Pietro Nenni |
La pagina di grande giornalismo politico che qui posto è due cose insieme: ricordo di una tragedia siciliana e di una storia eroica di emancipazione e di riscatto che trova il suo apice nei Fasci dei Lavoratori, memoria di un combattente per la libertà e la giustizia sociale che seppe trovare una grande sintonia con il popolo, con le persone più povere e sfruttate. Su "Mondo Operaio", la rivista (prima quindicinale poi mensile) che Pietro Nenni dirige, proprio in quegli anni 1954-56, comincia una ricerca di nuove vie per il socialismo italiano dopo l'esaurimento della stagione frontista. Uno dei filoni di questa ricerca è un nuovo appassionato e problematico meridionalismo, a cui darà un contributo importante Raniero Panzieri, segretario regionale della Sicilia e responsabile stampa, propaganda e cultura nella Direzione Nazionale. Proprio Panzieri organizzerà un convegno in questo senso assai importante, quello su Rocco Scotellaro del gennaio 1955, e curerà il numero quasi monografico di "Mondo operaio" al convegno dedicato nel successivo febbraio. (S.L.L.)
Il
17 febbraio scorso Mussomeli, grosso paese della provincia di
Caltanisetta, assurgeva di colpo ad una dolorosa notorietà.
Quel
giorno una folla di misera gente, donne la maggior parte, s’era
raccolta sulla piazzetta antistante il municipio invocando a gran
voce il sindaco e da lui attendendo che mettesse ordine nella
esazione in corso dei ruoli di pagamento del canone dell’acqua,
proprio in un momento in cui, da diversi giorni, l’acqua mancava.
Si trattava di poche migliaia di lire, forse meno di quanto costa a
Palermo o a Roma, un pranzo in un ristorante alla moda. Ma poche
migliaia di lire, per i braccianti o per i minatori di Mussomeli,
sono una ricchezza ch’essi non possiedono. Il sindaco ebbe paura di
quella folla inerme che gli chiedeva già da due giorni un atto di
giustizia, e la paura gli suggerì la folle idea di far sgombrare la
piazzetta dai carabinieri col lancio di candelotti lacrimogeni. Fu
sui luogo un grido solo: «Le bombe! Ci assassinano!» e un fuggi
fuggi disperato, per due strette uscite e un parapetto dove la gente
s’accalcava e s schiacciava. Bilancio: quattro morti e molti
feriti. Dei morti tre erano donne: Messina Vincenza di anni 25 madre
di 3 bambini; Pellitteri Onofria 5: anni 50 madre di 8 figli; Valenza
Giuseppina di anni 72. E un ragazzo: Cappalongo Giuseppe di toni 16.
La
commozione nell’Isola e nel Continente fu generale. Quei morti
erano, in un certa tal guisa, il biglietto da visita del ministero
Scelba che si era costituito sette giorni prima e di cui era bastato
l'annuncio perché si tornasse, di un tratto, da Milano a Roma a
Torino ai bei tempi dei caroselli delle jeep, delle cariche della
Celere e delle manganellate.
Si
poteva credere che la presenza vicino a Scelba del vice-presidente
del Consiglio Saragat, inducesse il governo a promuovere, o la parte
socialdemocratica ad esigere, una inchiesta, previa la destituzione
del sindaco e del maresciallo dei carabinieri, evidentemente incorsi
in un caso clamoroso di abuso di potere. Nulla. Il governo si tenne
pago del rapporto dell’Arma, di qualche sussidio mandato alle
famiglie delle vittime, di una parola di pietà che non dirò
ipocrita, ma insufficiente sì. La sua stampa annunciò che il
sindaco ed i carabinieri avevano dovuto difendersi da una fitta
sassaiola, sotto il cui grandinare i vetri del municipio erano andati
infranti. Risultò che non c’era un solo vetro rotto, che le
autorità non avevano corso alcun pericolo, che sarebbe bastata una
buona parola del sindaco per rimandare a casa la gente. Ma intanto
s’erano svolti frettolosamente i funerali e non per nulla il nostro
è il paese dove chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. Su
Mussomeli, sui suoi morti, sulla sua miseria cadde in pochi giorni
l’oblio del silenzio.
