Di Paolo Volponi, uno dei
più grandi narratori e intellettuali italiani del '900, quello che
Pier Paolo Pasolini definì un «comunista lirico», è disponibile
subito, al presente, anche in una libreria di cultura, forse solo il
suo libro più attuale e profetico Le mosche del capitale (a
cura di Massimo Raffaeli, Einaudi 2010); magari riuscirete a ordinare
in rete anche Memoriale (Einaudi tascabili 2007) o le Poesie
1946-1994 (Einaudi 2001), ma di questo non sarei troppo sicuro.
Mancherebbero comunque all'appello almeno altri cinque o sei titoli cruciali della sua letteratura mai pacificata, un corpus coerente come pochi: dai romanzi di formazione Il lanciatore di giavellotto (1981) e La strada per Roma (1991), al Sipario ducale (1975), La macchina mondiale (1965), Corporale (1974) fino a quella favola apocalittica ambientata in un 2293 che ci riguarda più che mai: Il pianeta irritabile (1978), libro apparso per l'ultima volta nei tascabili Einaudi nel 1994, anno della morte dello scrittore urbinate, tutti caduti in prescrizione e da anni colpevolmente non più ristampati (i tre volumi curati con passione e rigore dal critico a lui più prossimo, Emanuele Zinato, usciti nella Nuova Universale Einaudi nel 2002, sono anche loro «attualmente non disponibili» su Ibs). Messi insieme raccontano gli snodi più decisivi della storia italiana lungo un secolo: dal fascismo al dopoguerra, il passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale, la strage di Piazza Fontana e gli anni '70, per finire con il libro che arriva ai giorni nostri come un boomerang, Le mosche del capitale.
Mancherebbero comunque all'appello almeno altri cinque o sei titoli cruciali della sua letteratura mai pacificata, un corpus coerente come pochi: dai romanzi di formazione Il lanciatore di giavellotto (1981) e La strada per Roma (1991), al Sipario ducale (1975), La macchina mondiale (1965), Corporale (1974) fino a quella favola apocalittica ambientata in un 2293 che ci riguarda più che mai: Il pianeta irritabile (1978), libro apparso per l'ultima volta nei tascabili Einaudi nel 1994, anno della morte dello scrittore urbinate, tutti caduti in prescrizione e da anni colpevolmente non più ristampati (i tre volumi curati con passione e rigore dal critico a lui più prossimo, Emanuele Zinato, usciti nella Nuova Universale Einaudi nel 2002, sono anche loro «attualmente non disponibili» su Ibs). Messi insieme raccontano gli snodi più decisivi della storia italiana lungo un secolo: dal fascismo al dopoguerra, il passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale, la strage di Piazza Fontana e gli anni '70, per finire con il libro che arriva ai giorni nostri come un boomerang, Le mosche del capitale.
Un
pensiero eretico
Spesso, e ingiustamente,
considerato uno scrittore «difficile» per la sua letteratura del
conflitto troppo aspra, dialettica, mai ammiccante, quello che
Volponi aveva immaginato in economia paradossalmente è accaduto
anche nell'industria editoriale, talmente ridotta ai minimi termini
da cancellarlo. «Gli editori fanno il mercato, anzi sono il mercato
e pensano solo al mercato» dice nel dialogo con l'amico Francesco
Leonetti in un altro libro desaparecido, Il leone e la volpe.
Ma più che cancellare uno scrittore che è già per molti di noi un
classico (sempre che in futuro si possa avere ancora cognizione di un
libro del passato che continua a parlare al presente), l'editoria
italiana ha abrogato vilmente per oltre un quarto di secolo proprio
la Letteratura prima che diventasse solo una merce, uno spettacolo,
un'occupazione per mediocri narcisi che si attaccano al marketing e
ai premi conclamati per esistere un paio di stagioni.
«Se di un brutto libro si vende mezzo milione di copie, quel libro cessa di essere brutto e diventa importante. (...) Quando i romanzi di consumo li si spaccia per altro, si finisce per vendere merci avariate» diceva Volponi, ancora nel 1994. A parte qualche rara iniziativa in controtendenza, per esempio le Comete Feltrinelli, che riportano in libreria il meglio di alcuni dei nostri scrittori più importanti (è annunciato persino un Di Ruscio), e in un contesto dove un Meridiano ormai non si nega più a nessuno, neanche ai vivi, soprattutto se innocui «letterati», per gli autori legati all'engagement non c'è molto spazio, pochissimo per quelli, non hanno mai abiurato l'ideologia, o comunque continuano ad essere abitati da un pensiero eretico.
