Un saggio-recensione
acuto e brillante, una prosa che dà gusto e stimola curiosità.
Vivamente consigliato. (S.L.L.)
Compiango tutti coloro
che non hanno conosciuto da ragazzini le astuzie del rustico Bertoldo
e le ridicolaggini di suo figlio Bertoldino, più fintotonto che
scimunito, alla corte di re Alboino. Quando leggevamo il memorabile
libro di Giulio Cesare Croce, in edizioni adattate e accomodate nella
lingua, non avevamo la benché minima idea circa l'epoca in cui i due
strambi personaggi - il buffone saggio e il balordo lunatico che
scombina ogni logica - erano stati concepiti. Li avvolgeva un'aura
buffamente remota, di medioevo fiabesco, e tanto bastava per nutrire
stupori e divertimento. Con Bertoldo e Bertoldino ci capitavano nella
fantasia voci inaudite, entravamo senza saperlo nella mitologia
comica, nell'allegoria carnevalesca, nella dimensione della
giullarata.
L'opera del Croce è una
favola farsesca, un singolare abbecedario di paradossi, pagliacciate
e acrobazie verbali, un repertorio di controsensi, equivoci, dialoghi
strampalati, scemenze surreali, burle e irriverenze. Fantocci ben
congegnati di una intramontata commedia dell'arte, Bertoldo e
Bertoldino li si apprezza, è ovvio, anche da adulti. Ma letti quando
si è ragazzini lasciano una traccia, aprono uno scenario che non si
richiude più del tutto.
I due bislacchi
Rileggendo magari dopo
decenni il libro dei due bislacchi, stavolta nel testo integrale
corredato di dotte informazioni, ci si rende conto di un debito
contratto inconsapevolmente, nell'infanzia. Parlando per me stesso, e
lo dico con tranquilla convinzione, devo a loro, a Bertoldo e
Bertoldino, in forte anticipo su Rabelais, Jarry o Il buon soldato
Sc'vèik, una predilezione per la letteratura che ride di sé e vede
il mondo alla rovescia. Si capisce che ho in uggia quei letterati che
ancora oggi giudicano rozza e troppo elementare la comicità del
Croce. Per convincermi dovrebbero anche spiegarmi ciò che non hanno
capito: la forza allegorica del testo, che ne ha fatto la fortuna
popolare per quasi quattro secoli, la quale consiste nella insolubile
ambiguità tra la morale e lo spirito della favola.
La morale sembra
accomodante, ma lo spirito non lo è. Basta pensare all'episodio
centrale della disputa sui modi villaneschi di Bertoldo aizzata dal
re, che pretende riverenze e inchino, mentre Bertoldo sostiene
dignitosamente che l'uomo "non deve inchinarsi all'altr'uomo".
Ora, nella disputa, il re perde due volte. Prima, col brutale e
arrogante paragone tra i vasi odoriferi e balsamici e i vasi
destinati a orina e feci, si mostra lui il vero villano. E la seconda
quando ricorre al meschino espediente di far abbassare l'uscio,
perché l'indomani Bertoldo sia costretto per passarlo a inchinarsi.
Espediente che tutti ricorderanno gli si ritorce contro, giacché
l'astuto Bertoldo entrerà piegato all'indietro onorando il re con le
natiche.
Se questa immagine ci
esilarava da ragazzini, da adulti la interpretiamo. Mostrandogli il
deretano, Bertoldo è come dicesse al re: guarda che alla bassezza
non si sfugge. Si dirà che questo è lo spirito della buffoneria,
che lascia le cose come stanno. Eh, già. Ma i potenti passano e il
controsenso resta. Quanto allo spirito del Bertoldino, è del tutto
evidente che è assai più libero e filosofico: non si sfugge, ed è
un bene, alla "pazzia". Qui morale e spirito della favola
sono assai più vicini, quasi si confondono.
Dopo il tempo vissuto a
corte, Marcolfa chiede il permesso di tornare col figlio sul suo
monte aspro e selvaggio, perché è venuto il momento di "mutare
alquanto aria": "Forse che quella di là su lo farà
alquanto più svegliato, benché io non lo posso credere..."; ma
siccome ogni uccello canta meglio nel suo nido, conviene riportare lo
stolto a casa, "e poi facci che verso egli vuole".
L'importante non è di riconoscere se la stoltezza di Bertoldino è
vera o finta, temporanea o insanabile. Ciò che conta è dubitare che
sia conveniente guarirne. Svegliarsi dalla stoltezza, guarire dalla
mattocchieria, per diventare più infelici, non sarebbe un bel
guadagno.
