Nel settembre 1915 il
ventisettenne Leo Spitzer, linguista e filologo viennese di buona
famiglia ebraica, brillante allievo di Meyer-Lubke, e futuro maestro
della critica stilistica, prende servizio presso l'Ufficio centrale
della censura postale dell'esercito imperial-regio. Lo attende un
compito gravoso: filtrare le lettere dei prigionieri italiani (a fine
guerra saranno 600.000; solo dopo Caporetto ne erano arrivati
300.000). I quali possono chiedere a casa l'invio di pacchi
alimentari, ma non abbandonarsi a «lamentele esagerate» sulla fame
che li tormenta. In pratica, è vietato anche soltanto parlarne
genericamente, e con il proseguire della guerra la situazione
peggiora: la crisi economica falcidia le già magre razioni, i
secondini non se la passano meglio dei prigionieri, ma dire «ho
fame» non si può. La monarchia non vuole essere accusata di violare
le convenzioni internazionali e soprattutto non vuole far conoscere
le difficoltà dei rifornimenti alimentari di cui soffre il Paese,
spia del collasso che finirà per farlo implodere.
Comincia una partita
drammatica tra chi vuol sollecitare un aiuto (sono stimati in 100.000
i morti di stenti e privazioni) e un censore ferratissimo, che
conosce a perfezione l'italiano, i suoi dialetti, perfino i suoi
gerghi. Per sua e nostra fortuna Spitzer, prima di cassare quello che
non può esser detto lo registra febbrilmente, consapevole della
ricchezza espressiva dei materiali che si ritrova tra mano. I
prigionieri sono poco o nulla alfabetizzati, scrivono come parlano,
sgangheratamente, ma danno fondo alle risorse di un'inventiva
ingegnosa, furbesca e commovente. Senza saperlo, usano tutti gli
artifici della retorica, a partire dagli anagrammi: «fame» diventa
«mefa» («La signora Mefa è qui da qualche tempo. Vedessi com'è
deperita»). Ricorrono a errori voluti («fame sapere, fame
stopiacere»), alle personificazioni («È morto con me il Capitano
A. Petito fratello della signorina Magherina»; «Calogero Pititto
s'ingrossa»; «Qui come prigioniero c'è l'amico Sepatislafam»,
«Saluti a Sepatiselfrec e Sestadecan»). Mandano saluti anche al
signor Forneris e al signor Marocco (il pane, in gergo). Frequenti le
allusioni alle malattie: «Ho una malaria di budele, mi manca anche
la solita medicina che prendevo a casa»; «ho il vermo salutare»;
«tengo la malatia della febbre mangina». Un milanese lamenta una
fortissima tosse, da curare con quelle «caramelle che fa el
prestinè, te capì?». C'è chi parla di «nostalgia gastrica», chi
echeggia vecchi proverbi («Pancia che marmotta non si trova mai
contenta»), chi si lamenta dei denti che arrugginiscono: «perche i
miei denti i ciapo larugine».
La fame diventa la
Signora, la vedova, la stria, la sozza, la fosca, la negra, la
leggera, la carolina, la granda, la leona, la cagna, la lupa , il
cammello («patisco un Camel della Madonna»), la morosa, l'amante
austriaca, la Signora Slandrona, la signorina Sgaiusa, il signor
Stecchetti, il tenente Spazzola («la spazzola suonava le sue note
grigie»). I più frequentati sono lo zio Magno e l'Ugolino dantesco
(«È con me il signor Ugolino che tu non conosci ma che il babbo
ricorda certamente»; lo si usa anche spezzato in due, zio Ugo e
conte Lino).
Si inventano nuovi santi,
come san Cripofan, crepo di fame, o degli agglomerati di parole come
christochefamdelader, che nei campi di prigionia diventano popolari.
Ma non c'è solo l'urgenza drammatica di comunicare. Chi scrive può
arrivare a concedersi dei giochi linguistici (Kriegsgefangen,
prigioniero di guerra, diventa Cristochefame), o addirittura irridere
direttamente gli occhiuti censori. I più colti citano l'opera («Ciò
che spedisce all'Università Bocconi manca, di conseguenza se sifula
l'Aida»). Sino al più amaro dei paradossi: «Se è vero che l'aver
apetito è segno di buona salute, siamo sanissimi sino a morire di
salute».
C'è chi parla di
"nostalgia gastrica", e chi cita l'amico "conte
Ugolino"
Da questi formidabili
giacimenti di trovate ingenue e accorate, di una loro astuzia
bertoldesca, Spitzer ha ricavato ben tre poderose ricerche: La
lingua italiana del dialogo (1922, tradotto da Il Saggiatore nel
2007), Lettere di prigionieri italiani 1915-1918 (1921)
tradotto nel 2016 dal medesimo Il Saggiatore, che ora conclude il
cosiddetto «trittico italiano» con Perifrasi del concetto di
fame. La lingua segreta dei prigionieri italiani nella Grande Guerra,
apparso nel 1920, ma non ancora tradotto. L'ottima cura è di Claudia
Caffi, l'impeccabile traduzione di Silvia Albesano, di Antonio
Gibelli il saggio d'inquadramento storico sulle scritture della fame
nella Grande Guerra. Un'impresa ammirevole, che investe molti ambiti
di ricerca, e di cui bisogna dare grande merito al coraggio e alla
lungimiranza dell'editore.
A Spitzer interessava
cogliere l'anima di un popolo proprio nel farsi spontaneo e
disordinato di un linguaggio naïf, costretto a lottare con una
lingua nazionale sentita come estranea, la lingua odiosa della casta.
A noi oggi questi ex-voto linguistici di miracoli presunti, insieme
colorati e strazianti, sembrano anticipare i linguaggi casual dei
social, in cui parlato e scritto si confondono. Li assaporiamo con un
retrogusto un po' amaro: vero che il grande linguista è stato un
pioniere degli studi sull'italiano «basso» e popolare, ma al di là
di una generica simpatia per questi italiani lamentosi e
furbacchioni, i suoi doveri di suddito leale e i suoi piaceri di
ricercatore goloso hanno finito per prevalere sull'umana pietà
dovuta ai prigionieri. A concedergli le attenuanti generiche, la
considerazione che per una bizzarra eterogenesi dei fini il suo
lavoro di censore troppo bravo ha finito per restituire le vittime al
loro ruolo di testimoni e attori.
Tuttolibri - La Stampa, 20 luglio 2019
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