Articolo di agosto, ma
tutt'altro che scaduto. Parla di un libro sugli umori che hanno
nutrito l'ascesa alla Casa Bianca di Trump. (S.L.L.)
Li chiamano rednecks,
oppure white trash: sono bianchi, poveri e, in larghissima
parte, maschi. Hanno, quasi sempre, un arsenale in casa, che torna
utile quando i buoni pasto sono finiti e c’è bisogno di procurare
un po’ di carne per la cena andando nei boschi vicini. Sono il
popolo di Donald Trump, l’improbabile eroe politico della tribù
bianca in rivolta.
Il viaggio per capire
quanti sono e cosa vogliono può cominciare dal simbolo stesso della
controcultura degli anni Sessanta contro cui si sono ribellati:
Woodstock. È in questa cittadina dello Stato di New York, dove tra
il 15 e il 18 agosto 1969 si tenne il più celebre concerto rock di
tutti i tempi, che Trump ha ottenuto il 64% dei voti nelle primarie
repubblicane di qualche mese fa, ed è in contee come quella dove si
trova Woodstock – rurali, spopolate, impoverite – che Trump
otterrà i suoi migliori risultati in novembre. È qui che vivono i
protagonisti di un libro interessante, a tratti commovente,
intitolato Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in
Crisis (Harper 2016).
Siamo negli Appalachi, la
catena montuosa che divide la costa orientale degli Stati Uniti dalle
grandi praterie e dall’Ovest: una barriera naturale che
culturalmente e politicamente sembra invalicabile oggi quanto lo era
per i puritani sbarcati nel 1620. Montagne che ospitano una tribù
bianca con una subcultura forte, coesa al suo interno, con rituali
propri e un’irriducibile ostilità nei confronti dei diversi, tanto
più forte se si tratta di politici o di giornalisti: sono gli
americani discendenti da antenati scozzesi e irlandesi che troviamo
nella parte centrale dello Stato di New York, in Pennsylvania, in
West Virginia, in Virginia, in Kentucky, in Tennessee e ancora più a
sud, fino in Georgia, Alabama e Mississippi. Quest’anno se ne è
parlato molto, e nei prossimi mesi se ne parlerà ancora di più
perché il curioso cocktail di misoginia, promesse impossibili e
xenofobia offerto da Trump ha fatto presa su di loro. La loro
ribellione ha frantumato il partito repubblicano, costretto ad
accettare un outsider come candidato (cosa mai avvenuta in
precedenza) e sta scuotendo anche il partito democratico, che ha
scelto di nominare un puro prodotto dell’establishment come Hillary
Clinton in un anno in cui sono più di moda i forconi che le borse
Prada.
Gli hillbillies
sono stati nel tempo boscaioli, minatori di carbone, operai negli
altiforni di Pittsburgh o nelle fabbriche di Akron, muratori,
meccanici, camionisti. Sono stati sottratti alla miseria dal New Deal
di Roosevelt e dalla Seconda guerra mondiale, e sono stati fedeli per
40 anni al partito democratico. Poi il rifiuto della guerra del
Vietnam e il ’68 li hanno catapultati nel campo repubblicano, per i
40 anni successivi e fino ad oggi.
J. D. Vance, l’autore
di Hillbilly Elegy, è un giovane avvocato che oggi vive in
California ma è nato a Middletown, in Ohio, da un padre ben presto
scomparso e una madre tossicodipendente. È cresciuto con i nonni,
una coppia di teenager scappati da Jackson, Kentucky (a cui Johnny
Cash ha dedicato una delle sue canzoni più famose, che inizia così:
«We got married in a fever, hotter than a pepper sprout»)
per sposarsi e cercare fortuna a Middletown negli anni Quaranta.
Non ebbero vita facile
quelli che Vance chiama mamaw e papaw, ma negli anni
Cinquanta il Midwest industrializzato dava lavoro, casa e sicurezza
nel futuro a tutti. Papaw lavorava all’Armco, uno dei giganti
dell’acciaio, e per decenni sembrò che il destino di figli e
nipoti potesse solo migliorare. Poi le acciaierie cominciarono a
chiudere, così come le fabbriche di automobili, come sa chiunque
abbia visto Roger and Me di Michael Moore.
La deindustrializzazione
portò con sé la desertificazione sociale: i privilegiati, i più
abili, i più intelligenti, i più tenaci se ne andarono a Chicago, a
Buffalo o a New York, mentre la stragrande maggioranza restava
attaccata a case che cadevano in rovina, quartieri dominati dalle
gang della droga, lavori che duravano poche settimane o pochi mesi.
La religione, il nazionalismo, l’ostinazione non riuscirono a
mantenere gli hillbillies in quella classe media che avevano
creduto di avere raggiunto per sempre.
Vance è uno di quelli
che ce l’hanno fatta, frutto di una famiglia che credeva
nell’educazione e nel principale sistema di welfare americano:
l’esercito. Dopo la scuola superiore optò per i Marines, scelta
che gli permise di andare all’università e poi alla Yale Law
School, la fabbrica delle élite. Oggi è un avvocato
benestante con moglie, bambini e casa con piscina, ma non ha
dimenticato i nonni e la sorte dei 25 milioni di americani bianchi e
sfortunati che vivono nelle 420 contee degli Appalachi. E che si
preparano a votare per Donald Trump.
Pagina 99, 12 agosto 2016
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