Noi
non abbiamo dimenticato, né taceremo, se prima Mussomeli non abbia
ottenuto riparazione e giustizia.
Mussomeli,
i suoi morti, la sua miseria nera, ci appaiono come il simbolo del
tanto, del molto che resta da intraprendere e da fare per attuare il
terzo tempo sociale. Si tratta di un grosso paese, che si stende
attorno ad un antico castello, con le case grigie dei borghesi, tra
le quali troneggia il palazzo della famìglia Lanza, principi di
Traina, ultimi signori feudali della zona; con misere casupole dove
si ammassa la povera gente, braccianti, carusi delle miniere di
zolfo, piccoli artigiani di mille mestieri; col tanfo perenne, il
colore, gli usi e costumi della miseria. È un paese, come ve ne sono
tanti in Sicilia, dove la mafia ancora detta legge; dove le autorità
sono agli ordini e a disposizione dei «cappeddi» (dei ricchi) e
della mafia, pressapoco come ai tempi delle orazioni di Cicerone
contro Verre; dove la Chiesa fa corpo (sociale e non mistico) coi
proprietari di terre (e per le cui viuzze di fango o di polvere non
si incontrano quindi i fraticelli del cardinale Lercaro in amore di
riformismo sociale); dove la legge del tempo sembra essere la
immobilità. Le esigenze di Mussomeli sono quelle del terzo tempo
sociale: lavoro e pane, istruzione ed igiene, case e svago civile
cioè dignità di vita nella sicurezza di una occupazione stabile.
Non furono dunque questi i motivi sociali della grande lotta dei
Fasci siciliani, esattamente sessanta anni or sono?
Lo
furono. E il fatto che tanto tempo sia passato e i medesimi problemi
siano all’ordine del giorno, è un atto d’accusa per la classe
dirigente siciliana, ed italiana, per le autorità locali e il
governo centrale.
I
Fasci sorsero in Sicilia nel 1891, furono la prima istintiva forma di
organizzazione contadina e socialista, divennero una forza dopo il
1892, dopo la costituzione a Genova del Partito Socialista (allora
Partito dei Lavoratori). Nel maggio 1893, quando si tenne il primo
congresso socialista siciliano, l’organizzazione di Partito era
almeno formalmente distinta da quella più larga dei Fasci, dove
confluivano operai, contadini, minatori delle zolfare, piccola e
minuta borghesia rurale. Poi, nello sviluppo rapido del movimento, i
Fasci, con alla testa Garibaldi Bosco, Nicola Barbato, Bernardino
Verro, Giuffrida De Felice, presero l’effettiva direzione della
lotta sociale e politica nell’Isola. Si assisteva al fenomeno detto
da Filippo Turati della «proletarizzazione della massa siciliana»;
alla trasformazione della agricoltura feudale e patriarcale in
agricoltura capitalista; alla spoliazione borghese delle terre
demaniali. Coincidevano i mali della vecchia società feudale e della
società capitalista in formazione. Il movimento dei contadini era
diretto essenzialmente contro i gabellotti, per lo sfruttamento a cui
sottoponevano i lavoratori dei campi. Il movimento dei minatori delle
zolfare era diretto contro le condizioni inumane del lavoro, che
all'epoca strapparono grida di orrore per come vivevano i picconieri
e specialmente i carusi. L’artigianato assecondava la rivolta dei
contadini. Tutti avevano nemico lo Stato, impersonificato dal
carabiniere e dall’agente delle tasse. Si lavorava per paghe
giornaliere da 40 cent, a una lira, fino a un massimo di due lire
per la mietitura, nei pochi giorni in cui le braccia non bastavano.