«Se di un brutto libro si vende mezzo milione di copie, quel libro cessa di essere brutto e diventa importante. (...) Quando i romanzi di consumo li si spaccia per altro, si finisce per vendere merci avariate» diceva Volponi, ancora nel 1994. A parte qualche rara iniziativa in controtendenza, per esempio le Comete Feltrinelli, che riportano in libreria il meglio di alcuni dei nostri scrittori più importanti (è annunciato persino un Di Ruscio), e in un contesto dove un Meridiano ormai non si nega più a nessuno, neanche ai vivi, soprattutto se innocui «letterati», per gli autori legati all'engagement non c'è molto spazio, pochissimo per quelli, non hanno mai abiurato l'ideologia, o comunque continuano ad essere abitati da un pensiero eretico.
Piani di
trasformazione
Che scrittore è, e come
è fatta la sua opera aperta, Volponi lo dice nel corso di una
intervista televisiva degli anni '70: «Per me scrivere è il
tentativo di fare ordine attraverso il dibattito, attraverso
l'indagine, attraverso l'approfondimento dei temi e anche del
linguaggio, della propria coscienza e dei temi che uno vede intorno,
sociali, civili. Scrivere quindi non per accomodare, non per
raccontare o in qualche modo simulare o definire. Scrivere per
incontrare, per dibattere, quasi per contrastare certi problemi che
non sono del tutto chiari, che restano angosciosi». Lo precisa anni
dopo quando gli chiedono un parere su un esordiente, si chiama
Alessandro Baricco e ha da poco pubblicato il romanzo Oceano mare:
«È un romanzo che non rientra nel mio modo di intendere la
letteratura. La letteratura è verità, è forza, è conflitto e
confronto con la realtà». Ma anche il suo amico Umberto Eco, un
tempo cacciatore di Liale, aveva ceduto in quello stesso periodo alla
letteratura commerciale scrivendo il suo bestseller postmoderno, Il
nome della rosa.
La storia intellettuale e umana di Paolo Volponi entra nel vivo quando nel 1950 spedisce a Franco Fortini una copia del suo primo libro di versi. Si intitola Il ramarro, ed esce con la prefazione del critico principe dell'ermetismo, Carlo Bo. Fortini, che già lavora come copy ad Ivrea alla Olivetti, e le leggende vogliono che abbia inventato il nome di molti prodotti, compresa la mitologica «Lettera 22», lo invita a visitare lo stabilimento e gli presenta Adriano. I due si piacciono e l'imprenditore gli consiglia di trasferirsi a Roma per lavorare in un Ente di Studi sociali, dove diventerà amico e sodale di un altro «corsaro», Pier Paolo Pasolini, poi lo assume nella piccola capitale del Canavese nel 1956 come direttore dei Servizi sociali. Volponi comincia a lavorare a quello che più volte chiamerà «il piano», un rovello di anni e la speranza illuministica di una vera cultura industriale: «quella della partecipazione di ciascuno a un progetto e a un lavoro di trasformazione del Paese secondo la propria coscienza, la propria cultura e le proprie qualità morali prima ancora che professionali».
Sono anni in cui l'attività letteraria correrà sullo stesso binario dell'esperienza imprenditoriale più umanistica del nostro paese, l'idea di una «impresa responsabile» e quella diversa concezione di industria capace di introdurre un sistema di welfare che a partire dalla fine degli anni '40 costituì una felice anomalia non solo in Italia. La fabbrica ideale dove lavoravano oltre a Fortini anche Ottiero Ottieri, Giovanni Giudici, Libero Bigiaretti, e quella incredibile esperienza sul campo diede vita a Memoriale, uscito nel 1962, forse il romanzo più emblematico di quel momento, dove lo scontro tra corpo e fabbrica, capitale e lavoro è traumatico. Continuerà a lavorare all'Olivetti, poi alla Fiat, occupandosi del rapporto tra fabbrica e ambiente, poi come presidente della Fondazione Agnelli dalla quale venne indotto al licenziamento nel 1975 perché reo di aver fatto pubblica dichiarazione di voto al Pci, partito che lo portò in parlamento nel 1983, una attività politica continuata con Rifondazione comunista fino al 1992.
