Mantenendo una delle promesse agli
italiani firmate a “Porta a porta”, nel giugno del 2001,
rientrato a palazzo Chigi, Berlusconi eliminò la tassa di
successione, un'antica misura, tipica dei governi liberali, tesa a
ridurre l'inuguaglianza delle opportunità nella competizione
economica e sociale. Si trattava in verità già allora di poca cosa
(il 4% solo per la parte di eredità eccedente il valore di 300
milioni di lire o di un miliardo di lire nel caso di eredi con gravi
handicap o malattie), ma Berlusconi andò avanti come un rullo
compressore. Quando il centro-sinistra tornò al governo nel 2006 si
guardò bene dal reintrodurre la tassa “liberale” antiprivilegio,
anzi fu montata una campagna di criminalizzazione nei confronti di
Bertinotti, colpevole di averne parlato in campagna elettorale,
facendo perdere all'alleanza dell'Unione non si sa quanti milioni di
voti. È tipico di questa ormai lunga epoca di neoliberismo una
specie di comandamento: non mettere ostacoli alla crescita delle
grandi ricchezze. L'argomento che si usa è che l'aumento delle
disuguaglianze è compensato dalla crescita dei beni disponibili, per
cui – nonostante l'allargarsi della forbice, anche i redditi bassi
crescono e anche i poveri stanno un po' meglio. La crisi del 2008 e i
suoi effetti nel tempo hanno reso evidente che così non è: che anzi
la crescita abnorme della ricchezza di pochissimi fa crescere
disgregazione e povertà. Se non si toglie ai ricchissimi e ai ricchi
e non si distribuisce ai ceti di reddito basso e medio-basso non si
rilanceranno mai i consumi e i capitali non si sposteranno dall'area
della rendita speculativa (che prevede l'impoverimento di massa anche
attraverso l'uso ricattatorio degli indebitamenti statali) alla
produzione di beni e di servizi.
Di tutto ciò – ovviamente – non
c'è (né potrebbe esserci) traccia nell'editoriale di Pintor che
invece illustra il tema, a partire dal conflitto di interessi del
capo del governo del tempo, Silvio Berlusconi. (S.L.L.)
Forse non ho capito bene questa
faccenda della tassa di successione che Silvio Berlusconi ha deciso
di abolire nel primo dei primi cento giorni di vita del suo governo.
Se ho capito bene, il capo del governo ha deciso all’istante di
detassare il suo patrimonio, come ogni altro patrimonio miliardario,
affinché i suoi familiari e discendenti possano di generazione in
generazione ereditarlo intonso. I ragazzi non potranno dire che è un
frutto del sudore della loro fronte, ma questo sarà un titolo di
merito in più.
Non c’è nessun conflitto di
interessi in una misura legislativa così candida. C’è una
coincidenza di interessi perfetta e assoluta. Supponendo che il
presidente del consiglio disponga di un patrimonio di diecimila
miliardi (non riesco a immaginare una cifra più alta), e supponendo
che la tassa di successione sia da noi al 28% come in America (ma
l’ineffabile sinistra di governo l’ha già ridotta a un ticket
del 4%), il capo del governo regala a sé e ai suoi cari 2.800
miliardi: una grande opera. In più, alienando così vantaggiosamente
il suo patrimonio, diventa povero e risolve il conflitto di
interessi. Se poi moltiplicate l’operazione per tutti i
multimiliardari d’Italia, la somma sottratta all’erario
basterebbe a sistemare l’intero sistema idrofognario (per restare
in tema) del Mezzogiorno.
Secondo le filosofie liberali (non
bolsceviche o social-democratiche) e le annose teorie economiche la
tassa di successione ha valore di principio. I miliardari americani
implorano Bush di non abolirla o ridurla, perché dove va a finire
sennò la leggenda del self-made-man, delle pari opportunità
e vinca il migliore? Ipocrisie borghesi, mi insegnavano un tempo i
miei cattivi maestri, ma Luigi Einaudi ci credeva e i discendenti dei
feudatari inglesi oggi aprono i loro castelli ai turisti per non
finire in miseria. E le biografie patinate del presidente del
consiglio non lo hanno sponsorizzato come uomo di gavetta? Dalla
gavetta alla cornucopia nepotista.
Penso alla sofferenza interiore che
deve provare un intellettuale liberale come Galli Della Loggia di
fronte a questa decadenza del costume, alla difficoltà che
incontrerà Lucio Colletti nel conciliare questi libertinaggi della
casa della libertà con la filosofia di Popper, alle Fenici che il
sottosegretario Sgarbi potrebbe ricostruire con quel 4%. L’on.
Violante vorrebbe devolverlo in borse di studio, ma dubito che
capeggerà un ostruzionismo parlamentare dopo averlo deplorato dal
suo alto seggio, oggi gratuitamente ereditato dall’on. Casini.
Forse, contro una norma legislativa ad
personam così sfrontata bisognerebbe appellarsi alla Corte
costituzionale dappoiché la proprietà privata è altrimenti
concepita nella Costituzione. Ma le Corti supreme, dalla Florida a
Belgrado, contano meno di una pretura. Oppure bisognerebbe ricorrere
all’Aja, se quel tribunale americano avesse una sezione civile
contro i crimini di pace. Oppure appellarsi semplicemente al comune
senso del pudore, come ha fatto saggiamente in extremis la signora
Ferilli.
“il manifesto”, 30 giugno 2001
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