tema) del Mezzogiorno.
Secondo le filosofie liberali (non bolsceviche o social-democratiche) e le annose teorie economiche la tassa di successione ha valore di principio. I miliardari americani implorano Bush di non abolirla o ridurla, perché dove va a finire sennò la leggenda del self-made-man, delle pari opportunità e vinca il migliore? Ipocrisie borghesi, mi insegnavano un tempo i miei cattivi maestri, ma Luigi Einaudi ci credeva e i discendenti dei feudatari inglesi oggi aprono i loro castelli ai turisti per non finire in miseria. E le biografie patinate del presidente del consiglio non lo hanno sponsorizzato come uomo di gavetta? Dalla gavetta alla cornucopia nepotista.
Penso alla sofferenza interiore che deve provare un intellettuale liberale come Galli Della Loggia di fronte a questa decadenza del costume, alla difficoltà che incontrerà Lucio Colletti nel conciliare questi libertinaggi della casa della libertà con la filosofia di Popper, alle Fenici che il sottosegretario Sgarbi potrebbe ricostruire con quel 4%. L’on. Violante vorrebbe devolverlo in borse di studio, ma dubito che capeggerà un ostruzionismo parlamentare dopo averlo deplorato dal suo alto seggio, oggi gratuitamente ereditato dall’on. Casini.
Forse, contro una norma legislativa ad personam così sfrontata bisognerebbe appellarsi alla Corte costituzionale dappoiché la proprietà privata è altrimenti concepita nella Costituzione. Ma le Corti supreme, dalla Florida a Belgrado, contano meno di una pretura. Oppure bisognerebbe ricorrere all’Aja, se quel tribunale americano avesse una sezione civile contro i crimini di pace. Oppure appellarsi semplicemente al comune senso del pudore, come ha fatto saggiamente in extremis la signora Ferilli.


“il manifesto”, 30 giugno 2001

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