Il 10 ottobre del '90, da
Roma, dalla commissione centrale per l'organizzazione, fu trasmesso a
tutte le sedi regionali dell'ormai ex-Pci il nuovo simbolo del
partito, la quercia, alle cui radici ancora si scorgevano la falce e
il martello. E a Palermo l'albero nacque alle 18,31 precise, quando
il fax di corso Calatafimi emise il disegno in scala di grigi del
nuovo simbolo. Lì, quella sera, il clima non era dei più felici: la
"primavera" orlandiana, l'esacolore, era stata interrotta
per colpa del Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); nelle elezioni del
maggio il Pci aveva formato una lista di coalizione, "Insieme
per Palermo" (col simbolo dei pupini che si tengono per mano), e
che era stata clamorosamente sconfitta; mentre la Dc, capolista
Orlando, aveva ottenuto la maggioranza assoluta in Consiglio comunale
(42 consiglieri).
Ma l'arrivo del neonato,
come avviene per ogni lieto evento, sembrava infondere un nuovo
ottimismo fra dirigenti e militanti venuti ad assistere al parto
telematico. Sì, già le indiscrezioni avevano ampiamente anticipato
sia il nuovo nome che le caratteristiche generali del simbolo.
Però i reali tratti
somatici del neonato ispirarono immediata simpatia. Sorse
istantaneamente un clima di euforia e di moderata commozione fra
quella cinquantina di comunisti presenti. Il segretario comunale
Franco Miceli stappa una bottiglia di spumante. Sono tutti col
bicchiere in mano, si guardano con occhi lucidi, nessuno si azzarda a
pronunciare un brindisi, poi, improvvisamente, come voce dal sen
sfuggita, in coro gridano: «Viva il partito comunista!». E intonano
"bandiera rossa".
Iniziano subito i
commenti, dinanzi a quel nuovo disegno che ciascuno ha provveduto a
farsi dare in fotocopia. Mentre alcuni, furtivamente, saccheggiavano
i manifesti col vecchio simbolo del Pci, come coloro che dalla casa
terremotata portano via i ricordi più cari. Miceli, grattandosi con
flemma la sua folta barba nera, così riflette: «Sia il nome che il
simbolo credo che rappresentino bene il significato che noi vogliamo
dare a questa nuova formazione politica. Cioè, una formazione che
poggia su un patrimonio che non viene liquidato e che tende a mettere
insieme le forze democratiche del Paese. È buona l'idea dell'albero
con radici profonde, sempre verde e che si rinnova sempre». Questa
cosa dell'albero che nasce dal vecchio simbolo del Pci con falce e
martello, sembrava commuovere tutti. E Pietro Ammavuta, vecchio
dirigente, teneva a sottolinearlo: «La proposta del compagno
Occhetto mi pare chiara e netta, per un partito che vuole
rigenerarsi, ma che vuole anche mantenere le sue radici, e portare
nella nuova formazione politica il patrimonio storico, politico e
morale che i comunisti italiani hanno accumulato nel corso di
decenni».
Taceva l'insostituibile
Rosolino Cottone, un comunista con tutta l'anima, un militante soave,
che quand'era partigiano si chiamava "compagno Esempio". Ma
sollecitato da un cronista, ricorda quando sull'Appennino
tosco-emiliano «con le armi nelle mani» si cantava «l'Italia la
faremo comunista». Poi, guardando il vecchio simbolo che
malinconicamente pende da una parete, gli rivolge una frase che è
tutta un poema: «Povero venni e povero me ne vado». Basta.
Nino Tilotta, che imitava
alla perfezione la voce di Occhetto, aveva qualche riserva sul nome:
«Avrei riflettuto di più se continuare a chiamarlo partito, se
confermare cioè la forma partito. Il simbolo mi sembra molto bello,
soprattutto se lo immaginiamo a colori». E Tilotta aveva ragione.
Valeria Ajovalasit |
Quando, infatti, al Tg3
delle 19 il simbolo viene mostrato nei suoi colori, un applauso
caloroso scoppia nella sede di Corso Calatafimi. E, nell'euforia, un
militante della mozione Ingrao-Natta esclama con evidente
soddisfazione: «Se non era per noi, quella falce e martello non ci
sarebbe stata più!».
A parte, Franca
Chiaromonte (ingraiana) borbotta: «Sembra il marchio delle
Timberland». E la sua compagna Letizia Paolozzi: «È una giornata
di lutto tremendo».
Ma i presenti erano quasi
tutti della prima mozione (Occhetto). E sintetico, ma anche un po'
caustico, è Paolo Agnilleri: «Il simbolo è bello, attuale. Ma era
meglio se nasceva un anno fa». Intendeva dire, forse, che si
sarebbero risparmiati i pupini della lista "Insieme per
Palermo". Sintetico pure Filippo Grippi: «È un grande
messaggio politico a tutto il popolo della sinistra».
Entusiasta Valeria
Ajovalasit: «È l'occasione per stappare una bottiglia di
champagne». E Leonardo Li Causi: «Un nome, Pds, e un simbolo che
vanno verso un congresso unitario». Previsione quanto mai sbagliata,
vista poi la scissione di Rifondazione nel febbraio del '91. Chi non
voleva parlare era Franco Padrut, ma alla fine si decise: «Togliatti,
negli anni Cinquanta, scriveva che "l'albero che abbiamo
piantato non è sradicabile". Noi ora cerchiamo di ripiantarlo
su una terra più fertile, per farlo diventare più grande. Perché è
la terra che si è inaridita, non l'albero». Sì, Franco, è la
terra che si è inaridita.
“la Repubblica”, 31
gennaio 2011
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