Queste, dette molto in
sommario, le suggestioni allegoriche prodotte alla buona e con felice
mestiere da Giulio Cesare Croce nel suo modesto e vispo capolavoro.
Chi era dunque costui? Piero Camporesi già tra il ' 76 e il ' 78,
con il saggio La maschera di Bertoldo e con l' edizione
einaudiana del Bertoldo e Bertoldino, aveva mostrato un
interesse intrigato e intrigante per la figura del Croce. Credo che,
tra tante altre ricerche, non l'abbia più perduto di vista. Ha
perlustrato in lungo e in largo le sue innumerevoli operette e
opericciuole, ha frugato nei manoscritti del cantimbanco bolognese, e
da storico fantasioso ne è venuto evocando l'esistenza in quel tempo
di Controriforma e di primi umori barocchi, che egli conosce così
bene. Ora, nell'appassionante ritratto Il palazzo e il cantimbanco
(Garzanti, pagg. 152) l'erudizione diventa racconto e la personalità
di Giulio Cesare Croce appare quella del più volenteroso,
intelligente e onesto istrione che si possa immaginare. È
un'immagine assai complessa, mobile, originale. Tanto complessa e
mobile che lo stesso Camporesi, affascinato dalle proprie scoperte,
oscilla spesso tra l'ammirazione per il talento del Croce e la
percezione inevitabile dei suoi limiti. Questa oscillazione è un
pregio del disegno di Camporesi, sia chiaro. Il nostro Giulio Cesare
è davvero un tipo fuori del comune e dentro il comune, un giullare
problematico. Un talento per niente affatto grossolano, speso
ininterrottamente in operosità frenetica. Un temperamento prudente,
ma non servile, semmai utilitarista a scopo di sopravvivenza. Un
carattere che mirava a esercitare e preservare la propria
indipendenza fantastica, di artigiano-artista, facendo tanto di
cappello agli attori della commedia sociale: "fò di berretta al
ricco e al poveretto", è il motto araldico del suo rispetto
ammiccante e della sua sorniona accortezza. Non ci sentite un che di
oraziano, anzi di manzoniano?
Un ragazzino povero
Camporesi coglie il Croce
in età matura e da vecchio, nella parte della sua vita più
interessante da ricostruire. Sorvola sulla giovinezza o vi accenna
appena perché i dati sono noti e derivano tutti da un'autobiografia
in terza rima, scritta per compiacere un "signore" curioso.
Nato a San Giovanni in Persiceto, piccolo centro del contado
bolognese, nel 1550, ci tiene a rilevare che la sua venuta al mondo
fu "in dì di carnevale, - quando più d'esser pazzo ogn'un si
vanta". Niente da stupirsi se un'ombra di quella pazzia festosa
gli è rimasta attaccata dalla nascita. Il padre, che stentava la
vita facendo il fabbro, pensa di avviare Giulio Cesare agli studi e
lo manda da un valente precettore. Ma il ragazzino "atto ad
imparare" e pieno di fervore, a sette anni deve lasciare la
scuola, perché il padre muore e la famiglia cade in miseria. Lo
prende con sé uno zio paterno, anche lui fabbro a Castelfranco
Emilia, il quale gli fa proseguire gli studi presso un solennissimo
pedagogo, che invece di addottrinare i suoi discepoli li fa lavorare
nel campo e nell' orto con minacce di bastone. Sicché, visto il
profitto nullo, lo zio lo mette in fucina, nel "ginnasio di
Vulcano".
Nel 1563 zio e nipote si
trasferiscono a Medicina in qualità di fabbri e maniscalchi di
ricchi proprietari bolognesi. Qui a Giulio Cesare cominciano a saltar
fuori dalla zucca "i grilli, i parpaglioni e le chimere".
Quando i signori sono in villa chiamano alla loro mensa il "poeta
campestre" e se ne dilettano. Ma poi i signori partono, finisce
la vita pasciuta e tranquilla, il ragazzo torna tra l'incudine e il
martello, spesso cibandosi di solo pane e "poma crude".