La storia intellettuale e umana di Paolo Volponi entra nel vivo quando nel 1950 spedisce a Franco Fortini una copia del suo primo libro di versi. Si intitola Il ramarro, ed esce con la prefazione del critico principe dell'ermetismo, Carlo Bo. Fortini, che già lavora come copy ad Ivrea alla Olivetti, e le leggende vogliono che abbia inventato il nome di molti prodotti, compresa la mitologica «Lettera 22», lo invita a visitare lo stabilimento e gli presenta Adriano. I due si piacciono e l'imprenditore gli consiglia di trasferirsi a Roma per lavorare in un Ente di Studi sociali, dove diventerà amico e sodale di un altro «corsaro», Pier Paolo Pasolini, poi lo assume nella piccola capitale del Canavese nel 1956 come direttore dei Servizi sociali. Volponi comincia a lavorare a quello che più volte chiamerà «il piano», un rovello di anni e la speranza illuministica di una vera cultura industriale: «quella della partecipazione di ciascuno a un progetto e a un lavoro di trasformazione del Paese secondo la propria coscienza, la propria cultura e le proprie qualità morali prima ancora che professionali».
Sono anni in cui l'attività letteraria correrà sullo stesso binario dell'esperienza imprenditoriale più umanistica del nostro paese, l'idea di una «impresa responsabile» e quella diversa concezione di industria capace di introdurre un sistema di welfare che a partire dalla fine degli anni '40 costituì una felice anomalia non solo in Italia. La fabbrica ideale dove lavoravano oltre a Fortini anche Ottiero Ottieri, Giovanni Giudici, Libero Bigiaretti, e quella incredibile esperienza sul campo diede vita a Memoriale, uscito nel 1962, forse il romanzo più emblematico di quel momento, dove lo scontro tra corpo e fabbrica, capitale e lavoro è traumatico. Continuerà a lavorare all'Olivetti, poi alla Fiat, occupandosi del rapporto tra fabbrica e ambiente, poi come presidente della Fondazione Agnelli dalla quale venne indotto al licenziamento nel 1975 perché reo di aver fatto pubblica dichiarazione di voto al Pci, partito che lo portò in parlamento nel 1983, una attività politica continuata con Rifondazione comunista fino al 1992.
Narrazioni al
supermarket
Ma è Le mosche del
capitale il suo libro che più parla al presente, dedicato ad
Adriano Olivetti «maestro dell'industria mondiale»: il testamento
politico e il documento verbale di una sconfitta, il resoconto di una
brutale trasformazione, capace di descrivere dall'interno quel
capitalismo italiano votato ai profitti e alla finanza che
abbandonava la sua missione storica, del quale Volponi aveva
informazioni di prima mano. «Il racconto è finito. La narrazione,
se vuole, è il bancone del supermercato. Lei non potrà raccontare
mai niente di me!», sentenziava ancora Bruto Saraccini, quel Don
Chisciotte alter ego dello scrittore che - come ha ancora scritto
Massimo Raffaeli - è uno dei suoi personaggi-uomo, come l'Anteo
Crocioni della Macchina mondiale o l'Albino Saluggia di
Memoriale: «Sono regolarmente dei derelitti o gli uomini in
estremo pericolo che gli antichi greci definivano pharmakòi, capri
espiatori e martiri di situazioni conflittuali in cui, annientatisi o
venendo eliminati, squarciano il velo di falsa coscienza e mettono a
nudo la verità». Proprio come il protagonista del romanzo, il
dirigente colto che vede nel neoliberismo in arrivo sulle soglie
dell'Epoca la fine non solo del progetto olivettiano ma proprio
l'impossibilità di una democrazia economica. «Il capitalismo ha
avuto vari collassi», dirà negli Scritti dal margine lo
scrittore marchigiano, «vere crisi, perché è così ingordo, avido,
mangia troppo, molto più di quello che può digerire e poi sta male,
e naturalmente fa pagare agli altri le sue sofferenze».
Nella prosa di Volponi non c'è quasi mai un «io» solitario, privato, anche l'individuo della narrazione in prima persona è in un contesto agitatissimo di cose del mondo, della società, il conflitto tra corpo e ambiente circostante è sempre in atto o in agguato, tra città e campagna, tra operaio e fabbrica, tra dirigente e grande metafisica del Capitale. Ma in questo libro, più che in altri, la lingua che muove un ritmo sempre a pieno regime, compie il discorso, la narrazione, è una lingua «meccanica» che sembra fatta di ingranaggi, pistoni che si agitano, e aggrega nelle sue ruote dentate, tracima, sembra riprodursi per accumulo nell'elencazione di oggetti, persone, luoghi come per un «gaddismo» di ritorno, più che corporale diventata «umorale», nevrotica come gli ingranaggi perversi del mondo aziendale. È una prosa industriosa dove, come di rado accade, la scrittura diventa la cosa che racconta.