Un
movimento di quella natura, in quel in quelle condizioni sociali, non
poteva sfuggire a impulsi anarchici (ed infatti Antonio Labriola in
una sua lettera a Federico Engels parlava dell’influenza pazzotica
di De Felice), eppure c’era nei dirigenti una maturità di
coscienza e di responsabilità che ancora sorprende. C’era l’idea
del valore dell’alleanza tra città e campagna; c’era il
sentimento, se non ancora la teorizzazione, che la emancipazione dei
lavoratori doveva essere opera dei lavoratori stessi; c’era una
nozione esatta del legame tra politica ed economia, tra classe
dirigente politica e classe dirigente economica. Boisco poteva dire
fin d’allora agli studenti: non potremo trionfare se con noi non si
muoveranno i contadini. Il programma dei Fasci era quello dei Partito
Socialista, era quello della scuola marxista. Nella scultorea
definizione di Antonio Labriola i fasci ebbero il compito di portare
il proletariato agricolo siciliano « ul davanti della scena della
storia». Tra i dirigenti Bosco e De Felice esprimevano l’interesse
della popolazione progressiva urbana al grande riscatto dei
contadini; Nicola Barbato, medico a Piana dei Greci e Bernardino
Verro, segretario comunale a Corleone (egli fu assassinato dalla
mafia nel 1915) erano in più diretto contatto con la grande miseria
e la grande rivolta dei rurali.
La
rivolta assunse le forme che poteva assumere, confermando uno dei
principii fondamentali del materialismo storico e cioè che la storia
si fa come può, nelle condizioni determinate dall’ambiente, ma si
fà: occupazione di terre, prevalentemente demaniali; scioperi;
attacco ai gabellotti ed ai signori; incendio dei casotti del dazio e
dei municipi.
La
repressione fu localmente quale l’imponeva l’istinto bellicoso di
difesa dei feudali e dei loro scherani, che sentivano traballare
sotto i loro piedi l’organizzazione sociale di cui gli uni vivevano
lautamente e gli altri raccoglievano le briciole, e fu da parte dello
Stato inerente alla natura delle istituzioni, falsamente liberali col
Giolitti della primissima maniera e apertamente reazionarie col
Crispi dell’ultima maniera. Nessun arbitrio fu risparmiato,
dall’assassinio all’arresto per associazione a delinquere, dalla
proibizione dei cortei e dei comizi alla diffida personale,
dall’allontanamento degli inscritti ai Fasci dagli impieghi
pubblici, all’intimidazione famigliare; dal sequestro del giornale
Giustizia Sociale alla chiusura delle sedi dei Fasci.
Quando
quelle misure apparvero inadeguate, si ricorse alla strage. Undici
contadini uccisi a Giardinetto nel dicembre 1893, altri 11 poco dopo
a Lercara, 8 a Pietraperzia nel gennaio 1894, 20 a Gibellina, 2 a
Belmonte, 18 a Marineo, 13 a Villanova ecc.
Il
25 dicembre 1893 Crispi si faceva autorizzare dal re e dal consiglio
dei ministri a proclamare lo stato d’assedio nell’isola e inviava
a Palermo, con pieni poteri, il generale Morra di Lavriano.
All’accusa di fomentare la sedizione e la rivolta, i Fasci
rispondevano fieramente proclamando che «l’agitazione presente è
il portato doloroso e necessario di un ordine di cose inesorabilmente
condannate e che mette la borghesia nella necessità o di seguire le
esigenze dei tempi o di abbandonarsi a repressioni brutali». Facevo
eco da Roma la solidarietà dei deputati socialisti i quali
accusavano il governo di non avere fatto «nulla nel passato», di
nutrire ora «di piombo gli stomaci affamati» e « fraintendendo ad
arte l’opera moderatrice dei Fasci dei Lavoratori» di soffocarne
«con l’arresto dei capi la voce generosa .
