Brenno e Marco Furio Camillo in una illustrazione da un manuale storico francese dell'Ottocento |
In un eccellente saggio
(Poesia e Magia; Einaudi 1971) Anita Seppilli dimostra, con
vastissima documentazione, la valenza magica della poesia, del nome,
della parola, il potere che essa possiede di rendere reale l'immagine
evocata, sia che a pronunciarla siano gli dèi (Fato, viene da
fari=parlare, è una cosa ormai detta e quindi irrevocabile) o
che siano gli uomini. Incantesimo, sortilegio, augurio e malaugurio,
benedizione e maledizione, anatema, esorcismo sono vocaboli carichi
di remotissime forze arcane, ancora operanti nell' animo umano. Da
essi si desume il perdurare, nel fondo atavico del nostro subconscio
della certezza che "la voce dal sen fuggita" sortirà
ineluttabilmente un effetto duraturo: chi da bambino non ha recitato
la cantilena per farsi passare il singhiozzo ("Singhiozzo, bel
singhiozzo - va in cantina, va nel pozzo...") o quella per
vincere la paura ("San Michele aveva un gallo - bianco, rosso,
verde e giallo...")?
Le fiabe, che trascinano
fino a noi, come i ghiacciai le morene, residui di pensiero d'età
immemorabile narrano spesso casi umani disperati; ma tutto si
risolverà felicemente se verrà pronunciata una formula magica. Nei
paesi dell' Alto Lazio, non si nomina mai un male inguaribile né un
animale pericoloso, come la vipera; li si designa con
circonlocuzioni: nominarli equivarrebbe a farli comparire
immediatamente. Le persone possiedono un nome segnato all' anagrafe,
ma compare solo sui documenti; di solito, vengono chiamate con un
nome diverso affinché, se qualcuno ha voluto operare a loro danno un
maleficio, non colga nel segno.
Non è stato mai rivelato
il vero nome del dio tutelare di Roma, per evitare che fosse noto ai
nemici e questi, in caso di assedio, potessero chiamarlo fuori con il
rito della "Evocatio" e convincerlo ad abbandonare
la città; pronunciò quella formula Scipione a Cartagine, Camillo a
Veio e le due città caddero. Una legge delle XII Tavole minaccia
pene severissime per chi pronunci un "malum carmen",
ovvero butti il malocchio, sui campi del vicino per fargli seccare il
raccolto. Sono state trovate moltissime tavolette di piombo, gettate
in laghi o fiumi affinché se ne facciano latori presso le divinità
infere coloro che sono annegati in quelle acque; più frequenti in
acque termali, che si ritenevano scaturite direttamente dall'
inferno, ad Abano come a Bath. Contengono l' auspicio che il rivale,
in amore o in competizione sportiva, sia colpito dai mali più
atroci, paralisi, cecità ed altri; il messaggio, si noti, designa il
destinatario della maledizione non con il patronimico, ma con il nome
della madre per esser certi che non vada smarrito (non si sa mai).
Imprecazioni crudelissime
sono spesso incise sui sepolcri contro l'incauto che si azzardi a
profanarli. A questo genere epigrafico appartengono certi proiettili
di piombo, simili a grosse olive, che si lanciavano con la fionda.
Sono state trovate sempre attorno a città che hanno subìto un
assedio. Nel Museo di Perugia si conservano quelle che le truppe di
Agrippa e di Ottaviano si scambiavano con le forze di Antonio e
Fulvia, rinchiuse nella città. Alcune recano inciso un fulmine e sul
retro l'augurio: Accipe (che si può tradurre: beccati un
fulmine!), altre destinate ad Antonio e Fulvia mi astengo dal
trascriverle; una infine degli Antoniani contro Ottaviano dichiara
con precisione il punto dov'è diretta: "Peto culum
Octaviani".
“la Repubblica”, 4
maggio 1994
Nessun commento:
Posta un commento