Nella prosa di Volponi non c'è quasi mai un «io» solitario, privato, anche l'individuo della narrazione in prima persona è in un contesto agitatissimo di cose del mondo, della società, il conflitto tra corpo e ambiente circostante è sempre in atto o in agguato, tra città e campagna, tra operaio e fabbrica, tra dirigente e grande metafisica del Capitale. Ma in questo libro, più che in altri, la lingua che muove un ritmo sempre a pieno regime, compie il discorso, la narrazione, è una lingua «meccanica» che sembra fatta di ingranaggi, pistoni che si agitano, e aggrega nelle sue ruote dentate, tracima, sembra riprodursi per accumulo nell'elencazione di oggetti, persone, luoghi come per un «gaddismo» di ritorno, più che corporale diventata «umorale», nevrotica come gli ingranaggi perversi del mondo aziendale. È una prosa industriosa dove, come di rado accade, la scrittura diventa la cosa che racconta.
Una voce inimitabile,
quella di Volponi, inclassificabile la postura, che non è di sicuro
per disarmonia prestabilita quella del romanziere di trame, bensì
dei grandi raccontatori epici dove la vena lirica nutre sempre la
capacità di visione. Basti pensare al meraviglioso incipit di Le
mosche dove lo scrittore immagina la città che dorme mentre il
danaro si riproduce in una sorta di immortalità, di grande realismo
ai tempi del ricatto dello spread: «Già al primo risveglio sul
lavandino sulla tazza o ancora prima sul sapore del cuscino, cresce
spinto dalla vita di tutto e di tutti, il corpo e il valore del
capitale. Mai un istante, anche nelle più cupe notti, cessa di
crescere e prevalere; si sposta e si assesta recupera forze
distribuisce risorse immagina e progetta nuove strategie delinea
nuovi organi e nuove facoltà».
Ma a questo libro si
incrociano temporalmente alcuni scritti minori, non meno importanti,
nei quali tornano tutti i suoi temi, compreso quello che negli ultimi
anni di vita, di attività parlamentare e di scrittura, aveva
lucidamente sviscerato, cioè il passaggio dalla società industriale
a quella prima post-industriale e subito dopo immateriale del danaro
e tecnologica del «villaggio globale», il «finanz-capitalismo» di
cui ha scritto di recente un suo compagno di scuola olivettiana,
Luciano Gallino. Volponi ne era persino ossessionato, e con
lungimiranza sociologica osservava: «il potere dell'artificio oggi
consiste nell'avvicinarsi sempre più alle scintille e alla scossa
del danaro, identità vera dell'artificiale».
I capelli
inesistenti
La sua angosciosa
interrogazione, risuona, se pensiamo che arriva dal lontano 1994,
come una profezia lucidissima: «Ciò che mi domando è: come mai
siamo giunti al punto che la sola materia materiale diventasse il
denaro. E come si fosse annullata la profondità del mondo». Di
questo cambio di passo del capitalismo mondiale, e di mondo vero e
proprio, l'unico dei mondi possibili, forse uno dei passaggi
antropologici più traumatici della nostra storia recente, sono
testimonianza alcune operette morali affidate alle pagine culturali
del «Corriere della Sera», anch'esse ormai irreperibili (Del
naturale e dell'artificiale, Il lavoro editoriale).
Veramente cult, tra di loro, Via col vento dove Volponi fa un
trattatello sulla capigliatura del Prof. Alberoni, l'entertainer che
massaggia alla McLuhan e riempie lo schermo di vuota irrealtà, i cui
capelli inesistenti diventano metafora del pensiero debole già
conclamato: «Infatti il prof. Alberoni costruisce, non si sa se più
con l'ispirazione di un grande artista appunto rinascimentale o con
la bravura di un artigiano positivista, imprenditore puritano, un
miracolo di rigogliosa e stabile capigliatura là dove di capelli non
c'è più nemmeno l'ombra». Degli stessi anni (1984/1992) sono gli
interventi fatti da senatore del Pci oggi raccolti in Parlamenti
(Ediesse 2011), dove lo scrittore ormai «inviso al capitale»,
interviene su questioni come l'abbattimento della scala mobile, la
prima guerra del Golfo, la controriforma sanitaria, l'istruzione.
Ci piace ricordarlo con
una sua frase che lo racconta tutto: «Ho ancora delle inquietudini
da selvatico: mi piace chiamarmi Volponi e penso all'eroismo della
volpe che, presa in trappola, si morde la zampa pur di scappare.
Anche io sono così, non riesco a rimanere chiuso in trappola e mi
strappo la gamba pur di scappare».
il manifesto 14 agosto
2012
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