Piombo
e galera furono il rimedio di Crispi, e perché non mancasse nulla
del classico armamentario reazionario, ci fu anche la solita e
stolida accusa crispina che i capi dei Fasci fossero al servizio
dello straniero, della Francia e della Russia (già allora!) per
staccare l’isola dal regno.
Sciolti
i Fasci, dispersi i seguaci, arrestati quelli che oggi chiamiamo gli
attivisti, condannati i capi dal tribunale militare straordinario (De
Felice a 16 anni, Barbato e Verro a 14, Bosco a 12, Montalto a 10
anni ecc.) l’antico ordine sociale fu ritenuto salvo. Senonchè i
dispersi ritrovarono rapidamente animo e coraggio; l’amnistia del
’96 strappò dai reclusori i capi dei Fasci che nelle elezioni del
1895 erano stati eletti in diverse circoscrizioni continentali; nel
gennaio del ’96 il Partito Socialista in Sicilia veniva
ricostituito; le masse si rimettevano in movimento.
La
repressione dei Fasci siciliani non fu un episodio né unico né
singolare del decennio della reazione 1890-1900. Metodi analoghi
furono subito dopo impiegati contro analoghi moti in Lunigiana e si
ebbe, nel luglio 1894, la legge contro gli anarchici, fonte per
lunghi anni di inqualificabili abusi, di cui furono vittima in modo
particolare i socialisti. Poi le elezioni del 1895, che raddoppiarono
alla Camera l’Estrema Sinistra, e a Roma videro Crispi vincere di
stretta misura il galeotto De Felice con uno scarto di 213 voti. Poi
Adua che rovesciò Crispi. E dopo il ritiro di Crispi, l’oscuro
periodo culminato nei moti e nelle repressioni del ’98, moti e
repressioni che presero di bel nuovo l’avvio in Sicilia, per
dilagare rapidamente, di provincia in provincia, nel continente, fino
a Milano, e ivi essere immortalate nelle gesta del generale Bava
Beccaris. Dopo di che, e dopo il tentativo del generale Pelloux, di
piegare con la frode dei regolamenti della Camera e delle elezioni
ammaestrate la resistenza della democrazia, dopo il regicidio di
Monza, la reazione precipitava d’un tratto nel vuoto ch’essa
aveva scavato sotto i propri piedi. Nasceva, col Giolitti della
seconda maniera, l’era liberale, durata, con alterne vicende e tra
clamorose contraddizioni, fino al 1922.
A
distanza di tanti anni, dopo tanti eventi militari e politici, dopo i
vent’anni della dittatura fascista tra le due guerre mondiali, un
episodio come quello di Mussomeli, attesta le insufficenze dell’epoca
liberale, denuncia il tragico sperpero di ricchezze e di energie
promosso, al di là dei mari, da Mussolini; ripropone alla democrazia
repubblicana il terzo tempo sociale, eluso, nel corso degli ultimi
sette anni, dalla democrazia-cristiana e dalla socialdemocrazia per
le quali urgenti non era dare terra ai contadini, case, scuole ed
ospedali al popolo, sicurezza di lavoro agli operai, dignità di
occupazione ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, garanzia
di sviluppo alle professioni intellettuali, ma urgente era la
crociata ideologica contro il marxismo, la discriminazione che tende
a porre ai margini della vita democratica socialisti e comunisti, la
lotta contro i sindacati e la maggiore delle loro organizzazioni
centrali, la C.G.I.L.
Mussomeli
ci ha ricondotti al «quia». «State contenti, umana gente, al
quia». I lavoratori non staranno contenti. Hanno nel passato rimosso
molte delle cause della loro servitù e della loro miseria.
Rimuoveranno le cause persistenti dell’ingiustizia sociale. Questo,
e non altro, ha da essere il senso del terzo tempo sociale.
Mondo
Operaio, quindicinale diretto da Pietro Nenni n. 5, 6 marzo 1954
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