Dopo cinque anni, avendo peraltro imparato bene a "martellare",
Giulio Cesare non ne può più e se ne va a Bologna. Qui s'impiega da
un buon fabbro, che capisce i suoi umori e non lo affatica troppo. Si
dà accanitamente alla lettura facendo le ore piccole, e smania di
abbandonarsi alla sua "vena naturale" di cantastorie,
frottoliere di piazza e burlatore. Non si sa come, impara ad
accompagnarsi con la lira, uno strumento a corde da braccio, una
specie di protoviolino. Ben presto sceglie questo secondo mestiere,
di intrattenitore ambulante, dagli introiti aleatori, ma che lo
lascia libero di seguire "un istinto di stella".
La propensione alla
libertà arrischiata, da povero cristiano epicureo, giovialone e
compagnone d'osteria, girandolone che va vendendo per strade e
mercati le sue operette stampate in fascicoletti e fogli volanti
(probabilmente ben oltre 500), nasconde un'intensa e affastellata
sperimentazione di tecniche espressive, un lavoro incessante. Questo
insolito letterato ha l' orecchio fino e una bizzarra capacità di
manipolare linguaggi. Dagli studi di Camporesi risulta che il Croce è
uno straordinario poligrafo e riscrittore: compone capitoli in versi,
canzonette, dialoghi, commedie in lingua e in dialetto, trionfi
carnevaleschi, farse di ogni genere (novelle, favole, viaggi
immaginari, "testamenti", "avvisi" di mirabili
notizie); raccoglie proverbi e "barcellette"; e
all'occasione scrive operette e religiose e "versi spirituali"
(era un buon cattolico).
In Croce si rivela in età
matura e in vecchiaia un abile impresario di se stesso. Sebbene non
riuscisse mai a procurarsi il sublime mecenate che sognava, si creò
un buon mercato e una diffusa "penetrazione in tutti i ceti".
Poeta di servizio e verseggiatore cortigiano "sia per bisogno
sia per umano desiderio di salire nella scala sociale", dice
Camporesi, con la sua faccia allegra, la voce suadente e modulata,
"al suono della lira da braccio maneggiata da gran virtuoso,
intratteneva i gentiluomini d'inverno nei loro palazzi, nelle ville
durante i 'trastulli' estivi, e la gente comune nelle piazze nei
giorni di mercato e durante le lunghe e grandi fiere stagionali
attingendo al suo inesauribile repertorio". Infaticabile fabbro
del mestiere che s'era scelto, questo "sofisticato cantastorie"
sorprende lo storico che ne ha studiato gli autografi, che "attestano
un insospettabile lavoro di tornitura, di limatura, di rifacimento,
una selva di correzioni e di aggiustamenti".
Letterato, musico e
cantore, Croce s'era fatto "specchio e voce della sua città".
Camporesi lo descrive nei lunghi anni di carestia che squassarono
Bologna (dal 1590 al 97), intento a ingraziarsi con la sua arte le
potenti famiglie senatorie, e nello stesso tempo a captare e
ritrasmettere i lamenti dei "poverelli", degli sfrattati,
della gente senza legna e senza coperte, affamata, falciata dall'
influenza perniciosa, assediata dagli usurai.
Cronista di piccola
storia
Con tutto ciò Camporesi
lo vede allineato col moralismo dei predicatori, che invece di
indagare e denunciare le cause sociali del disastro, lo attribuivano
alla collera divina. Certo, non fu il Giulio Cesare uomo di protesta
e di denuncia; piuttosto un cronista di "piccola storia",
pronto a cogliere e trasformare, da "funambolico acrobata della
parola", il colore di eventi privati e pubblici. È tuttavia
difficile, a mio parere, pensare che il "cinismo" e la
doppiezza di Bertoldo siano soltanto una maschera. L'opera che
scrisse da vecchio, il Bertoldo nel 1604 e il Bertoldino
nei due-tre anni successivi, non è soltanto un copione per far
ridere, è forse anche una interrogazione sul perché di tanti lazzi
e lunaticherie. Nella seconda parte del suo libro, davvero
bellissima, Camporesi restituisce con grande acutezza e dottrina la
figura del cantore pubblico, dell'aedo sociale identificato anche
nella cultura alta della sua città: vedi i rapporti non casuali con
i fratelli Carracci, soprattutto il versatile Agostino, col grande
naturalista Ulisse Aldovrandi e con il maestro di Cappella Orazio
Vecchi, tutti suoi estimatori. La stella di Giulio Cesare si spense a
Bologna il 17 gennaio del 1609, era come alla nascita una giornata di
Carnevale.
"Per Bologna, per i
suoi lettori, per i suoi ascoltatori, ma soprattutto per il suo
tipografo, la perdita fu irreparabile".
"la Repubblica", 8 gennaio 1995
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